Che il Barcellona sia “Més que un Club”, come si legge sulle gradinate del Camp Nou, è evidente. Basta aver visitato una volta la città per rendersene conto. A me, per dire, capitò di visitare Barcellona nel marzo del 2009, ultima, meravigliosa gita scolastica del liceo. Con un compagno di classe ci recammo allo stadio: avremmo voluto visitare quel tempio del calcio mondiale ma era chiuso per via degli impegni delle nazionali.
E così ci recammo in un piccolo stadio adiacente, quello in cui, per l’appunto, avrebbe giocato la primavera. Alcuni di quei fenomeni sarebbero diventati i miti del decennio successivo, protagonisti di un’epopea, culturale e sportiva, senza precedenti. C’imbucammo senza pagare il biglietto, con la promessa di fermarci giusto per qualche minuto: non c’erano tornelli né barriere divisive, nulla di tutto ciò che rattrista e rende assai grigio il calcio italiano, e noi, ovviamente, ne approfittammo per goderci quarantacinque minuti di pura bellezza.

Arabeschi d’ogni sorta, giocate che ricordavano quelle della prima squadra, a dimostrazione di quanto sia intelligente la scelta barcellonista di far giocare tutte le proprie compagini con lo stesso schema, così che un ragazzo possa sentirsi coinvolto nel progetto a qualunque livello e non abbia alcuna difficoltà ad adattarsi salendo di categoria.
Ricordo tutto di quel pomeriggio: l’inno blaugrana cantato a squarciagola dalle gradinate gremite (anche per una partita delle giovanili disputata in un giorno feriale: loro, a Barcellona, fanno così), le emozioni donate al pubblico da invenzioni sopraffine e noi che ci stropicciavamo gli occhi al cospetto di una meraviglia in cui erano già ben visibili i geni del capolavoro che, in pochi anni, ha ammaliato il mondo intero.
Ricordo, poi, l’esperienza che ebbi con un tassista, al quale augurai il “triplete” del Barça, poi prontamente verificatosi in maggio, a Roma, grazie alla vittoria per 2 a 0 in finale di Champions League contro il Manchester United di sir Alex Ferguson.
Ricordo che il buon uomo, inorgoglito come non mai dalla mia affermazione, mi fece compiere una sorta di giro turistico della città, conducendomi sui luoghi simbolo del barcellonismo pulsante, compresa la fontana magica di Montjuïc che, quando si anima, è uno spettacolo impagabile, specie se viene illuminata con i colori azulgrana di quello che lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán definì, con un tocco di lirismo, “l’esercito disarmato della Catalogna”.
Quaranta giorni dopo, con l’invenzione di Messi falso nueve, Guardiola avrebbe cambiato per sempre la storia del calcio contemporaneo.

