A Treviso cinquanta dipinti dalla Gemäldegalerie del Kunsthistorisches Museum di Vienna e ventiquattro immagini dei massimi esponenti della fotografia contemporanea raccontano un genere artistico mai tramontato: la “natura morta”.
Nei Paesi Bassi, agli inizi del Seicento e per tutto il secolo, composizioni con fiori o frutta, verdura, pesci, cacciagione, animali vivi e morti diventarono protagonisti autonomi di una pittura di notevole eleganza formale. Gli storici fiamminghi e tedeschi la definirono vita silente, gli inglesi vita immobile, espressioni non accolte in Italia, dove gli accademici sostenevano che dipingere “cose basse” nuoceva alla nobiltà dell’arte e non meritavano quindi alcuna locuzione per definirle.
Cerchia di Joris van Son, Natura morta con frutta, 1650 circa;
Willem Claesz Heda, Natura morta con colazione e coppa con coperchio, 1634
Jan Anton van der Baren, Rose in un vaso di vetro, post 1659
Nella penisola italica, tuttavia, fu una borghesia emergente – che già negli ultimi decenni del Cinquecento era cresciuta sull’onda degli attivissimi scambi commerciali con le Fiandre – a decretare la fortuna di questi quadri da cavalletto, facili da maneggiare, da trasportare e adatti a decorare le stanze delle dimore dei nuovi ricchi, tanto che la domanda superò l’offerta e i prezzi andarono alle stelle.
Uno sguardo sulle origini e la varietà delle scelte tematiche della vita silente lo offre a Treviso la mostra NATURA IN POSA. Capolavori dal Kunsthistorisches Museum di Vienna in dialogo con la fotografia contemporanea, aperta fino al 31 maggio nel complesso museale di Santa Caterina.
Promossa dalla Città di Treviso e da Civita Tre Venezie, è curata per la parte pittorica da Francesca Del Torre, Gerlinde Gruber e Sabine Pénot, responsabili rispettivamente per la pittura italiana, fiamminga e olandese nel museo austriaco, che presta cinquanta opere, visibili per la prima volta in Italia, cui si aggiungono alcune di diversa provenienza. Della sezione fotografica si è occupato Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci a Venezia.
I DIPINTI
In un allestimento sobrio e ben congegnato, dove dalla penombra i dipinti emergono illuminati in modo appropriato, il percorso espositivo prende avvio con la sequenza dei “mercati”, tra cui quattro pastorali liriche di Francesco Bassano, figlio di Jacopo da Ponte, detto il Bassano dal nome della cittadina veneta in cui aveva aperto bottega. Jacopo verso il 1570, con un linguaggio del tutto italiano, s’inventò di fondere episodi biblici con scene agresti in cui tra animali e attrezzi da lavoro introduceva arredi e oggetti d’uso di vita quotidiana – secchi di rame e di ottone sparsi, credenze sormontate da rastrelliere con piatti di peltro e pentole appese, rustiche tavole con brocche e cibo – rendendo pulsante la narrazione.
Novità che piacque ai patrizi e ai mercanti veneziani per arredare le loro dimore di terraferma, dove avevano avviato attività agronomiche per far fruttare le proprie fortune, dirottando qui gli utili degli investimenti fatti nei domini greco-bizantini di Venezia messi in crisi dalla pressione dei turchi.
Fu una produzione protratta nel tempo dai suoi figli. Di notevole effetto è la grande tela di Francesco Scena di mercato (1580-1585), gremita all’inverosimile, fino a rendere ardua persino la possibilità di muoversi tra le bancarelle dei venditori.

Francesco da Ponte, detto Francesco Bassano, Scena di mercato, 1580-1585
Allo spirito rustico della bottega bassanese si contrapponeva il raffinato manierismo fiandro-veneto di Ludovico Pozzoserrato (Lodewijk Toeput) che, originario di Anversa, dopo un soggiorno a Venezia, aveva messo radici nel 1582 a Treviso, dove fu attivo per oltre vent’anni. Nella Vanità della ricchezza o l’avaro malinconico – circa 1585, concesso in permanenza al museo trevigiano dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche – è evidente la fusione tra la lezione di Tintoretto, presso la cui bottega il fiammingo era passato, e altresì uno sguardo al Veronese, mentre è d’impronta nordica la tavola imbandita.

