Vittorio Mezza ha quarantatré anni, ha studiato al Conservatorio, dove ora insegna. Appartiene alla rara classe dei jazzisti italiani, che suonano in giro per il mondo.
Il tocco di Vittorio è elegante, prezioso, cristallino. Nelle sue note si sentono le basi classiche: note ben salde, che prendono accordi e ritmi per portarci poi nei luoghi di una musica che si libera da tanta disciplina, si svincola dal conosciuto e ci conduce per mano nelle vette di un’improvvisazione forte, inedita, limpida e felice.
Il jazz è una musica che non offre, soprattutto oggi, molte garanzie di visibilità, notorietà, successo. Dopo aver ascoltato alcune delle sue opere, mi sono incuriosito e ci siamo fatti una chiacchierata.
Vittorio vive e lavora a Roma. Si sposta con grande frequenza in Europa (prevalentemente in Germania), in Canada, Sudafrica, Camerun, America del Nord, Australia, Giappone. Ha un trio stabile con cui lavora e fa concerti nei luoghi più lontani, Osaka e Nara ad esempio, da raggiungere in pochi giorni. La sua musica è suonata con tutto il corpo e la difficoltà data dalle distanze e dai fusi orari richiede una perfetta forma fisica, che gli consenta di dare tutto se stesso, fino all’ultima nota. Infatti la caratteristica di Vittorio, che l’orecchio coglie subito, da uno qualsiasi dei suoi album, è la lucidità, la consapevolezza di chi conosce le partiture e lo strumento e ne distrugge il senso per far nascere altro, sempre in piena e totale coscienza di sé e del suo piano. La musica di Vittorio Mezza porta sempre… altrove.
Mentre ci sentiamo per parlare di musica, a Roma piove. È appena rientrato a casa dal Conservatorio e so che sta partendo per il Canada.

Vittorio Mezza, per chi e dove suoni nelle tuoi giri in Canada?
Grazie all’organizzazione impeccabile di Ydro Subic lavoro molto a Toronto e a Montreal, dove tu sai che la presenza degli immigrati italiani è molto, molto consistente.
Ho visto, qualche anno fa, che in Canada c’è una vasta comunità italiana, legata però agli emigrati di una certa età e quindi amanti o del bel canto o della musica popolare italiana di facile ascolto, i Pupo della situazione, Albano e Romina… i vecchissimi successi di Mina che sentivo alla radio italiana a Toronto Quando visitai alcuni amici in Canada trovai addirittura la radio friulana.
Questa è la generazione successiva quella che viene ai miei concerti è la generazione dei figli, dei nipoti. Ci sono dei festival, oltre a quello famoso di Montreux, che pullulano ovunque. Si suona, come in tutte le grandi città del Nord America e del Canada, nei locali, nei teatri, nei jazz club, ovunque. Nelle Americhe il jazz è molto amato e diffuso.
Vittorio, oltre al tuo lavoro al Conservatorio, hai collaborato con l’orchestra Rai per programmi popolari come “Domenica in”, cosa ti ha spinto così lontano? In un mondo che, a parte qualche nome, è più difficile di quello della musica classica.
In realtà anche l’Italia brulica di appassionati. Oltre a Umbria Jazz o a Cagliari, che ne raccoglie una enormità, il nostro paese è pieno di piccoli festival organizzati da appassionati dove mi chiamano, da solo o con il trio. È una musica che non si sceglie per arricchirsi, ma che si suona dal vivo per la gioia di suonarla. Le dimensioni possono essere diverse, le organizzazioni sono sempre un po’ precarie per la mancanza di fondi, ma c’è in giro un ascolto mirato, un pubblico molto sensibile, e una qualità delle scelte molto elevata. La gente viene ad ascoltare. Partecipa numerosa ai vari “on stage”.

