Sarri e Ancelotti, un calcio alle convenzioni

Entrambi sessantenni, classe 1959, uno di Napoli ma toscano d’adozione, l’altro emiliano di Reggiolo e autentico giramondo del pallone, hanno come principale caratteristica quella di sapersi adattare alla perfezione all’ambiente in cui si trovano a lavorare.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Per restare nella metafora della splendida canzone di Francesco De Gregori, non c’è dubbio che Maurizio Sarri e Carletto Ancelotti, accomunati dall’anno di nascita e da alcuni altri aspetti non abbiano mai avuto paura di tirare il proprio calcio di rigore. Entrambi sessantenni, classe 1959, uno di Napoli ma toscano d’adozione, l’altro emiliano di Reggiolo e autentico giramondo del pallone, hanno come principale caratteristica quella di sapersi adattare alla perfezione all’ambiente in cui si trovano a lavorare.

Prendete il guevarista Sarri. Ai tempi in cui allenava il Napoli, nacque persino una pagina Facebook intitolata: “Sarrismo – Gioia e Rivoluzione”. Si presentava in panchina in tuta o, al massimo, in maglietta, faceva del bel gioco la propria cifra stilistica ed esistenziale, sfidava la Juventus a colpi di dichiarazioni roboanti, assecondava il masaniellismo tipico di una parte del mondo partenopeo e condiva il tutto con uno stile quasi eduardiano, a metà fra il malinconico e il combattivo, il rassegnato e il rivoluzionario, come se fosse uscito un personaggio di “Napoli milionaria” o fosse uno dei “bastardi di Pizzofalcone” plasmati dalla penna fertile di Maurizio De Giovanni.

Era ruvido, a tratti scontroso, sempre incline al politicamente scorretto, ideale per un ambiente difficile e, oggettivamente, defraudato da una storia patria che col Sud è sempre stata avara di soddisfazioni e riconoscimenti.

Il Sarri dei tempi di Napoli era un Garibaldi che non dice “obbedisco” al re, un conquistatore che non si piega, un Maradona della panchina che non faceva mistero di preferire Landini a Renzi e di essere figlio di un operaio dell’Italsider, dunque di sinistra. Guardatelo oggi.

Sbaglia chi sostiene che si sia venduto. Sarri è rimasto se stesso, con le sue letture, le sue sigarette, il suo rifiuto di indossare giacca e cravatta, la sua indole ribelle e il suo spirito indomito che l’hanno reso un personaggio che sarebbe piaciuto da morire ad alcuni cantori della nostra epica pallonara come Gianni Brera e Pier Paolo Pasolini. Solo che ha capito fin da subito ciò che gli era richiesto nell’austera Torino: vincere, possibilmente giocando bene ma senza perdere di vista l’obiettivo principale. Ed ecco che il sarrismo si è mondato dei fronzoli, ha smarrito i ghirigori, gli arabeschi e alcuni attimi di lucida follia per trasformarsi in una macchina implacabile, in cui il gioco non sempre è brillante ma il risultato viene messo comunque in cassaforte, la difesa subisce poche reti e l’attacco fa il suo senza strafare. Ed ecco che le scoppiettanti conferenze stampa di Napoli si sono trasformate in disfide dialettiche per intenditori, giochi di parole basati sul dico e il non dico, lotte con se stesso per coniugare al meglio il padrone e l’operaio, il rivoluzionario e l’aziendalista, un po’ Valletta e un po’ Di Vittorio, come del resto fece a suo tempo Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino.

Mi sono convinto, negli anni, che alla Juve funzionino alla grande proprio quelle che potrebbero sembrare, a un primo sguardo, colossali contraddizioni. Del resto, negli anni Settanta, il capolavoro dell’Avvocato e di Boniperti fu quello di allestire una corazzata di meridionali affamati di riscatto in cui il proletario, che la domenica veniva a godersi uno spettacolo popolare prima di tornare l’indomani in fabbrica, potesse identificarsi.

Non a caso, il capitano di quell’“invincibile armada” era Beppe Furino, palermitano purosangue, e il furetto d’attacco era Pietruzzo Anastasi da Catania, uno che bastava guardarlo in faccia per ripassare la dominazione araba in Sicilia.

Sarri, il bancario che divenne un vate della panca, la versione sinistra di Arrigo Sacchi, ha imparato la lezione e la sua maniacalità si è sposata alla grande con il progetto di un club che non tollera sbavature né eccessi di sorta.

Carlo Ancelotti e in apertura Maurizio Sarri

E adesso prendete Carletto, il fuoriclasse di Roma e Milan, secondo di Sacchi in Azzurro a USA ’94, emblema della società multietnica e del mondo senza frontiere. Il leader calmo, come si è definito egli stesso in un libro, capace di vincere ovunque, di domare Londra e Parigi, di regalare l’agognata “decima” al Real, di trionfare persino nell’arcigna Germania, prima di essere follemente esonerato da un Bayern in crisi di identità, oltre che di nervi, e di imporsi nell’immaginario collettivo come un elegante manager in giacca e cravatta, ha scoperto a Napoli la sua vena artistica.

Sbarazzino, irriverente, caustico, un po’ Totò e un po’ De Crescenzo, come se il politico serio e sgobbone e il fratello bipolare di un celebre film di Roberto Andò si fossero fusi in una persona sola e ne fosse emerso un folle assennato, un Masaniello anti-populista, un trascinatore di masse esaltate che non perde mai occasione per ribadire la propria signorilità.

Né Sarri né Ancelotti si sono snaturati o hanno rinunciato a se stessi e alla propria personalità. Semplicemente hanno fatto di necessità virtù, adattandosi al contesto e lasciandosi cambiare e migliorare da due città, Torino e Napoli, che appartengono alla medesima nazione ma costituiscono due mondi inconciliabili. Cos’è, in fondo, viaggiare se non esplorare nuovi orizzonti, mettersi continuamente in gioco e sconfiggere le proprie ansie e i propri pregiudizi?

Sarri e Ancelotti viaggiano e continueranno a viaggiare, a vincere, a costruire squadre impeccabili e a regalare gioia al cuore imbarbarito di chi, seguendo questa fede laica che è il pallone, riesce a far emergere un po’ del bambino che la corteccia sviluppata da tutti noi negli anni ha drammaticamente nascosto. Perché “un giocatore – tornando a De Gregori – lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”, tre elementi di cui Sarri e Ancelotti non difettano di certo.

Sarri e Ancelotti, un calcio alle convenzioni ultima modifica: 2019-11-12T21:36:00+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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