Iraq, la rivolta in uno Stato fallito. Senza più un governo credibile. Senza più un primo ministro. Il premier iracheno Adel Abdul-Mahdi ha annunciato le dimissioni dopo le centinaia di uccisi nelle proteste: è di circa cinquanta persone uccise il bilancio delle ultime 24 ore di repressione governativa mentre è salito a quattrocento uccisi il bilancio delle violenze in due mesi di proteste. Il maggior numero di vittime si è registrato a Nassiriya, con oltre venti manifestanti uccisi con colpi sparati dall’esercito al capo e al petto. Altri morti si sono registrati a Baghdad e a Najaf.
Il governatore iracheno della regione meridionale di Dhi Qar, con capoluogo Nassiriya, teatro nelle ultime 24 ore di sanguinosi scontri tra forze di sicurezza e manifestanti antigovernativi, ha annunciato intanto le sue dimissioni in dissenso col governo centrale di Baghdad. Ieri a Nassiriya sono state uccise una trentina di manifestanti, molti dei quali raggiunti con colpi letali sparati dall’esercito alla testa e al petto.
Lo riferiscono media iracheni e panarabi, precisando che il governatore Adel Dakhili si è dimesso affermando in un comunicato che
lo spargimento di sangue è stato causato da forze venute fuori dalla regione di Dhi Qar e senza che il governo centrale informasse le autorità locali.
All’indomani dell’uccisione di decine di manifestanti anti-governativi nel sud dell’Iraq, la massima autorità religiosa sciita irachena, il Grand Ayatollah Ali Sistani, ha oggi invitato il parlamento iracheno a togliere la fiducia al governo del premier Adel Abdel Mahdi, sostenuto da Iran e Stati Uniti, nell’ambito della crescente tensione politica e di sicurezza a Baghdad e nel sud sciita in rivolta.
Nella predica settimanale, tenuta da un suo rappresentante durante la preghiera comunitaria islamica del venerdì nella città santa sciita di Karbala, a sud di Baghdad, Sistani ha chiesto al parlamento di intervenire per cambiare l’equilibrio politico nel paese e ascoltare le pressanti richieste della popolazione del sud del Paese.
Il Parlamento, da cui il governo trae sostegno, deve rivedere la sua scelta riguardo all’esecutivo considerando gli interessi dell’Iraq,
ha detto Sistani, affermando che questa scelta deve esser fatta per “proteggere il sangue dei cittadini (iracheni)”.
Dopo Kerbala, Najaf. Dopo Najaf, Nassiriya. La rivolta irachena ha individuato il Nemico esterno: l’Iran. Una folla di manifestanti mercoledì sera ha dato alle fiamme il consolato iraniano a Najaf, città santa sciita in Iraq, urlando “l’Iran fuori dall’Iraq”.
La situazione si fa sempre più drammatica. Il vice comandante del Consiglio per la mobilitazione popolare (organo di comando delle milizie a maggioranza sciita), Abu Mahdi al Mohandes, ha annunciato che tutte le “brigate” delle forze a maggioranza sciita sono “ora comandate dall’autorità religiosa suprema” ayatollah Ali al Sistani.
In una breve dichiarazione rilasciata al sito al Ahd News, Al Mohandes ha commentato gli scontri avvenuti ieri sera a Najaf.
Qualsiasi mano s’avvicini al santuario e tenti di offendere la guida suprema verrà tagliata,
ha dichiarato.
Najaf ospita il mausoleo del primo imam, Ali, ed è terza dopo la Mecca e Medina per numero di pellegrini accolti ogni anno.
A Najaf ha seguito gli studi sacri l’ayatollah Khomeini, padre della rivoluzione islamica iraniana. Se brucia il consolato iraniano brucia qualcosa di più dell’edificio: in fiamme va l’autorità stessa dell’Iran in tutto il mondo sciita.

