Non è un caso se nel magma sociale e culturale di quel mondo che si sta liquefacendo, quale è la sinistra come identità culturale e comportamentale prima che politica, siano le convulsioni di un giornale, anzi del quotidiano per eccellenza, quale è la Repubblica, più che le difficoltà del partito guida, com’è ancora il Pd, a dominare la scena.
Attorno al simulacro di quella chiesa laica che è stata l’egemonia del giornale fondato da Eugenio Scalfari da tempo si stanno affannando chierici, sacerdoti e soprattutto cardinali. Forse i fedeli, nel caso, i lettori, sono gli unici che assistono quietamente al balletto che va in scena. Il loro modo di giudicare è quello classico delle comunità digitali: ci si astiene, si stacca la spina, ci si disconnette.
A farlo sono stati parecchi in questi ultimi sei, sette anni: diciamo che la Repubblica è ormai largamente sotto la metà della tiratura, e soprattutto delle vendite. Si galleggia sulle 180mila copie, a fronte delle 450mila che si vendevano ancora cinque anni fa e delle settecentomila di dodici anni fa.
Un avvitamento che spinge il pater familias, Carlo De Benedetti, a cercare di riprendersi il salotto buono dell’editoria illuminata, e la famiglia Agnelli, meglio ancora i due Gracchi moderni, i due eredi della dinastia, che sono i fratelli Elkann, a comprarsi quello che avevano venduto – La Stampa e Il Secolo XIX – con allegato anche il network di Repubblica e dei giornali locali: Lassie torna a casa.
Con un libro, Grand Hotel Scalfari (Marsilio editore), che non è una rievocazione né un testamento professionale, ma un’aggressiva operazione di nostalgia futurista, una specie di ambiziosa esposizione di argenteria del casato, in cui si mette in mostra un’ambizione più che un illustre passato, il fondatore, Eugenio Scalfari, affida a due delle sue penne più accreditate, come Antonio Gnoli e Francesco Merlo, il suo editto: torniamo anche noi a casa, alle origini della nostra fondazione, nel 1976.
In questa frenetica corsa all’indietro, in cui ognuno cerca di riconquistare le posizioni di partenza – gli Agnelli fanno gli editori, Scalfari il capo della borghesia, i giornalisti prendono appunti – che Bauman avrebbe definito eterotopia, culto enfatico e trasfigurato del proprio passato, ci sembra utile cogliere i tratti di un approccio che ritroviamo in larga parte del dibattito politico e culturale, che ormai è tutto immerso in una spirale di eterotopia permanente.
Mentre le piazze sono invase dalle sardine, pesce di superficie, elettrico e nomade, che attraversa grandi tratti di mare in banchi cercando habitat per riprodursi, si moltiplicano le cernie, pesci di fondo, stanziali, e di lunga vita, quasi eterni, che dalla propria tana misurano il mondo sulla base delle scarse ombre che percepiscono appena fuori dagli anfratti in cui si trincerano. Scalfari, grande fabbricatore di giornali, e attraverso i giornali, di identità sociali e politiche, che ha cambiato l’anima alla sinistra, trainandola sulle secche di un liberalismo senza base e senza vertici, reagisce alla bonaccia che sta affondando il giornale con un nuovo ordine di servizio: si ritrovi lo spirito del ’76.