Vittorio, il problema dei soldi c’è sempre stato nel jazz. Enrico Rava ci raccontò a Radio tre di quando rubarono il sax a Gato Barbieri a New York. Avevano poco, erano tutti molto giovani, e si misero in tanti per trovare i dollari necessari, non pochi, per ricomprarglielo, con precedenza sul pagamento dell’affitto dell’unico appartamento condiviso.
Ma facciamo un salto indietro nel tempo, anche se tu sei giovane. Quando ero ragazzo, oltre alla musica cosiddetta “extracolta” c’erano dei veri e propri maestri del jazz che dovevamo avere tra i dischi che compravamo, se ti ricordi, i successi planetari di Jarrett, Coltrane, che era famoso; l’avvento elettrico, che ruppe con la tradizione di Miles Davis, le commistioni jazz-pop, i Soft Machine, Chick Corea, John Mclaughlin, solo per fare alcuni nomi. In Italia il Perigeo, che ebbe un buon successo per la bravura di Bruno Tommaso, tra gli altri; i periodi del folkstudio, Radio tre, dove Filippo Bianchi divulgava il jazz, anche quello più difficile all’ascolto, con share insperabili. Mi sembra, ma forse è una mia impressione, che in quel periodo ci fosse più possibilità di avere un vasto pubblico, o meglio di avere un pubblico esigente e fedele.
Io sono convinto che se oggi uscisse The Wall dei Pink Floyd avrebbe, può sembrare un paradosso, meno successo di allora.
Spiegami meglio
Il modo di produrre la musica ne ha cambiato la modalità di ascolto e la tipologia di diffusione. I vari siti propongono “il pezzo”, ma il concetto di disco inteso come “opera”, che ti metti a scrivere e a suonare per un’ora abbondante di musica, è completamente cambiato.
Pensavo che maggiori possibilità significassero anche maggior selezione e alla fine maggior qualità. Eppure, dall’altro lato, abbiamo l’opportunità di reinventare il passato musicale e aggiungere, costruire i suoni migliori per gli anni a venire.
Questo può accadere se ti riferisci ai club, che da noi esistono nelle grandi città e che negli Stati Uniti o nel Nord Europa, Germania in particolare, sono ovunque. Ma parlando dell’aspetto puramente musicale, l’offerta di musica è aumentata in modo enormemente frammentario, “di ogni cosa è vero anche il contrario” scriveva Hermann Hesse.
Anche i cantanti pop che non appartengono alla schiera dei cento nomi famosi di quel momento e in tutto il mondo, vivono di concerti continui, certamente non del lavoro di autori. L’industria cambia. Fare un disco bene è costoso. Ci vuole poi molta promozione, tantissimo live.
Praticamente un musicista che sia abbastanza popolare, passa la vita tra incessanti tournée, concerti, e uno staff che vende gadget, merchandising. C’è molta diffusione di qualsiasi cosa, ma è una diffusione talmente vasta da essere diventata una specie di torre di babele… la tecnologia ha aperto molte strade, ma come è ovvio ne confonde altre. Per questo mi viene in mente The Wall, perché forse, oggi, non avrebbe, pur meritandolo tutto, lo spazio che ebbe allora.

