Dopo la consegna del sesto, stavolta immeritato, pallone d’oro, è giunto il momento di provare a salvare Lionel Messi da se stesso. Bisogna salvarlo, soprattutto, dall’antipatia che i vincitori seriali si attirano addosso, specie se si considera che il nostro non ha le spalle abbastanza larghe per reggere simili pressioni.
Messi non è Ronaldo: campione bionico e uomo macchina, capace di plasmare il proprio fisico come se fosse uscito dallo scalpello di Michelangelo, fuoriclasse figlio del lavoro, della fatica e di milioni, forse miliardi, di gocce di sudore.
Messi è così perché Madre natura l’ha dotato di un talento da cui solo Pelé, Maradona e pochissimi altri erano stati baciati prima di lui.
Ha costruito l’intera carriera sul consenso delle masse, sul plauso della folla in delirio dopo la sua ennesima magia, sulle vittoria di una meraviglia chiamata Barcellona che non ha bisogno di presentazioni e nel cui DNA sono inscritte arte, poesia e bellezza.
Messi è stato il degno alfiere di un ingranaggio senza punti deboli, in cui il catalanista Guardiola ha recitato la parte del demiurgo e Xavi e Iniesta hanno applicato per anni i dettami di Euclide al calcio. Poi c’era lui, il fenomeno, la classe cristallina che si liberava nei trenta metri finali e ne combinava una, o spesso più, a partita, al punto che le rarissime volte in cui rimaneva a bocca asciutta la notizia costituiva di per sé un evento.
Messi è il volto simbolo dell’Unicef, l’amico ideale dei piccoli e degli indifesi, il sostenitore di mille campagne umanitarie, il mito che abbraccia e dona una maglia a un bambino afghano che giocava con un sacchetto di plastica albiceleste sulle spalle con su scritto il suo nome, e commosse il mondo intero quando volle rintracciare questo sventurato sognatore e lo strinse a sé.
Messi è il campione dal volto umano, il figlio che tutti i genitori vorrebbero avere, una sorta di eroe dei fumetti, l’incarnazione del bene che sconfigge il male. E pazienza se Ronaldo è più forte fisicamente, se nel duello si è dimostrato spesso più uomo, più abile nel fare squadra, più leader.
Pazienza, perché Leo non ha bisogno del carisma per imporsi: gli basta la purezza di un tocco di palla di cui nessun altro dispone.
Messi sembra uscito da un’opera di Borges, è l’incarnazione stessa della sua teoria secondo cui “ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio”.
Leo è associato alla nonna che lo portava al campo di gioco e rimaneva a guardarlo estasiata, ai ricordi di chi ha potuto ammirarne la grandezza quando ancora non era nessuno, agli aneddoti di chi ha vissuto l’infanzia dall’altra parte dell’Oceano, là dove il calcio è spesso l’unica forma di riscatto possibile e il talento viene osannato in quanto considerato una sorta di dono di Dio.
E poi è il bambino che non cresceva, cui il Barcellona pagò le costosissime cure ormonali affinché la sua grandezza in nuce potesse poggiare su basi solide, il piccolo che, a tredici anni, varca l’Oceano e soffre di solitudine ma stringe i denti e sul campo dimostra a tutti di che pasta è fatto.
Leo è una favola, insomma, un fumetto da raccontare ai bambini prima che si addormentino, un artista che dipinge affreschi che possono competere con la volta della Sistina, tanta è la grazia del suo volo verso l’infinito.
Messi non conosce record: è egli stesso un record, un qualcosa di paranormale, l’idolo di un’intera generazione, ciò che Antonio Gramsci avrebbe definito “egemonia culturale”, tanto il suo Barça ha dettato legge negli ultimi quindici anni.

Per questo, proprio perché gli vogliamo bene e lo consideriamo un patrimonio dell’umanità, crediamo che vada salvaguardato da chi gli fa del male. Quando, nel 2010, il pallone d’oro venne negato a Iniesta, che aveva condotto la Spagna sul tetto del mondo con l’“Iniestazo” in finale contro l’Olanda, fu uno scandalo veder assegnare il prestigioso riconoscimento a un campione nel fiore degli anni che, però, nell’anno di grazia 2010, non aveva vinto nulla in ambito internazionale, a differenza del compagno di squadra che aveva trascinato la propria nazionale là dove nessun altro era stato in grado di guidarla.
Passi una volta, ma due è davvero troppo. Negare il pallone d’oro a uno fra Alisson e Van Dijk è stato un atto di pura crudeltà da parte dei giurati di France Football, i quali, regalando a Messi un premio che non gli spettava, hanno rinfocolato tutte le polemiche in merito, comprese le più complottiste e pretestuose.
Leo non può vivere assediato: non ha la forza per resistere. Non può vivere circondato dall’astio di chi lo considera un usurpatore del trono altrui, non può attirarsi le ire di quanti sostengono che vinca solo per ragioni legate agli sponsor e agli introiti pubblicitari che garantisce.
