La gimkana di Pedro Sánchez

Il cammino verso la formazione del governo spagnolo prosegue su un percorso accidentato. Molti ostacoli si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo, a cominciare dal fatto che quella tra Psoe e Podemos si configura oggi, dopo i risultati elettorali, come un’unione tra due debolezze.
ETTORE SINISCALCHI
Condividi
PDF

Il cammino verso la formazione del governo spagnolo prosegue su un percorso accidentato. Molti ostacoli si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo, a cominciare dal fatto che quella tra Psoe e Podemos si configura oggi, dopo i risultati elettorali, come un’unione tra due debolezze.

Debolezza nei risultati – rispetto alle urne del 28 aprile il Psoe ha perso oltre settecentomila voti e tre seggi, Unidas Podemos oltre seicentomila e sette seggi – e nelle prospettive politiche. Ma quello delle sinistre si configura oggi come un accordo politico obbligato, sul quale adesso è piombata anche la sentenza per il Caso ERE che colpisce pesantemente il Psoe. 

Si tratta di uno scandalo che ha visto l’uso fraudolento di ingentissime quantità di denaro in un sistema di aiuti sociali a imprese in crisi, erogati al di fuori di ogni controllo della Intervención General, l’autorità finanziaria del governo della Giunta andalusa. In maniera opaca, favorendo gli interessi di compagnie assicurative e privilegiando determinati territori e aziende, a volte in capo a ex dirigenti socialisti, sono stati finanziati prepensionamenti e cassa integrazione tra il 2001 e il 2010. Il colpo travolge i vertici del governo autonomico e dei socialisti andalusi, arrivando a quello che fu il cuore del Psoe nazionale. La sentenza condanna diciannove persone, tra le quali l’ex presidente della Giunta José Antonio Griñán, a sei anni di prigione e all’inabilitazione per quindici anni per i delitti di prevaricazione e malversazione, e il predecessore Manuel Chaves, a nove anni di inabilitazione per prevaricazione. Chaves è stato presidente del Psoe, ministro del Lavoro con Felipe González, ministro e vicepresidente del governo con José Luis Rodríguez Zapatero: un protagonista della storia recente dei socialisti. 

Felipe González, disegnato da Luis Grañena (CTXT)

Si capisce bene come nel Pp, travolto dalla sentenza del caso Gürtel, abbiano stappato casse di champagne. E approfittato per vendicare l’onta subita allora – fu la sentenza Gürtel che fece scattare la presentazione della mozione di sfiducia che, abbattendo Rajoy, elevò Pedro Sánchez a capo del governo (è la sfiducia costruttiva, bellezza). E a poco vale dire che per i popolari venne provato il lucro, sia per i politici coinvolti che per l’intero partito nazionale, mentre qui non c’è lucro né finanziamento illecito, perché la sentenza non viene certo a facilitare le cose a Pedro Sánchez, né a Pablo Iglesias. Le cui prospettive politiche, dicevamo, sono ridotte e a breve e, per entrambi, passano dal varo del governo. 

Iglesias ha lavorato per questo, modellando Podemos a questo scopo, mancando già due volta l’obiettivo. La prima inseguendo un voto che regalasse il sorpasso sul Psoe – e vide invece netto vincitore Mariano Rajoy che si confermò al potere – la seconda, l’ultima, da ascrivere più alla volontà del segretario socialista ma in cui certo Iglesias non ha brillato per visione del campo. 

Anche Sánchez non ha alternative. Il ritorno alle urne è già stato giocato, malamente, ed è costato caro. Il crollo di Ciudadanos ha eliminato sia la possibilità di un monocolore di minoranza con il voto favorevole degli arancioni che di un’eventuale alleanza, caldeggiate a Madrid come a Bruxelles. Un accordo coi popolari, proposto recentemente dall’ex segretario e due volte capo del governo del Pp, José María Aznar, è impraticabile. Verrebbe letto come un “patto del bipartitismo” o come una maggioranza “costituzionalista”, scontenterebbe gli elettorati di riferimento, principalmente per i socialisti, rischiando di diventare un abbraccio mortale per Sánchez, davanti alla militanza, alla quale per due volte ha fatto appello per ritornare alla guida del partito promettendo una svolta a sinistra, ma anche perché il prezzo chiesto da Pablo Casado potrebbe essere un altro nome come capo del governo, ovvero la sua testa. 

Pedro Sánchez disegnato da Luis Grañena (CTXT)

Ancor più ora, dopo la sentenza ERE l’unica strada è l’accordo con Up, con la necessità di costruire quel gioco di astensioni benigne e voti favorevoli che consentano, almeno in seconda battuta quando non serve più la maggioranza assoluta, la conquista della fiducia per l’esecutivo. E questa volta, i voti degli indipendentisti catalani sono cruciali.

