[BARCELLONA]
“Con Podemos sì!”, “Con Casado no!”. In questi due slogan, gridati dalla militanza a Pedro Sánchez in calle Ferraz, sede nazionale del Psoe a Madrid, stanno le due sponde della possibilità di un governo in Spagna. Con una variabile che rende tutto più difficile, l’indispensabile appoggio degli indipendentisti catalani alla prima ipotesi. Forse, mai vittoria elettorale fu più amara per un leader politico come questa per il segretario socialista. Amara e potenzialmente fatale.
Il Psoe resta primo partito ma perde tre seggi rispetto al 28 aprile scorso e scende a 120. Cresce il Partido popular (Pp), da 66 a 87 seggi, recuperando e consolidandosi in seconda posizione anche se restando lontano dalla simbolica soglia dei cento seggi. Crolla Ciudadanos (C’s), che passa da 57 a dieci deputati. Perde sette seggi Unidas Podemos (Up) che si ferma a 35 e ne ottiene solo tre la nuova formazione Más País (Mp), nata da una scissione di Podemos. Vincitrice “morale” del voto è l’estrema destra di Vox che raddoppia i deputati passando da 24 a 52. Sul fronte catalano, Esquerra republicana de Catalunya (Erc) perde due seggi e si ferma a tredici, mentre Junts pel Cat (JxC) ne guadagna uno salendo a otto e due vanno alla Candidatura d’Unitat popular (Cup), formazione indipendentista catalana di estrema sinistra (e En Comú Podem, della sindaca di Barcellona Ada Colau, mantiene i sette deputati nelle file di Up). Guadagnano un seggio sia il Partido nacionalista vasco (Pnv), sette, che la formazione della sinistra nazionalista basca, Bildu, che ne prende cinque.

Una prima evidenza dei risultati è che gli spagnoli hanno voluto punire i tre partiti responsabili del mancato varo del governo. Il Psoe, il cui segretario è stato giudicato il principale responsabile del mancato varo di un governo, come pure C’s, che negò l’appoggio esterno a un monocolore socialista, e anche Up, che ugualmente rifiutò l’appoggio esterno volendo entrare nell’esecutivo con suoi ministri.
La parabola di Ciudadanos è illuminante. Albert Rivera poteva stare al governo col Psoe, con una comoda maggioranza assoluta di 180 deputati. La rincorsa a destra lo fece recedere allora e la ricerca del sorpasso sul Pp lo ha portato nell’abisso. In questo ci sono assonanze con Pablo Iglesias che pagò duramente la stessa dinamica, la ricerca del sorpasso sui socialisti, due anni fa. Rivera ha dilapidato l’investimento che la stampa madrilena e influenti circoli politici e economici, sia in Spagna che a Bruxelles, avevano fatto su di lui come rappresentante di un moderno ed europeista centro macroniano che sostituisse il vecchio e corrotto sistema di potere popolare. Solo stamane, tardivamente, Rivera ha offerto le sue dimissioni.

Alla luce dei risultati la strategia di Pedro Sánchez e del suo consigliere politico, Ivan Redondo, è stata fallimentare. Decidere di non fare il governo dopo il voto di aprile e tornare alle urne si è rivelato un grave errore. I 140 deputati e l’affondamento di Up, immaginati dopo le amministrative e europee dello scorso maggio, non sono arrivati. A dare la misura del danno autoprocuratosi, più che alla Camera, si deve guardare ai risultati del Senato, snodo cruciale di ogni riforma, dove il Psoe perde la maggioranza assoluta, crollando da 121 a 92 deputati. Eppure Sánchez era stato ampiamente avvertito. I socialisti catalani, valenziani e baleari avevano espresso sia le preferenze per un’alleanza con Up che i loro timori per i risultati di un nuovo passaggio elettorale.

Tutto è più difficile adesso per la formazione di un governo. Tornare ancora alle urne sarebbe un rischio enorme per la democrazia spagnola, un governo deve quindi essere fatto. I rapporti tra i blocchi sono rimasti sostanzialmente invariati, 158 deputati ha il centrosinistra, 150 il centrodestra, e maggiori sono le possibilità per il centrosinistra di trovare altri appoggi parlamentari. Ora che Sánchez ha perduto anche la sponda di C’s, non più sufficiente per un governo in solitario, ha davanti a sé solo due strade. Un accordo con le sinistre aperto ai nazionalisti baschi e catalani e a qualche deputato regionale o un governo di “concertazione nazionale”, che veda in qualche modo l’appoggio dei popolari di Pablo Casado.

Pedro Sánchez non ha fatto cenno a nessun errore, rivendicando la sua vittoria e la necessità di un governo progressista. Ma adesso la sua posizione traballa. Magari non subito ma nel Psoe potrebbero muoversi contro di lui e, nell’immediato, il varo di un governo è complicatissimo. Con le tensioni catalane alle stelle e l’auge di Vox, un’operazione che sembrava difficile sei mesi fa, un governo con l’appoggio di Erc in forma di astensione, appare oggi quasi impossibile. Un accordo col Pp, però, oltre a comportare un terremoto dalle conseguenze imprevedibili, potrebbe passare per un veto proprio su Sánchez. Pablo Casado ha nuovi margini e potrebbe chiedere un suo passo indietro per consentire l’elezione di un capo del governo socialista.
Per non cadere ostaggio dei popolari il segretario ha davanti a sé solo la strada di un accordo con le sinistre in grado di guadagnare altri appoggi, a partire dagli indipendentisti catalani di Erc. Il bilancio del voto non è per niente buono per il futuro politico di Pedro Sánchez.

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