In_oltre la separazione

Questo quinto referendum è diverso dai precedenti. Più che di divisione è meglio parlare di articolazione. Anche in caso di vittoria del SÌ, Venezia non si chiuderebbe in sé stessa perché resterebbe parte di uno stesso corpo urbano, politico, sociale nel quadro della grande Venezia, città metropolitana che oggi giace incompiuta per precisa volontà politica.
GIOVANNI LEONE
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In vista del referendum che si terrà domenica primo dicembre nel Comune di Venezia, ytali ospita una serie di interventi a favore e contrari al quesito referendario. Dopo gli articoli di Franco Avicolli, Carlo Rubini, Roberto D’Agostino, Guido Zucconi, Michele Savorgano, Fabio Carrera, dopo la presa di posizione di ex dirigenti e funzionari del Comune di Venezia a favore di una partecipazione democratica al voto, pubblichiamo la seconda parte dell’intervento di Giovanni Leone.
La consultazione di domenica prossima riguarda gli elettori veneziani, che saranno chiamati a pronunciarsi per la quinta volta sulla proposta di separazione – autonomia, preferiscono dire i sostenitori del sì alla divisione – tra Venezia, con le isole dell’estuario, e Mestre e terraferma. L’esito della consultazione avrà conseguenze sulla composizione della Città metropolitana di Venezia (852.472 abitanti a fine maggio) e su quella del Comune di Venezia (268.841 abitanti), suddiviso nelle municipalità di Venezia-Murano-Burano (69.679 abitanti), Lido Pellestrina (21.691), Favaro (23.376), Mestre Carpenedo (88.181), Chirignago-Zelarino (37.629) e Marghera (28.285).
Nel complesso 91.370 veneziani d’acqua e 177.471 di terraferma.
In caso di vittoria del “sì”, Venezia finirebbe al quarto posto tra i comuni veneti capoluogo di provincia, dopo Verona, Padova e Vicenza, mentre Mestre diventerebbe il terzo comune più popoloso della regione, il primo tra i non capoluogo di provincia. Sarà il quinto referendum sulla separazione. Nella tabella che segue i risultati delle precedenti consultazioni.

Nel tempo della globalizzazione e dell’allargamento di confini e scenari, va affrontato e gestito il tema del rapporto tra globalità e località, dettaglio e quadro d’insieme, micro e macro, minimi problemi e massimi sistemi, gestendo le criticità e le conflittualità di cui tale rapporto è portatore. In questa prospettiva va inquadrato il referendum per la creazione di un comune di terraferma distinto dal comune della città d’acqua.

Più che di “separazione” è meglio parlare di articolazione che viene da articulus diminutivo di artus ed è: giuntura o membro del corpo (in anatomia), particella che serve di giuntura alle varie parti del discorso (nel linguaggio), ciascuno dei vari capi di una legge (in giurisprudenza). Anche in caso di vittoria del SÌ, Venezia non si chiuderebbe in sé stessa perché resterebbe parte di uno stesso corpo urbano, politico, sociale nel quadro della grande Venezia, città metropolitana che oggi giace incompiuta per precisa volontà politica.

Il presidente Zaia ha interesse a una città metropolitana di basso profilo che non disturbi la regione sottraendole competenze (posizione paradossale per un politico che ha fatto dell’autonomia il suo cavallo di battaglia!). Il sindaco Brugnaro ha accentrato in sé tutto il potere, ritirando in basso le deleghe alle municipalità e ricevendo d’ufficio in alto la carica di sindaco della città metropolitana, senza elezione alcuna: bingo! Anche la sinistra d’altronde ha voluto una città metropolitana guidata dal sindaco del capoluogo, convinta che accorpare il potere e la cabina di regia agevoli l’efficienza riducendo i conflitti, esattamente l’inverso del decentramento e della partecipazione. 

Ai promotori va riconosciuto il merito di avere smosso le acque stagnanti della politica cittadina con un dibattito utile anche se è spesso scivolato nel pantano delle contrapposizioni pregiudiziali e delle polemiche sterili, imperniate sul fattore emotivo e irrazionale della rivalità tra opposte fazioni. I timori per l’esito referendario hanno finito per farci ragionare (accapigliare) di società partecipate e casinò, di porto e aeroporto, di servizi pubblici, di sanità… e il quadro emerso denuncia la confusione, la carenza d’informazione, la mancanza di chiarezza, ma specialmente la necessità di una revisione complessiva del quadro di competenze e responsabilità di ciascun ente, dalla regione alla città metropolitana, i comuni, le circoscrizioni di decentramento (note anche come municipi o municipalità) e perfino a unità di vicinato.