Il Psoe ha 120 seggi, UP 35, la maggioranza assoluta è di 176, in seconda votazione basta quella semplice ma i 155 seggi dell’accordo non bastano, occorrono altri appoggi e astensioni per pensare che oltre al varo sia possibile una navigazione. 

Sánchez può contare su sei voti a favore dal Partido nacionalista vasco (Pnv), tre da Más País di Íñigo Errejón e dovrebbero arrivare anche cinque voti da quattro diverse formazioni regionaliste, arrivando a 169. Se i no sicuri, a oggi, sono i 143 di Pp, Vox e Navarra suma – lista di coalizione locale tra Pp, C’s e un partito regionalista, da qualcuno proposta come modello nazionale di un accordo fra Pp e C’s – si capisce come le sorti del “governo obbligatorio” dipendano tutte da come si comporteranno gli indipendentisti catalani e Ciudadanos. Se C’s, infatti, confermasse il voto contrario e se i tre partiti indipendentisti – Erc, Junts pel Cat (JxC) e la Cup, la lista indipendentista di estrema sinistra per la prima volta presentatasi in Parlamento ottenendo due deputati – si arriverebbe ai 176 voti che boccerebbero il governo. 

Si azzarderà Erc, indipendentista e repubblicana, a votare con le destre del “trifachito” (Pp + C’s + Vox)? E l’accordo politico di maggioranza avrà la forza di sostenere il carico simbolico dell’appoggio di una parte degli indipendentisti catalani? Tutto questo sempre se Erc avrà la forza di sancire una rottura del fronte indipendentista, diviso più che mai anche se governa insieme la Generalitat catalana. In una fase in cui progetti e leadership politiche mettono in gioco la loro sopravvivenza ogni scelta da difficile diventa drammatica.

È per questo che Sánchez sta tentando di rendere non necessario l’apporto di Erc, posto che si verifichino le sue condizioni nel contrastato e nervoso scenario politico catalano. Intanto, aspettando di vedere cosa succederà in quel che resta di C’s, coi suoi dieci deputati. Albert Rivera ha abbandonato la politica e il partito. Si fa il nome di Inés Arrimada per sostituirlo ma questo rappresenterebbe una sostanziale continuità con le scelte che hanno portato dalle stelle della agognata leadership del centro destra alle stalle della quasi sparizione di oggi. L’ondata di dimissioni dal partito, il fallimento strategico, la rottura con Manuel Valls, quindi del rapporto privilegiato con Bruxelles, richiedono ben altro per tentare di salvare un marchio politico che ha forse ancora qualche spazio nella mobile offerta del panorama politico spagnolo. Altro, che potrebbe passare da un’astensione che consenta il varo del governo.

Cosa può offrire invece Sánchez al partito di Oriol Junqueras affinché rompa il fronte indipendentista, cosa che non sarà indolore nel succitato, nervoso e sentimentale contesto politico catalano, sconvolto dalla sentenza agli indipendentisti catalani? Secondo alcuni commentatori basterebbe poco. Un tavolo, una mesa, un luogo che di istituzionale abbia almeno un bollo governativo, o magari parlamentare, che rappresenti l’apertura di un dialogo del governo spagnolo con la Catalogna, richiesto esplicitamente da Erc. Qualcosa che i catalani possano presentare in Catalogna come un risultato, come un cambiamento di passo, soprattutto, che renda meno amara la digestione del fallimento della via unilaterale, che solo Erc sembra, almeno nella dirigenza, avere assunto.

Pablo Iglesias disegnato da Luis Grañena (CTXT)

In fondo poco, si direbbe, se non fosse che in Spagna, oggi, è cosa difficilissima anche solo da dire. Nelle opposte trincee nelle quali la questione catalana è stata confinata non c’è spazio per la messa in discussione delle parole d’ordine. Il dubbio, il dissenso, entrano nella categoria del tradimento, pensare una sospensione delle ostilità è voltare le spalle alle patrie. Il dato simbolico ha la meglio sulle possibilità della politica, e non stupisca, guardando a un processo nel quale il sentimento e la propaganda hanno avuto la parte del leone, e a un’indipendenza unilaterale “dichiarata” tramite ordini del giorno non votati si è risposto riconoscendo un’eversione senza valore di legge come vera e affidando la pratica alla giustizia.

A esporsi, per conto dell’accordo Psoe-Up, sembra toccare a Pablo Iglesias.

Il dialogo è imprescindibile. Avremo un governo che lo assuma come asse fondamentale dell’azione politica e che affronti il problema della plurinazionalità in Spagna. Stiamo lavorando per ottenere questi appoggi e credo che ci riusciremo,

ha detto giovedì sera il leader viola.

