Lo schema si ripete: quando si è in crisi o in passaggi cruciali del proprio destino politico, ovvero quando la tua capacità di attrarre consensi, e finanziamenti, per la resistenza al nemico (sionista) viene messa in crisi, ecco le “eliminazioni mirate”, ecco i razzi che piovono su Israele. Un primo ministro che cerca di sopravvivere politicamente alle inchieste giudiziarie che lo chiamano in causa direttamente e che cerca di rimanere in vita politica riportando il paese in trincea. Un movimento eterodiretto che, per non essere scalzato dalle cellule dello Stato islamico trapiantate nella Striscia, ripropone il peggio di una tragedia già vista.
C’è tutto questo dietro l’uccisione di Baha Abu Al Ata, leader della Jihad islamica palestinese, “eliminato” la notte scorsa in un raid condotto da Israele su Gaza City.
Baha Abu al-Ata era il principale organizzatore di terrorismo a Gaza. Stava per organizzare nuovi attentati. Era come una “bomba in procinto di esplodere,
dichiara il premier ancora in carica Benjamin Netanyahu.
Annunciamo la mobilitazione generale dei nostri combattenti e delle nostre unità e comunichiamo che la risposta a questo crimine non avrà limiti e sarà pari all’entità del crimine che il nemico ha commesso,
afferma una nota della Jihad islamica palestinese.
Uccidere Abu Al-Ata non passerà senza una risposta. […] Le uccisioni non possono e non riusciranno a porre fine alla resistenza,
ha detto un portavoce di Hamas a Gaza, Hazem Qassem, alla tv satellitare al-Jazeera.
La risposta arriva dal cielo. Ed è una risposta esplosiva. Dalla prima mattinata almeno cinquanta razzi sono stati lanciati verso Israele dai palestinesi di Gaza. Lo riferisce il portavoce militare di Tel Aviv. Di questi, venti sono stati intercettati dal sistema di difesa Iron Dome. Altri sono caduti in aree aperte. E la popolazione di Gaza torna ad essere una popolazione in gabbia, ostaggio di due nemici che si sorreggono l’uno con l’altro, perché, da fronti opposti, conoscono e praticano lo stesso linguaggio: quello della forza.
È la storia di tre guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l’“entità sionista” (Hamas).

È la storia di punizioni collettive, di undici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. Una storia insanguinata che chiama in causa i due “Nemici”, ognuno dei quali, per il proprio tornaconto, ha lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché “compromesso” è una parola che non esiste né nel vocabolario politico della destra israeliana né in quello di Hamas e della Jihad islamica. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro.
Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”. Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra israeliani e palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante.

Nello schema dei “resistenti” di Gaza e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas e della Jihad per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. E per la Jihad islamica e Hamas sparare missili su Israele è riaffermare la propria leadership nel variegato fronte della resistenza palestinese. Hamas può al massimo contemplare una “hudna” (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza. La tragedia di due popoli è racchiusa in questa drammatica, voluta, ripetitività.

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