Di solito chi fa musica jazz, ascolta i suoi maestri e i suoi colleghi. Qualche volta, e mi è capitato di capire questo nella gestione radiofonica di tanti musicisti, non ascoltano, o forse non ascoltavano, molto pop. Fammi anche un solo nome del pop che ti piaccia molto.
Io trovo che un grande maestro sia Peter Gabriel, il suo pop straordinario, la sua voce, la sua musica e tutto ciò che ha creato per la World Music. Peter ha fatto delle ricerche incredibili. Era l’anima dei Genesis, che erano uno spettacolo, ma quando si mise da solo, continuò con il pop, e fece una ricerca in ogni dove per trovare grandi musicisti, meno conosciuti da noi
Ha offerto loro possibilità di suonare, fare concerti e dischi, e li ha inclusi nei suoi lavori dove tutto confluisce in un linguaggio che rimane il suo, riconoscibile, con mille voci di ogni colore e lingua. Il suo lavoro, soprattutto in Africa e in Medio Oriente, ha prodotto un documento musicale mondiale e grandioso. È riuscito a mettere insieme un enorme numero di musicisti a noi quasi sconosciuti, di assorbirli all’interno del suo grande spessore musicale, lasciando loro, nel contempo, la produzione di musica propria, e facendoli diventare famosi grazie alla sua popolarità mondiale. Sia come musicista, che come ricercatore, che come fondatore di una collana (la World music n.d.r.), è un grande. Ha occidentalizzato nei suoi brani la loro partecipazione, e insieme ha prodotto centinaia di dischi dove ognuno di loro faceva ciò che faceva prima, cioè suonare e molto bene. Ha organizzato una raccolta di talenti musicali unici al mondo. Ha messo in piedi una specie di discoteca impressionante, nel senso etimologico del termine….credo che anche in futuro si parlerà del tesoro che ha creato.
Tornando a noi, tu giri ovunque, ora sei planato con un disco, che ascoltando i precedenti, è molto easy listening, quasi un “divertissement”, dove prendi la musica napoletana, la sollevi, la fai girare nel mondo dell’improvvisazione, per poi appoggiarla con levità sulla terra della melodia. Tu vivi a Roma, non appartieni al “giro” della musica napoletana, pur essendo napoletano d.o.c. Come ti è venuto in mente?
Tra l’altro ne è uscito un lavoro gentile, che prende subito. Si sente la tua provenienza classica e poi i suoi sviluppi jazz: come se tu giocassi con i generi e onorassi le tue origini napoletane.
Grazie. Ho avuto sempre un amore straordinario per il talento e le capacità – lo so, sembra retorica – di Pino Daniele. Era molto bravo con la chitarra, era bravo con la band, erano straordinarie le sue canzoni, che infatti non sono mai datate… e tu sai come Napoli si possa prestare a ritmi differenti, internazionali nel senso vero e proprio della parola. Napoli è il luogo della fusione di culture musicali… ho cercato di mettere insieme vari autori napoletani e di giocare, sempre rispettosamente, con le loro canzoni.
In fondo molto jazz parte dal “cantato”. Io qui gioco con il suono, rendo riconoscibili le canzoni, e poi mi libero e provo lo stesso piacere nell’interpretarli che provo tuttora nell’ascoltarli. Questo nuovo disco racconta in fondo la Napoli musicale che amo. È stato difficilissimo fare delle scelte. Un disco ha un limite di tempo e di brani. Ce ne vorrebbero altre decine e decine per esprimere tutta la mia stima verso gli autori napoletani, aedi del mondo.
In uno dei tuoi lavori fai addirittura con ciascuna mano sulla tastiera del piano un ritmo diverso, rimandando lontano. Con una abilità tecnica impressionante.
Percuoti, suoni, rompi gli schemi, e si nota all’ascolto con grande piacere la mancanza di ammiccamento, la ricerca, lo studio, le vere e proprie botte di suono che arrivano dritte, non ti consentono di fare altro se non ascoltare. Strano ma vero, nell’epoca della distrazione di massa, con te non si può fare. Mettere quella musica e stare lì solo per ascoltare.
Sì, mi piace fare musica e ogni lavoro si può definire una dolce sfida che faccio verso me stesso. Inseguire territori nuovi con il pianoforte mi cambia e io cambio con i paesaggi musicali che frequento, restando per forza di cose ancora me stesso. Un pianista di jazz.
Sai, con il jazz puoi partire da dove vuoi. Devi rimanere rispettoso degli interpreti e dei brani che lavori, fedele all’impasto iniziale per poi cercare, cercare fino ad arrivare a un punto di fusione tra il tuo vissuto musicale e quello di chi scrisse il brano. La musica napoletana è stata per me una scelta obbligata, direi di grande affetto, se queste parole non ti sembrano retoriche. Ogni tanto mi divertivo nei concerti all’estero, accennando qualche nota delle canzoni napoletane classiche.
I produttori m’incoraggiarono molto dicendo: “Vittorio, dovresti farne almeno un disco intero e continuare a far conoscere quella musica agli ascoltatori del tuo jazz”

La produzione di Vittorio Mezza è molto ampia, così le sue collaborazioni con grandi musicisti di tutto il mondo. Perciò è preferibile rimandare per la sua discografia, per le persone con cui ha suonato, al suo sito web. C’è tanta, tantissima musica che attraversa stili e movimenti, che ci invita al viaggio e al dialogo: il jazz è linguaggio universale. Ascoltiamolo.


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