Ho avuto la fortuna di conoscere ben due Ettore Scola, anche se forse lui non mi ha mai conosciuto*.
Il primo Ettore Scola era il militante politico, ben disposto dal 1968 in poi a spendere la sua fama di artista per buone cause politiche. Nel 1989, si era generosamente impegnato nel governo ombra dell’ultimo Partito comunista, incaricato del dicastero degli spettacoli. Era molto interessato a capire come funzionasse il governo ombra in Gran Bretagna all’epoca dei governi della Signora Thatcher, e lo divertiva molto la procedura nella quale la Lady di ferro diceva un paio di battute e poi si rimetteva a sedere sulla panca, lasciando il palco al suo oppositore, che a sua volta tentava di aggiudicarsi il duello, alzandosi in piedi, dicendo una battuta la più stringata possibile e poi rimettendosi seduto. Da esperto sceneggiatore, avrebbe forse voluto scrivere lui quelle battute, e si informava su quanti metri di distanza ci fossero tra i banchi del governo e quelli dell’opposizione, tanto da buttar già con la matita – la sua era sempre all’opera – addirittura qualche bozzetto. In quella breve stagione, Scola si impegnò molto per fare proposte e addirittura disegni di legge. Avrei voluto parlare dei suoi film, e dire quanto mi erano piaciuti, ma non osavo perché si capiva lontano un miglio che non amava i complimenti.
Il secondo Ettore Scola che ho conosciuto è stato il padre di Silvia. Quando c’era Silvia di mezzo, mi guardava con aria scontrosa e a brutto muso chiedeva: “E tu chi sei?”. Forse erano momentanee amnesie, forse le modifiche nella mia acconciatura dei capelli non lo aiutavano a riconoscermi. Ma probabilmente emergeva in quei frangenti l’istinto del padre meridionale un po’ geloso delle figlie, per quanto – almeno fino ad ora –non ci abbia mai provato con Silvia.
Come dice mio fratello, Roma è una monocamera affollata e capitava spesso di incontrarlo e di dovermi subire gli immancabili “e tu chi sei?”. Battute così ripetute che potevano essere addirittura il preludio per una nuova sceneggiatura. In quei frangenti, si avvicinava premuroso alle mie accompagnatrici, e con tono suadente faceva un lieve e garbato ganascino: “che carina!” E loro, in visibilio, ripetevano la scena per giorni e giorni: “Ettore Scola mi ha detto ‘che carina!’”. Ed io lì a rosicare e a meditare la vendetta.
Fu così che quando lo incontravo, ripetevo ganascino e “che carino!” nei confronti di chi mi capitava: a volte approfittavo della gota di Furio Scarpelli, sfidando il suo sarcasmo epico, mentre Leo Benvenuti, un omone grande e grosso ma di infinita bontà, si prestava volentieri alla gag e addirittura piegava le ginocchia per offrirmi la sua guancia. Quanto avrei voluto dire a Scola che i suoi film avevano ispirato la mia vita, ma non osavo.

