La parabola sudamericana del calcio europeo

La penetrazione economica nel Vecchio Continente di sceicchi e tycoon non risparmia lo sport più popolare, e non è un bello spettacolo.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Negli stessi giorni in cui ricorre il cinquantesimo anniversario di “O Milesimo”, ossia il millesimo gol in carriera di Pelé contro il Vasco da Gama (19 novembre 1969), la Vecchia Europa si vede costretta ad assistere allo stesso triste spettacolo che il Sudamerica conosce già da tempo. Al giorno d’oggi, infatti, un campione del calibro di Pelé resterebbe in Brasile per uno-due anni, dopodiché si scatenerebbe un’asta internazionale e sarebbe coperto d’oro per venire a giocare alle nostre latitudini, trasformandosi in un marchio planetario multimilionario e nell’obiettivo prediletto sia della stampa sportiva che di quella scandalistica.

Per sua fortuna, “O Rei” è vissuto, calcisticamente parlando, in tutt’altra epoca, tanto che non lasciò mai il Brasile, in quanto il suo addio avrebbe provocato disordini che il regime dell’epoca avrebbe avuto difficoltà a fronteggiare, salvo poi essere lasciato andare a spigolare gli ultimi brandelli di gloria ai Cosmos di New York quando ormai il meglio l’aveva regalato al Santos, amore sportivo di un’intera vita.

Ciò che non ci siamo ancora chiesti è chi potrebbe permettersi, oggi, l’ingaggio di un fuoriclasse di quel livello. Probabilmente, sarebbero in lizza alcune inglesi (i due Manchester, City e United, e il Liverpool), alcune spagnole (Barcellona e Real Madrid), la Juventus, il Bayern Monaco e il Paris Saint-Germain. Ebbene, fatte salve Barcellona e Real, che per ragioni politiche costituiscono altrettanti emblemi delle proprie regioni d’appartenenza, e tralasciando anche Juve e Bayern, punti di riferimento dei rispettivi campionati, le altre compagini hanno tutte la caratteristica di non essere amministrate da europei.

Se l’United è americano, al pari del Liverpool, City e PSG costituiscono altrettanti esempi della colonizzazione che stiamo subendo senza batter ciglio. E no, non si tratta di islamizzazione: non c’entra nulla la religione né la cultura, gli usi, i costumi e le tradizioni. C’entra molto il fatto che il calcio è un formidabile strumento di propaganda, business e penetrazione commerciale e, pertanto, conviene a sceicchi, petrolieri, emiri e stramiliardari di varia natura per insediarsi nel continente più ricco del mondo e nel vorticoso giro d’affari che vi ruota intorno. Non solo: acquistare una prestigiosa squadra di calcio è anche un ottimo espediente per conquistare consenso e, di fatto, condizionare la vita politica e civile del paese in cui si è deciso di investire.

Queste considerazioni non c’entrano nulla col sovranismo da operetta attualmente in auge. Sono, semmai, la spia del malessere dell’Europa, ossia di un continente che, non esistendo politicamente e incontrando molte difficoltà anche dal punto di vista economico, è facile preda di interessi esterni che nulla hanno a che spartire con i nostri princìpi e i nostri ideali e che, all’opposto, sono portatori insani di una cultura del regresso e della sistematica violazione dei diritti umani che, purtroppo, sta facendo scuola.

Basti pensare ai marchingegni messi in atto dal Qatar per aggiudicarsi i più che discutibili Mondiali del 2022. Basti pensare ai presunti finanziamenti del suddetto stato nei confronti dell’ISIS che, proprio a Parigi, ha compiuto quattro anni fa una strage nella quale rimase uccisa anche la nostra Valeria Solesin. Basti pensare a come siano lievitati costi e cartellini dei giocatori in seguito al loro ingresso sul mercato, di fatto alterandolo e accrescendo il divario fra chi può permettersi investimenti folli e chi, al contrario, è costretto a compiere notevoli sacrifici pur di far quadrare i bilanci.

