La caduta del muro di Berlino di trent’anni fa è stata ampiamente (e giustamente) ricordata e celebrata. È stato anche detto – come da comune vulgata – che con il muro venne giù anche il comunismo. Non è proprio così: perché certamente nell’89 e negli anni immediatamente successivi sparirono in Europa orientale tutte quelle forme statuali che avevano reificato il cosiddetto socialismo reale di impianto brezneviano, Urss compresa. Ma se poi, come dice l’abc della teoria marxista, per comunismo si intende un sistema economico-sociale in cui i mezzi di produzione sono posseduti e gestiti in maniera egualitaria dall’intera collettività che si governa senza bisogno di uno stato, allora tutto questo c’entrava assai poco con il blocco del socialismo reale, dato che per gli stessi sovietici il comunismo era un obiettivo a cui tendere, non certo – come imprudentemente sostenne Krusciov – un obiettivo messianico ormai pressoché raggiunto.

Piuttosto è vero che con l’89 cadde ogni spazio per un pensiero, per una idea diversa da quella proposta dall’ideologia del libero mercato. Talmente libero (e liberista) da farsi globale. “Pensare altrimenti”, per dirla con un titolo di Diego Fusaro, divenne obsoleto, anacronistico, anzi del tutto errato. Per il filosofo francese Alain Badiou, viviamo nel mezzo di una seconda Restaurazione: un momento della storia, afferma,
che dichiara abominevoli o impossibili le rivoluzioni, nonché naturale quanto eccellente la superiorità dei ricchi.
Quanto a questi ultimi, nessun dubbio che gli ultimi lustri siano a loro congeniali: il Global Wealth Report 2019 del CreditSuisse dice che la ricchezza aggregata globale era di 360 mila miliardi di dollari a metà 2019: in media, sono quasi 71 mila dollari per adulto. Ma in media, appunto: perché nel mondo ci sono 46,8 milioni di persone con un patrimonio di almeno un milione di dollari. Il maggior numero di milionari vive negli Stati Uniti seguiti dalla Cina (curioso per una repubblica “popolare”), mentre i milionari italiani sono un milione e 496 mila, quasi quadruplicati rispetto al 2010 mentre saranno quasi due milioni nel 2024. E poi ci sono i super ricchi, i miliardari: secondo uno studio della banca UBS (The Billionaire Effect), nel mondo ci sono 2.101 miliardari in dollari. Possiedono patrimoni per 8.563,8 miliardi di dollari e la crescita del numero dei miliardari e della loro ricchezza è indubbia: tra il 2014 e il 2018 si sono aggiunti 589 nuovi miliardari e il loro patrimonio è cresciuto di 2.200 miliardi di dollari.

Sicuramente questo è l’aspetto brillante e vincente della globalizzazione, che però nasconde – nemmeno poi molto – una “glebalizzazione” (per usare un altro titolo di Diego Fusaro) che tocca non solo le filiere manifatturiere o dei servizi a basso valore aggiunto (ma ad alto plusvalore) di tante aree del pianeta, ma che investe la stessa Italia. Luca Ricolfi, nel suo La società signorile di massa, scrive di una “immigrazione incontrollata, che ha favorito la formazione di un’infrastruttura para-schiavistica” in cui
i ricchi e i ceti medi […] li vedono [gli immigrati] un po’ cinicamente come candidati ideali ad occupare le posizioni più umili nella scala sociale: braccianti, muratori, magazzinieri, facchini, badanti, camerieri, lavapiatti, per non parlare dei servizi illegali, come lo spaccio di sostanze, la prostituzione, il gioco d’azzardo illegale.
Ciò mostra come la nota e ottimistica tesi della “fine della storia” (1992) giunta ormai al suo compimento felice nel liberalismo democratico in realtà annulli o obnubili la coscienza di essere dentro la grande caverna platonica, ignari delle proprie catene e anzi soddisfatti della fasulla realtà delle ombre che passano fuori, a cui oggi il sistema dei media e del marketing fornisce una efficacia persuasiva formidabile. In particolare è proprio nel dogma del consumo iperconsumista che, come scrive Gilles Lipovetsky nel suo La felicità paradossale,
Le società consumistiche si imparentano con un sistema di infiniti stimoli, hanno bisogno di intensificare delusione e frustrazione, quanto più gli inviti di felicità risuonano a portata di mano. La società in cui più apparentemente si celebra la felicità è quella in cui più manca […] quella in cui le insoddisfazioni crescono più velocemente delle offerte di felicità. Si consuma di più, però si vive di meno; quanto più si dissetano gli appetiti dello shopping tanto più aumentano le insoddisfazioni individuali.
Si può dire allora che dopo l’89 da un lato si esaspera scientificamente il tempo, come scriveva Marx in Miseria della filosofia,
in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore.
In altre parole è il tempo del “biocapitalismo”, dove vengono fatte diventare “biovalore” anche le componenti biologiche, mentali, relazionali e affettive degli individui produttori-consumatori (si legga Vanni Codeluppi).

Dall’altro lato, il post ’89 esaspera anche l’alienazione idiota della caverna platonica al cui interno appare naturale e indiscutibile un unico pensiero e quindi un unico, quieto modus cogitandi. Eppure rimane assolutamente irrinunciabile riproporre “la critica spietata di tutto l’esistente, la visione umanista di un mondo veramente umano”, parole con le quali nel 1964 si lanciò l’avventura di Praxis, la sfortunata rivista del marxismo umanista jugoslavo. Perché mai come oggi “la critica spietata di tutto l’esistente” esige le necessità della critica come prassi di verità, della libertà dell’individuo come condizione della libertà di tutti e di un’antropologia assolutamente umanista. La storia ci dice che dopo l’89, nonostante le speranze e le illusioni, non siamo certamente andati verso queste direzioni. Tantomeno nei paesi detti post-socialisti.
Nell’immagine di apertura graffito sul Muro di Berlino raffigurante Leonid Breshnev che bacia Erich Honecker (foto di Angelo Faiazza – particolare – fonte Wikimedia Commons)

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