Lodewijck Toeput detto Pozzoserrato, La vanità della ricchezza o l’avaro malinconico, 1585 circa, Treviso, Fondazione Benetton Studi e Ricerche
Analoga eleganza della messinscena si vede nei mercati di mani d’oltralpe, che sono pagine di vita sociale in cui non mancano sia riferimenti d’intento moralistico sia allusioni sessuali. Procedendo, più confidenziale diventa l’accento della pittura di genere degli interni, com’è nell’ambiente casalingo di La salsicciaia (ante 1651) di David Teniers il Giovane. In questa sezione si trova Il medico (1653) di Gerard Dou, un capolavoro che da solo vale la mostra.

Gerard Dou, Il medico, 1653
Si vede poi come la scena si restringa ai primi piani di tavole imbandite con salumi, caviale, noci, uva, prelibatezze e leccornie, tra cristallerie, porcellane, argenti e peltri rilucenti: un mondo commestibile che si fonde con suppellettili preziose e oggetti dozzinali. Specialmente in Olanda si celebrava la prosperità del paese accostando sovente i prodotti dell’economia nazionale – aringhe, formaggi, ostriche, birra – a frutti, fiori esotici e manufatti importati dalla East India Company.
Concomitanti erano le realizzazioni con fiori frutti e oggetti in cui – assecondando i dettami della Controriforma – confluivano le valenze simboliche tra morte e rinascita nelle “vanitas” o nei memento mori: un petalo caduto, insetti, farfalle, il teschio, la candela consumata a metà, un orologio, clessidre, un vecchio libro lacero e impolverato, monete…
A breve, favorite dal gusto di un nuovo collezionismo, si aprirono botteghe e si formarono specialisti locali in diversi centri – Anversa e Haarlem, come Parigi, Siviglia, Francoforte e da Milano a Napoli, per citarne alcuni – la cui fortuna continuò fino ai primi decenni del Settecento, con reciproche contaminazioni tra artisti d’oltralpe e italiani.
In Italia la vita silente è nata di fatto nel 1597, quando Caravaggio, su commissione del cardinale Francesco Maria Del Monte, dipinse la notissima Canestra di frutta (Pinacoteca Ambrosiana, Milano). In tutta la penisola vi fu un seguito di artisti che si distinguevano per le variabili del soggetto e dell’ideazione prospettica. Tra essi il prelato e musicofilo bergamasco Evaristo Baschenis – definito da Roberto Longhi “un Vermeer nostrano” – si dedicò prevalentemente a scenografici insiemi di strumenti musicali con straordinaria resa materica: una descrizione che sul versante nordico arrivava alla minuziosità del dettaglio, com’è nella Natura morta con attrezzi venatori di un seguace di Johannes Leemans.
Evaristo Baschenis, Natura morta con strumenti musicali, globo terracqueo e sfera armillare, 1650 circa
Cerchia di Johannes Leemans, Attrezzi venatori, 1660 circa
Il primato nel dipingere fiori restava indubbiamente privilegio dei pittori nordici, per l’infinita varietà di boccioli e corolle impalpabili o carnosi. Si pensi a Jan Bruegel il Vecchio – a Treviso è esposto il magistrale Mazzo di fiori in un vaso blu, 1608 circa – al quale per anni continuarono ad arrivare commissioni dal cardinale Federico Borromeo, che gli fece da protettore durante un soggiorno a Roma, nel 1591. Per lui nel 1606 il fiammingo dipinse un vaso con oltre cento varietà di fiori (Pinacoteca Ambrosiana, Milano), avvalorando questa pittura sul piano scientifico nel momento in cui la botanica assurgeva alla stessa dignità dell’archeologia.
Diversa è l’intonazione, tra emozionale e fantasioso, per esempio, delle cascate floreali ambientate tra citazioni archeologiche non prive di pathos drammatico, del napoletano Gasparo Lopez dei Fiori. Con Lopez siamo negli anni di quella stagione del barocco in cui prevale l’aspetto decorativo: eccessivo ma stupefacente.
Jan Brueghel il Vecchio, Mazzo di fiori in un vaso blu, 1608 circa
Gaspare Lopez, detto Lopez
dei Fiori, Vasi di fiori in un parco, con fontana e stemma della famiglia Albani, 1720 circa
Più tardi, nella penisola s’imporrà un linguaggio nuovo, volto a un’intransigente obiettività sulle mutate condizioni sociali, con un repertorio che attingeva alla realtà pauperistica: non più stimoli ghiotti, ma rimandi a pasti frugali.
Nel frattempo nel Nord Europa le prede di caccia diventavano un soggetto richiesto per testimoniare il rango sociale del committente. Infatti, in base ai regolamenti venatori le grandi prede erano destinate allo spasso di nobili e sovrani, mentre alle fasce più basse era concesso mirare solo ai volatili.

