Venezia. Referendum, le ragioni del mio sì

FRANCO AVICOLLI
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In vista del referendum che si terrà domenica primo dicembre nel Comune di Venezia, ytali ospita una serie di interventi a favore e contrari al quesito referendario.
Di che si tratta? Gli elettori veneziani saranno chiamati a pronunciarsi per la quinta volta sulla proposta di separazione – autonomia, preferiscono dire i sostenitori del sì alla divisione – tra Venezia, con le isole dell’estuario, e Mestre e terraferma. L’esito della consultazione avrà conseguenze sulla composizione della Città metropolitana di Venezia (852.472 abitanti a fine maggio) e su quella del Comune di Venezia (268.841 abitanti), suddiviso nelle municipalità di Venezia-Murano-Burano (69.679 abitanti), Lido Pellestrina (21.691), Favaro (23.376), Mestre Carpenedo (88.181), Chirignago-Zelarino (37.629) e Marghera (28.285).
Nel complesso 91.370 veneziani d’acqua e 177.471 di terraferma.
In caso di vittoria del “sì”, Venezia finirebbe al quarto posto tra i comuni veneti capoluogo di provincia, dopo Verona, Padova e Vicenza, mentre Mestre diventerebbe il terzo comune più popoloso della regione, il primo tra i non capoluogo di provincia. Sarà il quinto referendum sulla separazione. Nella tabella che segue i risultati delle precedenti consultazioni.

Non vivo il referendum come una festa e neppure come il giorno del redde rationem. Ne vivo però le ragioni e il disagio per i possibili strascichi e le lacerazioni che lo seguiranno. Plaudo a Guido Moltedo, il direttore di ytali che apre la sua rivista al confronto confermando in questo modo l’attenzione che riserva a Venezia.

Voto Sì perché condivido le ragioni del referendum già indicate nel Manifesto per l’autonomia di Mestre e Venezia [testo a fondo pagina]. Qui non intendo riprendere quanto già espresso, ma sottolineare ciò che ha ulteriormente rafforzato la mia posizione e che è emerso in questi pochi giorni di confronto a distanza fra favorevoli all’autonomia e contrari allo stesso referendum per considerarlo inutile o addirittura dannoso.

Per quanto mi riguarda, non mi riconosco nell’astensionismo e neppure nel No in cui  vedo il modo per non riconoscere nel voto il giudizio implicito di un Sì che condanna la mancanza di decisioni, quello che non è stato fatto negli ultimi trenta anni, almeno. Non  giustifico l’una e l’altra posizione  neppure pensando al possibile contenzioso sul risultato, perché lo considero un modo per bloccare il processo di autonomia in coerenza con la politica del dubbio e del rinvio, un nuovo trionfo della demagogia e del menopeggismo. 

Voto Sì, perché, malgrado coloro che non vogliono sentire, né vedere, né pronunciarsi, il carattere consultivo del referendum ne fa un atto di protesta per l’acqua alta sempre più frequente ed eccezionale, per le grandi navi che oltraggiano, inquinano e impongono nuovi scavi in laguna, per la pesante situazione determinata dalla monocultura turistica sempre più ciecamente finalizzata al profitto. E voto Sì per esprimere l’unico giudizio possibile verso coloro che hanno amministrato Venezia e non hanno costruito alternative a questa deriva culturale, civile e ambientale di cui Brugnaro sembra essere il punto di arrivo e che il referendum si nega di accettare come punto finale.

E voto Sì anche per gridare al No e all’astensionismo che essi non sono politicamente giustificabili soprattutto quando vogliono dare un significato riduttivo alla vicenda referendaria per l’incapacità di riconoscere le sue ragioni più profonde in una prospettiva che non solo non è divisoria, ma è una proposta per andare oltre l’unità geografica e amministrativa. E ciò perché essa intende affrontare la complessità delle problematiche ambientali e del vivere, del costituire comunità e convivenza non sulla base di convenzioni o forzature amministrative, ma sulla contiguità e convergenza di visioni. 

Le quali si riconoscono nella problematica dell’acqua alta e dell’equilibrio lagunare, sapendo che esse sono il volto veneziano di un problema generale di un paese in costante emergenza ambientale, quindi di una grave problematica che include la più generale questione ambientale e climatica e il suo rapporto con sistemi produttivi come quello dell’ex ILVA di Taranto.