Fatemelo dire, ai tempi del #metoo: Ettore Scola trattava le persone, donne incluse, forse un po’ ruvidamente ma sempre con grande rispetto. Ed è un piacere avere qui in sala, oltre alle figlie di Scola, anche Cristina Comencini, la figlia di Luigi, e Orsetta Gregoretti, la figlia di Ugo, perché tutti e tre questi padri erano dei veri gentiluomini, guidati dall’amore, prima di tutto per le proprie mogli, e certamente non da quella volgare rapacità denunciata da #metoo.
Non ero sceneggiatore, né regista né tantomeno attore. Eppure, osservavo gli sceneggiatori con lo stesso interesse con cui i bambini spiano i falegnami e i muratori. Non smettevano mai di lavorare. Nei ristoranti e suoi marciapiedi, nei salotti e nelle escursioni, provavano una frase e, se poi non funzionava, la ripetevano due o tre volte, fino a quando non prendeva il verso giusto, invertendosi i ruoli. E chissà quanti di quegli scambi occasionali sono poi effettivamente confluiti nella commedia all’italiana.
Gli sceneggiatori erano in squadre contrapposte, eppure vocati alla collaborazione professionale. Non si risparmiavano le critiche, anche aspre, ma erano sempre pronti a scambiarsi consigli e a dividere il lavoro. Mi disse, già nel 1976, Luigi Comencini: “negli anni di crisi, si fanno i film ad episodi, almeno così c’è un po’ di lavoro per tutti”.
Ma se mancava qualcuno all’appello, tutte le maldicenze (e di benevole malelingue la commedia all’italiana era piena zeppa) si scatenavano sull’assente. È per questo, si dice, che dovevano essere tutti presenti all’Osteria Otello alla concordia di via della Croce. Leo Benvenuti & Piero De Bernardi erano i più scanzonati, tanto che si beccavano le critiche dei più impegnati (“poverino qui, poverino lì, e poi che ne viene fuori? Ma non avete capito che senza sottostante tragedia la commedia è vuota?”). Ugo Pirro aveva sempre il cipiglio del più politicizzato. Furio Scarpelli emergeva come il più penetrante. Ettore Scola ascoltava tutti prima di dire la sua. Se mancava qualcuno, si spargevano le dicerie su di lui, anche quelle più riservate. Da qui la battuta ripetuta tante volte: “che sei venuto a fare?”, cui rispondevano “per farvi parlare male di qualcun altro”.
Ma non erano paghi delle malignità che si dicevano vicendevolmente. Se entrava un altro, fosse pure un giovane economista scalcagnato, diventava subito l’occasione per allargare lo spettro delle chiacchiere. Prima ancora di sedermi ad un tavolino, sentivo sibilare le frecce.
Ho aggiunto anch’io qualche ricordo, ma molti e di assai più belli li trovate nel libro di Paola e di Silvia. Un libro che parla di Scola ma che, di fatto, è uno spaccato esemplare su una parte così importante del cinema italiano. Un libro che mi suscita una invidia sorda ed esasperata.
Prima di tutto, perché ci sono due figlie così innamorate del padre. Lo adorano, proprio come lui avrebbe voluto essere adorato. Non per il suo talento, non per la sua generosità, ma per come ha saputo fare il padre: con buonumore. Il titolo del documentario che Paola e Silvia gli hanno dedicato, Ridendo e scherzando, spiega che le caratteristiche essenziali della commedia all’italiana non erano circoscritte al mondo professionale, erano un vero e proprio stile di vita. Gli altri comuni mortali, me compreso, non riescono a fare con i figli neppure la frittata con le patate e non possiamo che ammirare chi, invece, riuscito così bene ad avere con la prole un dialogo così profondo e duraturo.
La seconda invidia profonda è per l’atmosfera della casa dove Paola e Silvia sono cresciute. Una casa dove circolavano attori e registi, disegnatori e comparse. Tutti con una storia da raccontare o da disegnare, tutti disposti a mettere ai piedi delle figlie e dei loro amici la loro sapienza. Molte persone eccezionali, ma questo non ha impedito alle due ragazze di essere principesse della scena domestica. Beate loro! La pedagogia di casa Scola sembra essere stata assai più efficace di quella Maria Montessori: basta trovare la battuta giusta e il problema è risolto.
Poiché la narrazione parla di cinema, mi sono più volte chiesto: abbiamo in questo libro il trattamento da cui far scaturire una nuova sceneggiatura? Di materiale ce n’è veramente tanto, ma come potrebbe essere concepita?
Casa Scola ci viene presentata come un luogo dove i soldi non mancano mai, dove le uniche corna sono quelle di Vittorio Gassman nell’Arcidiavolo, dove i collaboratori domestici diventano parenti acquisiti e dove qualsiasi conflitto si risolve con una freddura.
Tutto quello che non succede a casa mia.
Una casa dove le due sorelle – ora addirittura co-autrici – vanno d’amore e d’accordo, dove ciascun ospite è ben accetto, dove le parolacce sono usate come rafforzativo di una spiritosaggine e non per offendere, dove non volano né piatti né bicchieri.
Tutto quello che non succede a casa mia.
Diceva Oscar Wilde di preferire il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia. Casa Scola sembra aver risolto il dilemma: la compagnia è quella che ci vuole per un paradiso molto speciale. Ma un film paradisiaco non rischia di essere noioso? Dove sono, allora, le contraddizioni, i conflitti, i dilemmi, che sono alla base di qualsiasi avventura?
Beh, Paola e Silvia, se ne volete fare un film, dovete tirarle fuori! E allora chiamiamo il babbo, chiamate il babbo, e vediamo che cosa suggeriscono le sue opere.
Viene in mente La famiglia, dove il luogo principe è il corridoio di una grande casa borghese, ma con un segreto che attraversa le generazioni: il protagonista innamorato della sorella di sua moglie. Nutrito da questo piccolo grande mistero, scorrono i decenni.
E come non tener presente Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca, un film che, sotto la tipica leggiadria della commedia, si nasconde una innovazione narrativa, giacché i piani sono sovrapposti, con i personaggi chiamati a ricostruire in campo le vicende di cui sono stati fino ad un attimo prima protagonisti.
Linfa vitale la si trova, come sempre, in C’eravamo tanto amati, un film che per epica supera Via col vento e il Dottor Zivago. Un film che fa intravedere una ucronia possibile ma perduta.
Ma, ovviamente, viene in mente il vero e proprio contraltare dell’eden di Famiglia Scola: Brutti, sporchi e cattivi, un film coraggioso proprio per la totale assenza di personaggi positivi. Tutte perfide carogne, eppure nessuno veramente cattivo. Se proprio non c’erano perfidie a via Bertoloni, per farne un film bisognerebbe almeno inventarle.
La mia è non una proposta, è una speranza che ci consenta ancora una volta di vivere e rivivere l’opera e il pensiero di Ettore Scola e della sua scuola.
Non ho fatto intervento, bensì un provino. Chiamiate il babbo e mandategli i saluti di tutti noi. Sperando che, alla fine, quel celebre “e tu chi sei?” che ancora mi rimbomba nelle orecchie, si tramuti in una particina, magari piccola piccola, perché neppure al Consiglio Nazionale delle Ricerche viviamo di sola scienza. E senza le sue storie, tutti noi, al Cnr e in tanti altri posti, ci sentiamo tanto più soli.

*Testo dell’intervento alla presentazione di “Chiamiamo il babbo. Ettore Scola. Una storia di famiglia”, di Paola e Silvia Scola (Rizzoli, 2019, 285 pp., euro 19) tenuta presso la Biblioteca del Cnr, Piazzale Aldo Moro, 7, Roma, il 4 dicembre 2019.

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