Leo ha bisogno di vittorie limpide, inequivocabili, al di sopra di ogni sospetto. Ha bisogno di sentirsi amato perché sapere di avere dei nemici gli mette tristezza e ne mortifica la classe inimitabile.
Messi va salvato, prima che sia troppo tardi, da chi vorrebbe trasformarlo in un fenomeno da baraccone, nel clown che compie il numero al circo e salva la compagnia quando gli incassi della giornata sono grami. Va protetto e messo al riparo innanzitutto dalla smania di primeggiare sempre e poi da riconoscimenti che, quando non gli spettano, gli fanno più male che bene.
Aver trasformato il più forte giocatore al mondo in un juke-box, in cui si inserisce il gettone e parte la musica che si desidera, in questo caso gol e assist, significa accelerarne l’ineluttabile tramonto.
Messi va tutelato dai profittatori che distrussero Maradona, dagli aguzzini di sogni e di speranze, da chi lo considera unicamente un marchio, un’agenzia pubblicitaria, un’industria che ha a che fare col calcio solo per il suo aspetto commerciale, non certo per la poesia che è in grado di sprigionare.
Per questo, nei giorni della gloria, mentre gli consegnano l’ennesimo alloro e lo collocano in vetta all’Olimpo, noi che amiamo l’uomo Messi, il calciatore favoloso che è ed è sempre stato, avvertiamo il dovere di metterlo in guardia e tutelarlo dal codazzo di profittatori che, inevitabilmente, tende ad avvicinarsi a personaggi di quel livello.
Leo avrà ancora tanti anni di splendore davanti a sé solo se resterà in eterno il bambino che rincorreva un pallone di fortuna lungo le vie di Rosario. Qualora dovesse trasformarsi in un mero testimonial, potrebbe anche vincere altri quattro palloni d’oro ma perderebbe tutto il resto. Per prima cosa l’amore della gente, che è sempre stato la sua forza, ciò che lo rende ineguagliabile anche quando non vince.

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1 commento
Egregio Direttore,
che a 29 anni o giù di lì si possa stravedere per una squadra di calcio ci può stare e, in effetti ci sta. Però riesce difficile comprendere il senso e l’utilità di pubblicare due atti di amore verso il Barcellona su un periodico come il vostro, che si occupa di grandi temi, ovvero di temi di rilevanza sociale e politica universale o almeno nazionale. A meno che non si tratti di una serie che avete appena inaugurato per “alleggerire” i contenuti della testata: nel qual caso, vedremo inni d’amore indirizzati anche ad altre squadre storiche, che so il Genoa, o la Pro Vercelli?
A parte l’impiego a piene mani di elogi sperticati e, come sempre nel calcio, discutibili (Iniesta-Euclide, carisma, demiurghi a gò gò), e a parte il fatto che per spacciare uno scandalo arbitrale di proporzioni immani come la “remuntada” di qualche anno fa contro il PSG bisogna essere o molto di parte o molto sprovveduti; a parte il tono agiografico dell’articolo su Messi, tra il libro “Cuore” e la Corea del Nord (Messi amico ideale dei bambini e dei deboli… una volta si diceva così anche di Stalin e di Michael Jackson): il fatto è che il Barcellona è una delle squadre di punta di quel fenomeno di globalizzazione culturale e commerciale che ha fatto del calcio il nuovo “oppio dei popoli”, e Messi è il suo profeta.
Dispiace vedere che “Ytali” si presta a questa grancassa trionfalistica sulle sorti magnifiche e progressive del calcio, basata in parte anche su un vero e proprio culto della personalità di Messi e Cristiano Ronaldo, che fa audience, alimenta le polemiche ed aiuta a vendere il prodotto calcio. Bisogna proteggere Messi? A parte il fatto che il giornalista parla come se lui e Messi fossero grandi amici, ma è difficile pensare che Messi non si renda conto dell’ambiente in cui vive e lavora. Possiamo invece ipotizzare che di ricevere Palloni d’oro immeritati non gliene freghi niente? Se proprio volete parlare di football, parlate delle finte manovre anti-corruzione della FIFA; del costo umano dei prossimi Mondiali in Qatar (con costo umano intendo non la sofferenza dei tifosi che si vedono stravolgere il calendario abituale dei campionati nazionali ma piuttosto le centinaia di operai morti sul lavoro, in base alle statistiche ufficiali del Qatar); dell’impatto ambientale dell’organizzazione di un Mondiale in un Paese dal clima proibitivo; del commercio internazionale (sarebbe forse meglio dire tratta) dei giocatori africani; del ruolo di sponsor, procuratori e altri che lavorano dietro le quinte.
Mi pare che sarebbero tutti argomenti più adatti ad una rivista come la vostra.
Cordialmente,
Giorgio Rota