Ritengo che l’appuntamento referendario sia anche l’occasione per definire spazi di convergenza su grandi temi come l’ambiente, il clima, i fenomeni migratori e con essi un progetto per il futuro che è possibile configurare sulla familiarità di problematiche locali che rendono più comprensibili quelle globali.

Credo che sia necessario entrare nell’ottica dei molti volti di una comune problematicità globale e affrontarla con la ricostruzione del rapporto virtuoso tra specificità urbane e caratteristiche del territorio. In tale contesto l’unità tra Venezia e Mestre appare nella disarmante banalità di un artificio amministrativo che condiziona le due città ad un progetto che prescinde dalle loro caratteristiche togliendo il necessario protagonismo all’una e all’altra. 

Mestre continua ad avere il ruolo di una periferia cresciuta fino ad assumere le esigenze della città adulta capace di essere riferimento, simbolo, luogo dell’appartenenza a specifiche qualità identificative, fattori fondamentali per la coesione sociale. E tuttavia, tali categorie si configurano in un percorso che configge con la natura di Venezia. 

Nello specifico, il punto di conflitto diventa concreto nell’area lagunare, un ambiente vitale per Venezia e imprescindibile per un sistema portuale che collega Venezia e Mestre alla grande area industriale che guarda alla pianura padana e al nord. Il punto è che questo contesto operativo richiede canali, come quello dei petroli, interventi invasivi che hanno effetti distruttivi sulla laguna. Nella quale insistono altri fenomeni come quello delle maree con effetti che ne accrescono la problematicità e mettono in ginocchio Venezia con una frequenza inusitata che fa pensare a un progressivo peggioramento. Rimando per una visione chiara alle perizie e considerazioni di esperti come D’Alpaos, Bonometto o Danella che indicano possibili soluzioni e comunque interventi necessari per ristabilire una vita lagunare gravemente compromessa. 

Alla situazione già di per sé grave e al Mose pensato per risolverla che però non funziona, si aggiunge il flusso delle grandi navi, espressione di un turismo marittimo quantitativo complementare alla collocazione di Venezia in un progetto industriale in cui è importante l’attività portuale. 

In tale quadro, non può sfuggire che l’idea di un mondo subordinato ai progetti industriali e alle politiche occupazionali è svincolata dalla qualità del territorio e che, per tali ragioni, il destino di coloro che lo abitano, accomuna le problematiche ambientali veneziane e lagunari alla questione dell’ex ILVA di Taranto o alla distruzione dell’Amazzonia. 

Venezia ha la straordinaria qualità di essere la realizzazione e l’immagine di quella che viene definita dimensione umana della vita. Di una città in cui si manifesta la centralità dell’uomo e nello stesso tempo la sua precaria condizione di entità soggetta alle leggi del profitto. Di una città che ha il corpo del progetto umanistico che si cura della storia e del suo lascito di attività e abilità, che si occupa più del percorso che del traguardo, più della qualità che della quantità, più della varietà che dei suoi equivalenti. Quanta compatibilità esiste fra il progetto di sviluppo in chiave industriale e il destino di Venezia?

La città lagunare esprime la civiltà dell’abitare, del sistema che si definisce nel rapporto tra uomo e territorio in cui si riconosce la cultura umanistica con le sue simbologie che creano comunità, riferimenti di riconoscibilità. Essi sono i palazzi, i ponti, le immagini, i luoghi del culto, realtà configurate in un contesto sapienziale fatto di conoscenze, competenze, abilità. Sono gli elementi che definiscono insieme le civiltà e i loro sistemi di valori. Non si capisce perché oggi – o forse si capisce troppo – questo sistema non possa e non debba funzionare. 

La ricchezza di Venezia è Venezia in quanto dato e sistema. Ed è un sistema fatto di conoscenza e apprendimento, abilità e competenze, professioni e funzioni, scuole professionali e di capacitazione, centri di ricerca sulla vita in acqua e in laguna, sui materiali e i problemi della navigazione, sul trasporto di cose e persone, del vivere in acqua, dei problemi ambientali. E pare che tale dimensione trovi l’interesse del mondo.  Ed è possibile che ciò dipenda dal fatto che “il male di vivere” trovi a Venezia sollievo e che perciò essa sia coinvolta in modo diretto e addirittura esemplificativo nelle problematiche del vivere. Perché non considerare questo il sistema su cui innestare un flusso turistico compatibile?