Da Kerbala, altra città santa sciita, a Najaf, da Nassiriya a Baghdad: i manifestanti sciiti danno alle fiamme le immagini della Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei e di Qasse Soulimani, il potente generale che comanda l’unità d’élite Quds dei Pasdaran, l’uomo che tiene le fila, e i cordoni della borsa, del rapporto tra il regime di Teheran e le milizie affiliate in Medio Oriente: da Hezbollah in Libano alla Jihad islamica e Hamas in Palestina, dalle milizie paramilitari irachene agli Houth in Yemen.
Teheran e i suoi sodali hanno fallito nel tradurre le vittorie militari e politiche in una visione socio-economica. Detto più semplicemente: la narrazione della resistenza dell’Iran alla lunga non ha saputo mettere cibo nei piatti,
sintetizza efficacemente Foreign Policy.

Una rivolta nella rivolta è quella che si consuma nel campo sciita. Il clerico sciita Moqtada al-Sadr, leader della coalizione al-Sairoon (primo partito in parlamento), già noto in Iraq per la sua capacità di smuovere le masse e guidare proteste, ha già invocato le dimissioni del primo ministro, arrivate oggi, e nuove elezioni sotto l’egida delle Nazioni Unite, dopo avere boicottato i lavori del parlamento che erano stati indetti per sabato 5 ottobre col fine di discutere, fra le altre cose, un taglio degli stipendi dei funzionari a favore delle fasce più deboli e della disoccupazione.
Il presidente del parlamento, Muhammad al-Halbusi, ha invece teso una mano ai manifestanti assicurando che la politica sta ascoltando le loro istanze, e promettendo una lunga lista di riforme e misure contro disoccupazione e corruzione. Una promessa rimasta tale.
Secondo dati pubblicati recentemente dalla rivista americana The National Interest, nel 2010 gli sciiti costituivano il 55 per cento delle forze armate irachene, una percentuale che è salita al 95 per cento dopo che l’esercito americano ha lasciato il Paese e a causa delle politiche settarie dell’ex primo ministro Nuri al-Maliki. Secondo cifre non ufficiali le milizie sciite in Iraq contano circa 120.000 combattenti, equipaggiati con le armi dell’esercito iracheno, colpevole del fatto che i carri armati americani siano finiti nelle mani di quelle milizie che gli Stati Uniti considerano organizzazioni terroristiche.

Nonostante la linea dura, la repressione sanguinosa e i reiterati coprifuoco, però, la popolazione continua a scendere in piazza a protestare.
Le nostre richieste? Vogliamo lavorare, vogliamo lavorare. Se non vogliono trattarci come iracheni, allora ci dicano che non siamo iracheni e troveremo altre nazionalità e migreremo in altri Paesi,
afferma un manifestante a Baghdad.
Sparano al petto, al collo, alla testa. È come un’esecuzione. Le strade sono piene di sangue», racconta un manifestante ad Amnesty. In piazza Tahrir, nel centro di Baghdad, sul “muro dei desideri” della protesta la scritta: “Voglio che il bagno di sangue finisca”.
Ma non finisce. La frustrazione coinvolge particolarmente i giovani fra i quali il tasso di disoccupazione è elevatissimo (quindici per cento contro l’otto per cento della media nazionale). Fonti ufficiali riferiscono che dal 2004, a un anno di distanza dall’invasione statunitense che ha determinato la cacciata di Saddam Hussein, circa 450 miliardi di fondi pubblici sono svaniti nelle tasche di politici e uomini di affari.
Non solo i ministri sono spesso implicati nelle frodi, ma il settore pubblico è sovradimensionato e facile da truffare e si contraddistingue per i migliaia di impiegati “fantasma” che percepiscono stipendi, senza lavorare in realtà… Il parlamento è estremamente corrotto. Su 328 parlamentari iracheni, 273 non hanno voluto svelare la loro situazione finanziaria al Comitato per l’integrità. Ci sono sette milioni di dipendenti pubblici in Iraq, ovvero la maggioranza della popolazione maschile adulta, e la maggior parte di loro non svolge praticamente alcuna attività lavorativa. Alcuni di essi non esistono neppure, come i “soldati fantasma” il cui salario è incassato dai loro ufficiali. In totale i loro stipendi ammontano a circa quattro miliardi di dollari al mese, una cifra accettabile quando i proventi del petrolio erano ancora sei miliardi di dollari al mese. Ora però, quei proventi sono scesi a meno di due miliardi e il sistema è collassato. E ora trascina con sé uno Stato fallito.

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