Comunque vada, infatti, non c’è dubbio che quella perfezione geometrica, quella ragnatela di passaggi mirabolanti, quelle giocate tutte di prima e tutte in velocità, quei tocchi aggraziati come una carezza e quelle esplosioni di poesia che ci hanno letteralmente inebriato abbiano fatto scuola. Basti pensare a Iniesta: la dimostrazione vivente che Euclide, reincarnandosi, abbia deciso di fare il calciatore. O a Xavi, il cui talentuoso carisma ha illuminato un centrocampo senza eguali. Di Messi è inutile parlarne: ogni aggettivo è superfluo per un fenomeno di quel livello, capace di rinverdire i fasti di Pelé e di andare al di là dello stesso Maradona, eccetto per quanto concerne la Nazionale argentina dove, inspiegabilmente, la sua arte non è mai riuscita a coniugarsi con la vittoria di un trofeo.
Tuttavia, sarebbe fuori strada chi dovesse pensare che l’esaltazione dell’estetica sia una caratteristica recente della storia blaugrana. Il Barcellona, fondato dallo svizzero Hans-Max Gamper, divenuto Joan per amore della Catalogna, ha nel suo dna il culto dell’estasi, come testimoniano peraltro i non pochi artisti che vi si avvicinarono nei primi decenni del Novecento.
Non sorprende nemmeno che abbia un’indole anarchica e socialista, nonostante la ricchezza smodata e la notorietà planetaria del marchio, considerando che quando nacque Barcellona era la “Rosa de foc”, la Rosa di fuoco, patria della ribellione contro l’ordine costituito e, non a caso, città detestata da tutti i regimi succedutisi in Spagna in quel periodo: da Primo de Rivera al “Generalissimo” Francisco Franco.
In compenso, il poeta Rafael Alberti, scrisse la Oda a Platko, il portiere che “defendió como un toro el arco catalan”, “tigre ardiente en la yerba de otro país”. Non volle essere da meno Carlos Gardel, il quale onorò la sua passione con un tango:
Sami, capitan dal Barça, con tu juego que emociona nos as hecho estremecer. Sami portador de la nobleza de tu tierra de grandeza, caballero Samitier.
E anche i pittori hanno fornito il loro contributo. Picasso, nella litografia Football 1961, usò i colori del Barcellona, mentre Joan Miró dipinse il poster per i settantacinque anni della squadra e Antoni Tàpies il manifesto per il centenario. Cosa aspettarsi, d’altronde, da un club nato sotto la stella di Gaudì, autore della Casa Calvet mentre Picasso esponeva al “Cafè els Quatre Gats” e Gamper pubblicava un annuncio su Los Deportes per trovare amici disposti a giocare a calcio insieme a lui?
Il capitano del Basilea, da cui sembra che derivino i colori del Barça, si innamorò della città e della Catalogna e non se ne andò più, salvo poi essere costretto a tornare in Svizzera dal regime di de Rivera e suicidarsi il 30 luglio 1930, piegato dalla crisi del ’29.

Quando si pensa al Barcellona, si pensa sempre al meglio del meglio: dagli ungheresi Kubala, Kocsis e Czibor, negli anni del disfacimento della Grande Ungheria a causa dell’oppressione sovietica, al genio gallego di Suárez che, insieme a Herrera, dopo aver messo in discussione il dominio pressoché incontrastato del magno Real di Di Stefano e Puskás, andò a innervare la Grande Inter di Angelo Moratti.
Dovranno pazientare un decennio, i tifosi “culés” (così chiamati perché dalla strada si vedeva solo il sedere dei tifosi seduti sulla fila più alta delle gradinate del Camp Carrer de la Industria, il primo stadio del Barça), per tornare a godere. Servirà l’arrivo di un personaggio unico come Johan Cruijff, ancora più amato per il fatto di non aver accettato il trasferimento dall’Ajax a Madrid, nella città e nella squadra franchista per eccellenza, che il 17 febbraio del ’74 contribuì in maniera decisiva alla distruzione delle merengues: uno 0 a 5 che valse all’asso olandese una gloria e una riconoscenza imperitura.
Il direttore di quell’orchestra magnifica, neanche a dirlo, era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale che da allora è considerato, a ragione, l’espressione più pura del gioco e del trionfo corale. Sempre Cruijff, in quegli anni, chiamò il figlio Jordi, appellandosi alla sua doppia nazionalità e infliggendo un colpo decisivo al divieto franchista di dare ai figli nomi catalani.
Barcellona significa, da sempre, lotta contro ogni fascismo. È a lei che Orwell dedicò l’Omaggio alla Catalogna. Ed è dai microfoni di Radio Barcellona che, il 13 novembre 1936, Carlo Rosselli pronunciò il celebre discorso: “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Barcellona bombardata, offesa, umiliata e infine rinata in tutta la sua poesia e la sua inimitabile grandezza.

Era e resta l’icona del catalanismo, compresa la sua discutibile dimensione separatista, e il suo esercito sportivo, forgiato da Cruijff e condotto all’apoteosi da Guardiola, ne è più che mai la vetrina, il modello, il punto di riferimento. Non è un contesto per uomini normali. Quando parte quell’inno e garrisce l’Estelada i brividi corrono lungo la schiena. Non a caso, al Camp Nou tutto è possibile, anche una rimonta da 0 a 4 a 6 a 1, come ben ricorda il presuntuoso e opulento Psg, sconfitto da una squadra che della sua fragilità di fine ciclo seppe farne una forza straordinaria, travolgendo gli avversari ma, innanzitutto, le proprie paure.

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