A Venezia il turismo porta indubbiamente vantaggi quantitativi, cioè tanto denaro, ma la merce diventa sempre più scadente, le attività sono sempre più dozzinali, la vita dei residenti sempre più marginale. In questo contesto, accade paradossalmente che la città della bellezza e dell’arte non curi adeguatamente o per nulla, né  l’una né  l’altra.

In forma diversa ma con caratteristica affine si presenta il caso dell’ex ILVA di Taranto. Dove gli operai sono anche padri di famiglia, fratelli, figli, mariti. Essi lavorano in fabbrica e in condizioni insalubri per assicurare prospettive ai propri cari; ma poi si rendono conto che il loro sacrificio non è sufficiente perché la fabbrica uccide dentro e fuori. Non sono forse questi i problemi del nostro tempo? 

Ma c’è anche una questione di metodo che mi spinge a votare Sì. E si tratta del rifiuto di una politica bloccata in una specie di pratica accademica che guarda più alla dottrina che alla dinamica dell’accadere, che si guarda più alle spalle che davanti, che non sa o non vuole riconoscere che il volto del disagio è diverso dall’identikit che ha l’odore stantio degli archivi, che è basato su principi quantitativi di sviluppo e non qualitativi e non riesce ad elaborare un’idea di ricchezza svincolata dal capitale e più collegata alla qualità di vita, alla quotidianità e al rapporto virtuoso con il territorio dell’appartenenza che non è solo geografico. 

Il referendum mette a nudo questa pochezza, questa mancanza di visione. Che è poi quella che non riesce a vedere Venezia all’esterno di un progetto ricettivo e museale come mostra il destino passivo riservato all’arsenale mai pensato come possibile idea nuova di università, di ricerca e di formazione viste nella complessità qualitativa della vita in genere e di quella in acqua, in particolare, che è uno dei grandi temi del nostro tempo.

Le ragioni del Sì si differenziano da quelle del No, perché vogliono entrare nel malessere di Venezia e di Mestre, ma anche nel metodo con cui guardare alle cose, ricostruire il rapporto con quello che ci circonda e ci fa diventare più responsabili. 

Lamento la sufficienza di coloro che guardano agli spazi della “autonomia”, perché, lasciata a se stessa, essa corre il rischio di un isolamento che può diventare terra di conquista per la demagogia sovranista e populista chiuse in una visione geografica e amministrativa da difendere, terra di nessuno perché catalogata semplicisticamente come “errore”, elemento fuorviante. 

Voglio sperare che l’auspicata autonomia per cui voterò, sia una buona occasione per chiarirsi e per iniziare un percorso virtuoso e comune per il bene di Venezia e la qualità di vita che essa rappresenta.

