Pomeriggio al Teatro Goldoni, prima uscita pubblica dopo una settimana da alluvionato; sul palco non c’erano commedie ma semplicemente disorientati esseri umani, come del resto lo era il pubblico in sala. Motivo del disorientamento? La futura divisione (o meno) fra Venezia e la Terraferma (così chiamano i veneziani tutto quello che si trova oltre il Ponte della Libertà).
Dividersi perché così non va o rimanere uniti perché mal comune mezzo gaudio? Questo mi è sembrato il succo del discorso, anche se me ne sono andato prima della fine e magari mi sono perso una bella scazzottata fra un signorotto rialtino e una nerboruta signora mestrina-ex-veneziana.
Pubblico in platea: età media sessantacinque, eleganti ma sobri, mediamente colti.
Pubblico in loggione: età media 35, ritardatari, nuovi veneziani precari.
Alle poche domande intelligenti non si è risposto perché erano troppo intelligenti (le domande); è stato piuttosto uno show di alcuni veneziani noti (che amano farsi vedere piuttosto che farsi sentire e ancora meno capire) inframmezzato da urla di qualche cafone e timidi applausi del pubblico non appena si sentiva qualche parola sensata.
Ma perché dividersi? E perché stare insieme?
Le ragioni e i torti stanno da tutte e due le parti. Riassumendo le puntate precedenti (la storia recente veneziana) possiamo dire che Mestre è diventata parte di Venezia solo durante il fascismo (non per volere degli abitanti ma semplicemente perché l’ha deciso LUI). A quell’epoca Venezia era una grande città, e le ambizioni erano quelle di farla diventare ancora più grande; un centro (Venezia), una zona industriale (Marghera) e una nuova periferia (Mestre e dintorni). Una pianificazione diciamo classica, che poteva andare bene per qualsiasi altra città ma che in questo caso non sembra aver funzionato al meglio (come ha funzionato poco anche in altri luoghi).
Il centro (Venezia) è diventato il centro solo di se stesso (o al massimo della laguna, anche se ha perso pezzi per strada, vedi Cavallino-Treporti), la zona industriale di Marghera è implosa, Mestre invece, dopo aver tentato di trovare una sua identità commerciale è stata disintegrata dalla moltitudine di centri commerciali che sono sorti nelle sue ulteriori periferie.
Quindi? Tre centri senza identità in cerca di un senso per sopravvivere in questa “società liquida” come la chiama Zygmunt Bauman, senza certezze e senza possibilità di previsione del futuro.
Le amministrazioni europee sono sempre rimaste intrappolate in questa visione “centro-periferia” e hanno disegnato le città tracciando dei cerchi concentrici che partivano dalla piazza e attraverso le sue vie principali si perdevano verso la campagna.
Ma Venezia non ha un’urbanistica europea, non è una città, è un insieme di tante isole, alcune unite da ponti (e questo è avvenuto solo recentemente) e altre via via sempre più distanti da quello che era il centro (in questo caso centro del potere), partendo dalla Giudecca, da Murano, Burano fino alle isole minori, ognuna con la sua identità, la sua comunità, le sue chiese, i suoi campi.
Anche la Venezia “classica” sebbene divisa in sestieri non s’identifica con questa divisione “postale” ma piuttosto con un campo, una chiesa, una zona: quelli di via Garibaldi, di Santa Marta, di Campo San Giacomo, quelli della Baia del Re.
Nel Novecento si è voluto sovvertire quest’ordine antico, a Venezia i cittadini, a Marghera gli operai, a Mestre… i piccoli commercianti.

L’Aqua Granda del 1966 ha dato la mazzata finale, i poveri veneziani, quelli che abitavano i piani terra, sono stati mandati in Terraferma, in esilio a vita. Quella prima generazione si è sempre sentita veneziana, mai di Terraferma; a Campalto, a Marghera, a Favaro, a Chirignago sono nati i quartieri per gli esiliati; i figli e ora i nipoti, si sono ritrovati in luoghi di periferia che non si sono mai riorganizzati come centri veramente autonomi, subendo, nel tempo, le scelte di un’aristocrazia che dalla Venezia insulare (il centro del potere) ha deciso per loro.
Si è tentato di nuovo di creare una grande città, moderna, con un centro storico (chiamandolo Centro Storico con le iniziali maiuscole) e una Terraferma poliedrica. Ma di nuovo gli equilibri erano instabili, il Centro Storico decideva nonostante la popolazione fosse in maggioranza in Terraferma.
Le ultime elezioni hanno scompigliato le carte all’aristocrazia rialtina, Brugnaro scende in campo e vince, promettendo una grande città di Terraferma e una Venezia chic per la “Bella Gente”.
In tre anni poco cambia, o forse troppo.
Una metropoli (per la sua complessità) gestita da un businessman si trasforma velocemente in un anarchico arcipelago turistico. Grandi ostelli a Mestre stravolgono la vita cittadina, botteghe di bigiotteria, barconi turistici chiassosi ed inquinanti invadono la Venezia insulare, il tutto sommato a problemi ben più grandi come le Grandi Navi, l’inquinamento padano, l’innalzamento dei mari.
E allora? Perché votare ni?
Perché con due (ma anche tre o quattro comuni autonomi, ci metterei dentro anche Marghera e Favaro) non ci sarebbero più amministrazioni foreste, né in Terraferma per i terrafermiani né a Venezia per i veneziopolis.
Si potrebbe tentare la via di una “città speciale” che è l’Arcipelago di Venezia e di una metropoli di Terraferma (la chiamerei proprio così, Metropoli di Terraferma, mi suona bene, sembra una cosa stabile, sicura).
Queste due realtà non sarebbero in contrapposizione, sono lo ying e lo yang, ormai non potrebbe esistere una senza l’altra.

Punto di contatto sarebbe l’acqua (che purtroppo sale sempre più), con la zona di conterminazione lagunare di Marghera e Campalto, dove potrebbero svilupparsi le nuove isole galleggianti della terza metropoli, Vemezia, la galleggiante, un nome tarocco per una città vera, aperta ai giovani di ogni età, a quelli di Venezia che vogliono avvicinarsi alla Terraferma e a quelli di Terraferma che vogliono sperimentare una vita anfibia; in quella città in movimento si potrebbe ripensare il senso della Serenissima, sperimentare una vita lenta, a contatto con la natura, ripensando il rapporto con la laguna, lanciando segnali al mondo, raccontando anche agli eredi di Kublai Khan, come fece Marco Polo, che un’altra via è possibile.


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