Nel NO di terraferma sembra prevalere il fastidio per la sottrazione di un bene che si considera proprio: si lamenta la perdita di possesso più che l’indebolimento di un sentimento civico di appartenenza alla comunità veneziana, mentre nel NO della città d’acqua c’è il timore che isolarsi sia una dannosa riduzione del peso del capoluogo. Nel SÌ della città d’acqua c’è il sentimento elitario di chi considera la città di terraferma un parassita d’ostacolo al rilancio della città insulare, mentre nel SÌ di terraferma c’è voglia di rivincita di chi sente Mestre città in sé, con proprio centro e periferie, e non si sente affatto cittadino di serie B o campagnolo, come spesso accade.

Diffuso – di qua e di là del ponte – è lo scontento e l’insoddisfazione per come vanno le cose, si ha la sensazione di non essere registi del proprio destino.

L’abitante della città insulare subisce l’esproprio della propria quotidianità ad opera di un turismo incontrollato da amministrazioni evidentemente inadatte a opporsi alla piena della monocultura turistica, impreparate ad arginare e gestire il fenomeno nei suoi fronti logistico economico e sociale, incapaci di non sottostare ai grandi interessi che ci ruotano intorno e ai piccoli interessi delle categorie di coloro che se ne avvantaggiano maggiormente.

Mestre vuole invece emanciparsi dal pregiudizio di essere considerata periferia-dormitorio, spazio di servizio, e rivendica il riconoscimento della propria autonomia e identità, distinta da Venezia. In ogni caso il cittadino chiede prossimità con chi lo rappresenta e con chi lo governa, il fiorire di associazioni e comitati sta lì a dimostrarlo.

Domenica 1 dicembre si vota il quinto referendum per la separazione in due comuni di Venezia e Mestre: slogan per il Sì lungo la città: qui siamo campiello San Beneto, a Sant’Angelo. © Andrea Merola

Negli ultimi anni, caratterizzati dall’invadente egocentrismo del sindaco fasso tutto mi, la situazione è peggiorata: l’amministrazione ha incoraggiato e sostenuto sfacciatamente l’espansione dell’attività turistica oltre che nella città insulare anche in terraferma; la sottrazione delle deleghe alle municipalità ha riportato all’accentramento amministrativo alla faccia delle istanze di partecipazione, decentramento e autonomia. 

Il problema (senza distinzione tra Mestre e Venezia) non è solo l’appiattimento sull’industria turistica (dopo quella chimica) come principale fonte economica, problema è anche: l’assenza di una politica per la casa, la progressiva espulsione degli abitanti dalla città e perfino dagli spazi pubblici, la tutela dell’ambiente lagunare e il contrasto del moto ondoso, la mobilità, i servizi e beni comuni, il rilancio di risorse immobiliari come l’arsenale o Forte Marghera, ecc.

Questo quinto referendum è diverso dai precedenti. Ieri era la terraferma a voler vedersi riconosciuta una propria autonoma identità, oggi è a Venezia che prevale la volontà di svincolarsi per affermare la propria specialità. Nonostante i quarant’anni trascorsi dal primo referendum del 1979 la politica è stata incapace di soddisfare criticità di carattere politico e sociale che si concretizzano nella domanda di autonomia e partecipazione che risulta crescente nell’esito delle varie tornate referendarie a meno di quella del 2002 dove tra i pochi votanti prevalsero comunque i NO.

17 giugno 1979 79,00% votanti – SÌ 27,7% NO 72,3 – Sindaco Rigo

25 giugno 1989 74,00% votanti – SÌ 42,2% NO 57,8 – Sindaco Casellati

6 febbraio 1994 67,93% votanti – SÌ 44,4% NO 55,6 – Sindaco Cacciari

16 novembre 2002 39,30% votanti – SÌ 34,37% NO 65,63 – Sindaco Costa

Al di là degli esiti che avrà la consultazione referendaria veneziana, un risultato l’ha già ottenuto, quello di avere portato il dibattito politico su alcuni essenziali nodi, non solo veneziani, come:

  • l’importanza di ricorrere a strumenti di democrazia diretta – e l’istituto del referendum è per antonomasia uno strumento di democrazia diretta – per smuovere le acque stagnanti di una politica legata a doppio filo con le forme della rappresentanza e dimostratasi incapace di offrire una visione per il futuro della città e un progetto di società per la comunità veneziana;
  • l’urgenza di una sostanziale riforma del modello di decentramento amministrativo in grado di ridefinire il quadro complessivo delle competenze, delle responsabilità e dell’articolazione dei poteri;
  • la richiesta di autonomia quale legittimo contrappeso all’accentramento amministrativo e al forte deficit di trasparenza e di controllo intesa come possibile via per un’uscita dalla crisi prodotta dalla democrazia rappresentativa;
  • la domanda di una maggiore prossimità, soprattutto dei servizi al cittadino, per accorciare la distanza, reale o percepita, tra amministratori e abitanti della città, riavvicinandoli così alle istituzioni chiamate a rappresentarli.

Il referendum non può essere certo risolutivo per queste istanze, e non rappresenta affatto il traguardo di una tensione politica fondamentale volta a una maggiore partecipazione cittadina coniugata con una rinnovata responsabilità nel governo della città. Esso si propone piuttosto di dare una spallata al sistema e d’indicare un percorso, già perché la vittoria del SÌ non sarebbe la conclusione ma l’apertura di un percorso che non può fermarsi alla “separazione” ma che deve approdare alla riforma degli ambiti amministrativi delle istituzioni locali decentrate, con riconfigurazione dell’insieme e distinzione delle parti attribuendo a ciascuno precise deleghe, competenze e responsabilità, declinate dalla scala maggiore (regione) a quella minore (vicinato). Se si superano le contrapposizioni emotive, campanilistiche e pregiudiziali in quello che è diventato un derby con opposte tifoserie, c’è oggi l’occasione per riflettere di contenuti. Il referendum affonda il coltello nella piaga: la resistenza della politica a dare al decentramento forma compiuta.

Domenica 1 dicembre si vota il quinto referendum per la separazione in due comuni di Venezia e Mestre: slogan per il Sì lungo la città: qui siamo in campo Bragora, sulla casa natale dei fratelli Bandiera. © Andrea Merola

Nel 1976, per soddisfare le istanze espresse dai “consigli di quartiere” (organismi spontanei sorti negli anni sessanta) viene introdotta nell’ordinamento giuridico italiano la circoscrizione di decentramento comunale, un organismo di partecipazione, consultazione e gestione dei servizi di base, nonché di esercizio di funzioni delegate, istituito dal comune con competenza su una parte del suo territorio comprendente una o più frazioni contigue.

Non sono enti locali per l’assenza di personalità giuridica, ma sono comunque organi complessi, dotati di autonomia. Allo statuto comunale e ad apposito regolamento comunale è demandata la disciplina dell’organizzazione e delle funzioni. Le circoscrizioni (con almeno 30.000 abitanti) sono istituite dai comuni con popolazione superiore a 250.000, in quelli con popolazione superiore a 300.000 abitanti lo statuto può prevedere particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni e di autonomia organizzativa e funzionale, determinando altresì gli organi, lo status dei componenti e le modalità di elezione, nomina o designazione. Partiamo da qui. Sotto il profilo politico, indipendentemente dall’esito della consultazione, si dovrebbe innanzitutto prendere atto dell’istanza generale di decentramento e partecipazione. 

L’argomento del referendum non è la costruzione di muri – che generalmente vengono elevati per non fare uscire (Berlino, Cipro) o per non per fare entrare (Órban, Trump, ecc.) – ma la configurazione di nuovi ambiti amministrativi e il carattere dei loro confini, con ponderate sfumature. Il muro è limes /limitis, segno netto di separazione e distinzione tra un dentro e un fuori. Nel caso del referendum sarebbe meglio parlare di limen /liminis che è il confine in tempo di pace, cioè una fascia fertile di relazioni, scambi di tecniche e materiali con tracimazioni di sapere. Il limen è la soglia, il luogo in cui s’incontrano l’interno e l’intorno, in buona sostanza è un ponte che unisce due sponde. Il tema è dunque la costruzione di questo ponte, come farlo, che materiali utilizzare, quali forze attribuirgli, quale peso deve portare, quanto solido dev’essere. 

In_oltre la separazione ultima modifica: 2019-11-29T19:40:32+01:00 da GIOVANNI LEONE
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