Qualcuno a Repubblica starà convulsamente aprendo cassetti e armadietti, cercando questo spirito, che forse si è infilato in una bottiglia o in un cappello. Dalle reazioni che s’intuiscono dei due curatori del libro non sembra che ci siano indizi sicuri per rintracciare questo spiritaccio della fondazione del giornale. Scalfari dà indizi, come a una caccia al tesoro: giornale più snello, malandrino, contaminante, che dia ordine allo tsunami informativo, trasformandolo nel laghetto di Piccolo mondo antico, il libro di Fogazzaro che presenta molte assonanze con Grand Hotel. Il protagonista è sempre un giovane liberale, che sfida il vecchio regime, per poi trovarsi solo, dopo aver provocato varie sciagure, e vede la storia veleggiare lontano da lui, e per questo maledice gli incomprensibili barbari.
Proprio i barbari sono gli incubi di Scalfari: bande di lanzichenecchi analfabeti e presuntuosi, che dalla rete cingono d’assedio il suo giornale decimando i lettori e disprezzando i meriti professionali e storici. Soprattutto interrompendo quella permanente festa a corte che era in fin dei conti la Repubblica. Scalfari spiega bene come si siano divertiti lui e i suoi giornalisti a fare gli istitutori di governo e opposizioni: eravamo una specie di circolo velico, con tornei, party e gare sportive. Soprattutto eravamo al centro di tutto, si capisce dal rammarico che tradisce il grande direttore nel rievocare tempi eroici. “Io sapevo chi erano i miei lettori, e cosa volevano”, dice il fondatore. Anzi fa capire esplicitamente: io ero tutti i miei lettori. Ancora di più, io ero i lettori e i fatti.
Tutto e solo io, io e i miei giornalisti, senza intrusi, osservatori, critici o pedanti contraddittori. I fatti, insiste Scalfari, polemizzando con un suo storico avversario oggi scomparso, Lamberto Sechi, il mitico fondatore della versione moderna di Panorama, negli anni Sessanta, che sosteneva lo slogan “i fatti separati dalle opinioni”. Balle, commenta senza metafore l’ex direttore dell’Espresso, competitore diretto di Panorama in quegli anni: i fatti sono sempre intrinsecamente dettati dalle opinioni dei giornalisti. I lettori si beccano il pacco completo e leggono, in silenzio. Almeno imparano qualche parola in più di quelle misere formule lessicali che leggiamo oggi in rete.
Un vero manuale di antropologia del rancore. Il tutto deformato da una visione demoniaca della rete, intesa come spettro estraneo che s’è impossessato delle nostre menti: è l’inspiegabile e – tutto sommato, fa intendere – ingiustificata diffusione del web a causare la crisi verticale dei giornali e con essa l’imbarbarimento delle folle.

Forse questo è l’unico punto su cui varrebbe la pena di contraddire il fondatore: il resto è talmente legato alla sua vita ed esperienza, oltre che essere parte costitutiva di un indubbio ed esplosivo successo, che sarebbe davvero feroce, oltre che indebito, sovvertire il senso. Mentre almeno su un piccolo dettaglio forse varrebbe la pena di richiamare l’augusta attenzione del direttore del circolo velico più colto e influente d’Italia: la gente cambia in tutto il mondo, alla stessa velocità, nella stessa direzione, con la stessa modalità perché forse pretende e ambisce a non rimanere fuori dal suo circolo velico, e a interferire con le opinioni dei suoi giornalisti. Sarà barbarico ma oggi pare incontestabile. Certo ci sono contraddizioni, persino retromarce, e abbagli, ma anche nelle azioni apparentemente più oscurantiste e retrive vi si scorge la traccia di un protagonismo e di un’ambizione che prima nessun direttore pensava di dover decifrare e considerare. Questa è la civiltà dei barbari. Sia per i giornali sia per i partiti.
Non avremmo né squali né sardine se fossero ancora solo le cernie a decidere cosa si pubblica.
Non certo io, il più insignificante cronista dell’intero ordine professionale, ma le parole di un grande sociologo come lo stesso Bauman, o di un grande filosofo come Severino, o ancora di un grande matematico come Paolo Zellini, o di una grande filosofa della tecnologia come Shoshana Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza), o di uno scienziato delle relazioni sociali digitali come Bernard Stiegler (La società automatica), potrebbero catturare per qualche momento l’attenzione di chi comunque ha vinto ieri e sollecitare la curiosità.
Capirebbe forse l’errore che fa quando dice che tutto è cambiato perché c’è il web.
È come dire che il muro di Berlino è caduto perché l’hanno preso a picconate. O ancora più chiaramente, come quel cardinale del film In nome del papa re di Luigi Magni che, alla vigilia della presa di Porta Pia, si lamentava con il suo abate – interpretato da un gigantesco Nino Manfredi – che il giorno dopo sarebbe cambiato tutto perché arrivavano i piemontesi, e si sentì rispondere dall’abate: “eminenza qui arrivano i piemontesi perché è già cambiato tutto”.
Troverà mai un abate, Scalfari?

Le immagini sono tratte dall’account twitter di Ottavio Di Brizzi (Marsilio) [@ottaviodibrizzi]

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