Lo sconvolgimento espressivo dell’arte, che in tutta Europa avvenne nella seconda metà del Settecento, portò all’affievolimento della richiesta da parte dei collezionisti di queste nature silenti, cui nell’Ottocento gli storici italiani diedero la mesta denominazione di natura morta, mutuata dal francese.
LA FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA
Coerente con il titolo dell’esposizione, Denis Curtis propone sette autori di fama internazionale, con opere che datano dal 1974 al 2011, dalle medie alle grandi dimensioni (fino a 150 cm di altezza).
L’inglese Martin Parr è noto per svelare i comportamenti provinciali, a volte miseri, spesso contradditori, di un mondo globalizzato. Con sottile ironia i suoi scatti in mostra documentano il consumismo nutrizionale della vita moderna, senza cadere nella banalità.
Conosciamo l’americano David LaChapelle per il ridondante compiacimento estetico-coloristico con cui ha rivisitato – in bilico tra farsa e parodia – dipinti sacri dei massimi maestri del Rinascimento. Uno stile pop-kitsch che ricorre anche nelle versioni di nature morte ispirate dai fiamminghi, in cui sottintende la vanitas attualizzando il linguaggio simbolico con oggetti di plastica, lattine, cibo incellofanato, mozziconi di sigarette, cellulari… Piace pensare che vi sia in esse un monito sul pericolo di continuare nell’uso smodato di involucri e oggetti inquinanti.
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Martin Parr, AUSTRALIA. Western Australia Roadhouse, 2011, © Martin Parr/Magnum Photos
Al confronto, il lanciatissimo belga Hans Op de Beeck potrebbe quasi provocare una sensazione di gelo con il rigoroso grigio-monocromo della sua lugubre tavola imbandita, visione onirica di memento mori.

Hans Op De Beeck, Vanitas, 2011, collezione Fabio Castelli, Milano
Courtesy Galleria Continua San Gimignano/Beijing/Les Moulins/Habana
Di Robert Mapplethorpe si tende a ricordare i tanti scatti omoerotici esposti in mostre vietate ai minori di diciotto anni, trascurando che la sua ricerca era mirata a modellare con la luce il soggetto, in rapporto allo spazio, per infondere nobiltà scultorea alle forme. Con la stessa concezione il fotografo newyorchese ha ritratto fiori recisi portandone liricamente in auge l’intrinseca bellezza e sensualità.
Tendenzialmente intrise di una triste emotività, leggibile quale metafora del binomio Eros-Thanatos, appaiono le sgargianti composizioni floreali del giapponese Nobuyoshi Araki, con alle spalle un variegato repertorio di reportage sulle molteplici verità del suo paese, dalle immagini di solitudine urbana a quelle sull’industria del sesso, intervallate da testimonianze sul suo privato.
Di austerità formale sono le riprese della stessa fruttiera fatte, nel corso di un decennio, da Franco Vimercati, immerse in una dimensione atemporale, così essenziali ed enigmatiche per il soggetto che si ripete con difficilmente percepibili differenze. La contemplazione sembra il carattere precipuo del suo lavoro.
Nino Migliori, instancabile sperimentatore di una interazione tra immagine, tecniche e mezzi fotografici, esplicita nel suo Herbarium l’inesorabile fluire del tempo, mostrando in primo piano il progressivo corrodersi di una foglia.
Nobuyoshi Araki, dalla serie Flowers, 2007, Sara Gavagni – Galleria 13
Nino Migliori, Herbarium, 1974, © Fondazione Nino Migliori
Il tema della natura morta ha continuato nel tempo a fascinare molti pittori – tra i più noti Cézanne, Manet, Renoir, Matisse, Braque, Picasso, Morandi, Warhol, Guttuso… – passando da soggetto decorativo a oggetto di ricerca stilistica.
La Pop art ha attualizzato il messaggio della natura morta tramite icone relazionate alla società dei consumi; eredità raccolta in questa rassegna trevigiana da Martin Parr. In tempi recenti è invece davvero “morta” nei dipinti iperrealisti che travalicano l’immagine fotografica, togliendo anima alla raffigurazione (fatte salve rare eccezioni). Di contro, molti esempi rivelano come la fotografia si sia convertita a effetti pittorici, quali sono le “nature in posa” di LaChapelle.
Dialogo – scambio o contaminazione che si voglia – che nell’esposizione si coglie e porta a considerare il perdurare dell’interesse per la vita silente, che tanto “silente” non è se la si contestualizza in una visione storica di eventi politici, sociali, economici.


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