Il primo fu il russo Abramovič, grande amico di Putin, quando nel 2003 acquistò il Chelsea e per qualche anno sembrò dominare incontrastato in Inghilterra e in Europa, salvo dover aspettare altri nove anni prima di riuscire ad alzare un trofeo in ambito internazionale. Poi sono venuti tutti gli altri: dai cinesi di Milan e Inter (adesso i rossoneri sono nelle mani del Fondo Elliott, americano) al già menzionato fondo qatariota di Nasser al-Khelaïfi che gestisce il Paris Saint-Germain e allo sceicco Mansour che, invece, si prende cura del City. E anche la favola Leicester, condotto da Claudio Ranieri alla vittoria in Premier League nel 2016, ha molto di bello dal punto di vista emozionale e delle passioni che seppe suscitare all’epoca ma ben poco sul piano sportivo, dato che il suo sfortunato presidente, scomparso lo scorso anno in un incidente aereo, non era certo un personaggio estraneo ai giochi del potere e del denaro.

Quali sono le conseguenze di quella che è, a tutti gli effetti, una colonizzazione economica del nostro continente? Innanzitutto, l’impossibilità di ribellarsi ai dogmi e ai dettami di stati e gruppi finanziari le cui regole e la cui visione del mondo sono assai più arretrati, sul tema dei diritti umani e non solo, rispetto ai nostri standard. Poi il già menzionato aumento del costo del giocattolo, ormai insostenibile per i più. Infine, la dittatura selvaggia e senza argini delle televisioni a pagamento che ha sconvolto il nostro rito domenicale, abbandonandoci alla giungla di anticipi, posticipi e partite giocate pressoché ogni giorno, fino a generare un’overdose che ha spento, o comunque affievolito, la passione di molti.

È un calcio ricco, ricchissimo, quello attuale, ma povero di ideali, di un entusiasmo autentico, di talent scout che girino ancora per oratori e campetti sterrati, dove il talento di un campione è messo a dura prova dagli interventi assassini di difensori macellai e da terreni di gioco su cui solo i fuoriclasse autentici sono in grado di distillare la propria arte.

Abbiamo più sponsor, siamo più globali, seguiamo d’estate tournée che si svolgono all’altro capo del mondo, parliamo tutte le lingue possibili e immaginabili e assistiamo al trionfo della società multietnica: alcuni di questi aspetti sono meravigliosi, oltre a costituire un antidoto al cancro razzista che sta sconvolgendo le società occidentali. Altri, invece, sono esecrabili, costituendo il trionfo della ricchezza sulla speranza, del potere bieco sulla forza di volontà, della disparità sul bisogno dilagante di giustizia sociale e pari opportunità.

L’Europa colonizzata dai petrodollari vede messa in discussione la sua stessa identità, il che, ribadiamo, non è un invito alla chiusura delle frontiere o a derive autarchiche che erano ridicole già ottant’anni fa, figuriamoci oggi. È, piuttosto, un invito alla politica e alle istituzioni continentali, sportive e non, a riprendere in mano il timone, prima che la nave vada definitivamente alla deriva e che ciò che vediamo in campo con il calcio e con lo sport non c’entri più nulla, trattandosi unicamente di un’orgia di miliardi per predoni annoiati. 

La parabola sudamericana del calcio europeo ultima modifica: 2019-11-24T18:30:41+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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1 commento

mario viola 27 Novembre 2019 a 10:37

Analisi tanto vera, quanto amara. Personalmente, a proposito dello strapotere dei media privati che hanno tolto a milioni di persone la possibilità dei godere delle gioie dello spettacolo più bello del mondo, ho disdetto gli abbonamenti alle tv private. Ma capisco che è troppo poco. ORAMAI, COME HA DETTO QUALCUNO UN PO’ DI TEMPO FA, TUTTO E’ MERCE!, ANCHE L’ANIMA?

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