Il 4 novembre 1966 ero un bambino di otto anni; l’aqua granda la ricordo vista dalla finestra di casa, la laguna in tempesta sull’isola di San Giorgio Maggiore e la massa lenta e scura che lambiva i primi due gradini della scala sotto l’ingresso di casa era tutto quello che vedevo di essa.

La notte del 12 novembre scorso invece sono andato in piazza San Marco, spinto da quel nonsisamai che ogni tanto si fa vivo dentro il cronista.
La foto 1 l’ho scattata alle ore 21 e 38, come dal database della Nikon usata, nel momento in cui la tromba d’aria, che ha già sconvolto Sant’Elena e il molo, entra a San Marco, e fa il giro della piazza con spaventosa furia, attorno le procuratie solleva in mulinelli l’acqua, che fino a poco prima stagnava tranquillamente: la foto fa il verso a questa in bianco e nero, scattata il 4 novembre del ‘66, credo da Ermanno Reberschak: per caso mi trovavo nello stesso punto di allora, ma non a caso mi è scattata subito in mente quella foto, nonostante il putiferio di vento e acqua del momento: accade se una fotografia diventa una icona simbolo di un determinato evento…

La terza foto è stata presa alle 9 e 43 del giorno successivo, 13 novembre 2019: danni e disastri evidenziati dall’immagine simbolo di questa nuova aqua granda, il vaporetto incastrato sul ponte della Ca’ di Dio; che però resta sullo sfondo: protagonisti sono i turisti orientali, con le calosce, sbarcati ugualmente in riva degli Schiavoni dal tour operator. Forse una coincidenza, chissà, forse non si è potuto fermare per tempo la gita; chissà poi se quei viaggiatori sono stati informati sul disastro della notte precedente; di certo non hanno trovato caffè e ristoranti a ristorarli.

A modo suo è l’immagine della Venezia che non s’arrende, oppure immagine speculare della città costretta a dar spettacolo anche quando è ferita.
O forse è davvero solo una coincidenza: la fotografia non è mai verità assoluta.

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