Perché il governo che Sánchez e Iglesias dicono debba essere “per la legislatura”, potrà tentare di esserlo solo se riuscirà a impostare un dialogo per riforme anche profonde che risponda all’esaurimento e alla crisi della Spagna delle Autonomie come progetto unificante per la penisola. Una “necessità” che, bisogna dire, appare oggi irrealizzabile, lontana dalle capacità e dalla volontà delle classi dirigenti e della società spagnole. Resa ancor più difficile dai numeri e dalla perdita della maggioranza assoluta dei socialisti al Senato, snodo di ogni riforma. Il governo ha però bisogno di darsi una prospettiva in questo senso per poter nascere, anche se forse non sarà in grado di seguirla. Un punto di forza di Sánchez, forse l’unico, è che la Spagna non può permettersi di non avere un esecutivo e men che meno di ritornare al voto. Dopo due bilanci provvisori è necessario che un esecutivo sia in grado dopo tre anni di fare una legge di bilancio, di adeguare le rimesse alle autonomie, non esiste solo la Catalogna, di offrire all’Europa e ai creditori una politica economica. 

In questi giorni Sánchez è impegnato negli incontri con gli altri partiti e questo fine settimana sarà cruciale. Molte formazioni, infatti, sottopongono alle basi quesiti sulle scelte da compiere. Con diverse modalità, sempre legate a basi di aventi diritto registrati, socialisti, repubblicani e altri chiederanno se, in forme diverse, facilitare la nascita di un esecutivo. La consultazione di Erc sarà cruciale. Adriana Lastra, portavoce, cioè capo gruppo del Psoe, vice segretaria del partito e incaricata di tessere la rete di accordi con gli altri gruppi parlamentari, ha invitato i militanti di Erc alla “riflessione”, ricordando che “chi ha difeso sempre il dialogo dentro la Costituzione sono stati il Psoe e Unidas Podemos”, in un chiaro invito a cogliere l’occasione. 

José Luis Rodríguez Zapatero, disegnato da Luis Grañena (CTXT)

Ma oppositori al governo con Podemos e all’apertura di un dialogo ci sono anche dentro al Psoe. I vecchi nemici Felipe González e Alfonso Guerra sparano a zero sul patto. Perché “prima si ripartono gli incarichi e poi si discute il programma”, ha detto González, mentre Guerra lo ha definito “un dramma dal quale spero ci salveranno gli indipendentisti votando contro”. Juan Carlos Rodríguez Ibarra, ex presidente dell’Extremadura, ha prima minacciato le dimissioni dal Psoe in caso di dipendenza del governo dal voto di Erc, per poi chiedere di “conoscere le linee rosse se si va a negoziare con gli indipendentisti”. Insomma, le minoranze del Psoe aspettano il segretario al varco, pronte ad aprire le ostilità in caso di fallimento anche se non in grado di impedire il cammino del governo essendo i gruppi saldamente nelle mani del segretario. José Luis Rodríguez Zapatero, che a luglio fu tra quelli che fino all’ultimo mediò per un accordo, appoggia pienamente l’asse Psoe-Up.

Io desideravo che si producesse. Coloro che scommettono sul dialogo saranno quelli che avvicineranno il recupero della stabilità, dell’intesa e della convivenza,

ha detto con chiaro riferimento alla Catalogna.

Anche l’ex presidente del Congresso José Bono, pur avendo preferito altre soluzioni, riconosce che un accordo col Pp è “impossibile” e, dopo aver bacchettato Sánchez, che ha preferito “tenere un passero in mano anziché mille gabbiani volando”, in riferimento al ritorno alle urne, ritiene che questa sia “l’unica soluzione possibile” e dà fiducia al segretario “convinto che il Psoe non consentirà che si valichino due linee rosse: la promozione dell’odio sociale e che pochi indipendentisti decidano”.

Carles Puigdemont, disegnato da Luis Grañena (CTXT)

Il governo più difficile è anche quello più necessario. Dopo questo fine settimana di consultazioni interne della militanza sapremo se sarà più vicino o più lontano. Mentre si attende di vedere cosa succederà dei mandati di cattura internazionali per Carles Puigdemont e gli altri indipendentisti fuggiti all’estero, continuano le indagini sui manifestanti catalani e sulla violenza nelle proteste, con le ipotesi di reato gravissime, e le indagini per terrorismo a membri dei Comitati di difesa della Repubblica, gruppi spontanei vicini all’ultra sinistra nazionalista. Il futuro della Spagna sembra decidersi tutto sulla questione catalana e sulla capacità della politica di riportarla a sé.

La gimkana di Pedro Sánchez ultima modifica: 2019-11-22T20:16:09+01:00 da ETTORE SINISCALCHI
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

Lascia un commento