MANIFESTO PER L’AUTONOMIA DI MESTRE E VENEZIA

L’unione di Mestre e Venezia in un’unica amministrazione comunale è espressione di una funzionalità complementare cui corrisponde la caduta del livello politico, culturale e progettuale di ambedue le realtà urbane. Accomunate nel destino amministrativo, le due città vivono all’ombra dell’economia turistica, della rendita mobiliare e dei servizi. È un sistema che si impone sulle rispettive realtà e trascura le specificità del territorio, le sue problematiche e la sua storia, distrugge abilità, professionalità, competenze, visioni, annulla l’iniziativa e trasforma gli abitanti da protagonisti in testimoni.
La questione è grave per il presente e il futuro di Venezia, di Mestre e del mondo dati i problemi ambientali, climatici e migratori che vanno affrontati con il ricorso alla tecnica, ma anche con la partecipazione consapevole della cittadinanza e il monitoraggio costante dei processi. Il caso del Mose, realizzato contro la volontà di Venezia e del suo stesso sindaco Cacciari, degli scavi in laguna effettuati senza osservarne il delicato equilibrio, mostrano la potenzialità negativa di tali assenze. Nello stesso contesto va collocato l’uso sconsiderato dello sviluppo industriale di Marghera e di altre aree della terraferma dove è necessario intervenire con una profonda bonifica e riqualificazione.
Sono considerazioni che riportano al rapporto con il territorio e al complesso culturale ad esso collegato. È auspicabile che si formino veri e propri presidi di coordinamento territoriale di competenza comunale definiti sulla base di caratteristiche ambientali, culturali e storiche e la ricostruzione identificativa delle loro ramificazioni.
È necessario perciò dare forma ad autonomie territoriali e in modo speciale a città storiche come Venezia che vanno oltre la dimensione amministrativa per il significato simbolico identificativo e di riconoscimento che esse esprimono a livello locale, regionale e internazionale.
In tale auspicabile prospettiva il rapporto tra Venezia e Mestre, tra la laguna e la terraferma possono diventare un modello virtuoso dell’autonomia che non va vista in un processo di separazione, ma di passaggio necessario per entrare nelle problematiche del territorio. E per rigettare la prospettiva sempre più evidente di Venezia come città dei balocchi e di Mestre come città dormitorio, con tutti i problemi delle zone di nessuno, ivi inclusi gli aspetti sociali e le ambientali.
Ci sono ragioni serie per considerare l’autonomia di Venezia e Mestre nel senso di ciò che manca: un progetto per Venezia e per Mestre. Tale mancanza di indirizzo è grave perché Venezia e Mestre non possono esprimere adeguatamente le loro potenzialità. E’ umiliante per Mestre e la terraferma essere destino del problema abitativo o alberghiero di Venezia. Ed è umiliante che lo spessore culturale e l’importanza di Venezia come civiltà dell’acqua siano condizionate all’uso turistico. In tale contesto di vuoto progettuale, quale può essere il ruolo delle università e delle prestigiose istituzioni culturali veneziane? E dei giovani? E degli abitanti?
Il rapporto tra Venezia e Mestre va considerato nella corrispondenza virtuosa tra uomo e ambiente, di consistenza e proposta storica, di patrimonio ed esaltazione di quella che l’etologo Lorenz chiama eredità cumulativa, di una energia annullata dall’assenza di progetti, di una specie di istinto culturale e sapienzale formatisi nel tempo e ora sacrificati alla monocultura turistica.
Venezia gode del grande interesse del mondo che in essa riconosce un proprio significato, ha una sua energia vitale, un complesso di conoscenze, competenze, abilità e cultura. Ma è prigioniera di un progetto che trasforma la città d’arte e di bellezza, di sistema di convivenza e di attività reali e potenziali, in un luogo di osservazione e di incontro finalizzato a interessi di un mercato volubile che consuma e annulla la specificità propositiva di Venezia intesa come dato e valore della convivenza.
È paradossale che l’interesse del mondo che guarda a Venezia per la sua grande valenza culturale in cui si riconosce e si ritrova, funzioni poi su un meccanismo che prescinde dalla città d’acqua come sistema di vita. È un uso distorto della città, ma è anche un modo per violentare e umiliare l’identità di una grande conquista dell’uomo e del suo rapporto con il suo spazio vitale: fioriscono ristoranti o alloggi congrui per una popolazione in viaggio e scompaiono le attività della stanzialità. Ciò provoca obsolescenza di competenze e di abilità fondamentali necessarie al valore culturale di Venezia e alla sua stessa esistenza.
Si tratta di temi imprescindibili per disegnare il progetto di città. La loro assenza è alla base del disagio che caratterizza l’unione tra Venezia e Mestre ridotta ad una questione puramente amministrativa che penalizza il senso di Venezia come civiltà dell’acqua con le sue funzioni relative, ma anche il ruolo di Mestre mortificata da un progetto che la riduce a città dormitorio. Votare Sì significa rifiutare questa logica.
MESTRE E VENEZIA PER IL SI E L’AUTONOMIA NECESSARIA PER LA LORO RINASCITA POLITICA, CULTURALE E PROGETTUALE.
Franco Avicolli
Venezia, 15 novembre 2019

Venezia. Referendum, le ragioni del mio sì ultima modifica: 2019-11-25T13:05:43+01:00 da FRANCO AVICOLLI
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