“Uno spaesato, un cane sciolto, un uomo inselvatichito”: è il protagonista del romanzo Il fiume tra noi (Manni editore) di Bijan Zarmandili, giornalista esperto di politica mediorientale per Repubblica e Limes, saggista e scrittore (Teheran, 1941-Roma, 2018). Attraverso una voce narrante, l’autore mette a nudo in questo suo – purtroppo – ultimo romanzo la vita di un esiliato che ha nella mente sempre le sue origini, e che si sente persiano nel più vasto significato della parola.
Un alter ego narra l’epopea spirituale e fisica dell’autore, fuoriuscito dall’Iran dell’ultimo scià, Reza Pahlavi, ed esiliato dopo la rivoluzione komehinista degli anni Ottanta. Nel protagonista, il disperato professore Farhad, i ricordi dei paesaggi, dei cibi, della natura, delle città del suo paese lasciato in circostanze psicologicamente drammatiche affiorano attraverso la voce narrante sullo sfondo di una bellissima campagna italiana, nella quale l’ormai anziano intellettuale ha trovato rifugio.
L’incontro con la figlia Parvaneh dopo molti anni è una sorta di testamento spirituale sul filo della filosofia di Rumi, mistico medievale sunnita che attraverso i dervisci tendeva all’astrazione e alla massima meditazione.
Il professore al tempo della sua vita a Teheran insegnava la dottrina di Rumi a studenti incantati e guardava impotente all’incalzare dei guardiani della rivoluzione, che assistevano minacciosi alle sue lezioni: il clima di quegli anni lucidamente descritto dal protagonista sfocia nella drammatica realtà che anche in questi giorni riesplode nelle città iraniane, scosse dalle rivolte contro il regime dei turbanti.
Un fiume scorre tra le verdi e calme colline umbre, ai piedi di Farhad e della figlia: il fiume della vita che i due non hanno mai vissuto veramente, con la confidenza di un legame di sangue. E se il professore, anche guardando il fiume, rivive fantasmi e ossessioni del passato, la figlia ormai adulta scopre aspetti mai svelati della vita del padre, e capisce, forse riavvicinandosi a lui.
Il filo che unisce le varie fasi del romanzo porta sempre alla patria lontana, abbandonata in una fuga dal tormentato docente. Una fuga senza ritorno e senza notizie per la famiglia ormai disgregata, tristi vicende narrate dalla voce nascosta, il cuore pulsante rimasto a casa e per questo poetico.
Tramite tale voce riviviamo atmosfere antiche, esperienze di vita di Farhad adolescente scontento e timido, adulto insicuro e insoddisfatto, che si rende conto di come
in nome delle religioni – della sua – vengono commessi delitti e barbarie…altro caos e altri tragici disordini si diffondono ovunque, milioni di persone sono costrette a lasciare le loro case, quartieri, città e paesi, per essere trattate con diffidenza e odio e soggiacere alla miseria e alla repressione altrove.

Nel caso di Farhad, il ricordo delle intimidazioni e delle minacce, delle vessazioni e della temporanea prigionia si unisce al vacillare della mente e alla spirale della dissoluzione nell’oppio. Il paesaggio dei campi di papaveri della campagna umbra si sovrappone in momenti di commozione a quello dei papaveri da oppio coltivati nella provincia del Sud del paese orientale, una dipendenza che segna la vita del docente.
E di segreti tra padre e figlia, ce ne sono tanti, anche inconfessabili.
Amicizie tradite e amicizie fedeli, scuola di vita e ricerca sincera delle origini di una cultura millenaria e ricca di sfaccettature che la dittatura religiosa vuole cancellare fanno scrivere all’autore parole di ricordo,
il desiderio di conoscere i segni di una civiltà lontana nel tempo, che in qualche modo rappresentasse anche una protezione, una consolazione.
Consolazione che per l’anziano docente rischia di trasformarsi in tragedia, con un amore impossibile segnato da sudditanza. Amori infelici, tutti, anche quello con la moglie, che lo aveva sposato “come una seconda scelta”.
Tutte le frustrazioni emergono nel dialogo ritrovato con la figlia, a sua volta protagonista di una vita tormentata a Teheran dovuta anche all’abbandono da parte del padre autoesiliato.
Una figlia dal nome di farfalla, Parvaneh questo significa in lingua farsi, che solo in età matura riesce a esprimere l’affetto con gesti mai osati prima, come una semplice carezza sulla schiena del padre.
“Sei rimasto persiano”, afferma il solo amico italiano del protagonista, guardiano di un antico piccolo teatro adagiato nella campagna di Todi. L’unico che nei lunghi anni di esilio ha parlato con il dotto intellettuale, e lo ha capito: anche se di fronte all’identità mai rinnegata un altro enorme interrogativo si fa strada nella mente irrequieta di Farhad: “ha ancora senso appartenere a una terra, a una patria?”.
Forse sì, se dalle acque del fiume che accompagna il rapporto ritrovato tra padre e figlia sorge una speranza e si stemperano i fantasmi del passato, la natura si rivela ancora amica portatrice di quiete. Allora il senso della vita ritorna, si placano i pensieri, la nuova patria e quella abbandonata si fondono nel ricordo e si armonizzano.
Il fiume tra di noi è in tutti noi, in chi viaggia o in chi rimane, una linea a volte placida e a volte turbinosa, una sfida da affrontare, una scommessa sulla quale contare.


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