In difesa di Jeremy Corbyn

Il leader laburista è stato sconfitto ma ha segnato la strada: “there is no alternative” (come diceva quella signora inglese con un obiettivo esattamente opposto).
ROBERTO D’AGOSTINO
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I laburisti sono stati sconfitti pesantemente alle elezioni che si sono appena tenute. I conservatori di ogni gradazione e colore – dagli gnomi della Borsa di Londra, fino alle aree di opinione blairiana – sono entusiasti di questo risultato e tirano un sospiro di sollievo. Che nella moderna Inghilterra ci fosse qualcuno che evocava eguaglianza, progressività fiscale, sanità universale, presenza dello Stato negli asset strategici e che quel qualcuno fosse andato pericolosamente vicino alla vittoria nelle elezioni del 2017 (quaranta per cento contro il 42,3 dei conservatori) rappresentava un pericolo intollerabile.

Scampato il pericolo, oggi l’analisi unanime di tutti costoro è che Corbyn aveva un programma troppo di sinistra, troppo socialista, quindi vecchio e incapace di raccogliere il consenso maggioritario degli inglesi. Corbyn, per costoro, è la dimostrazione che la sinistra per vincere deve assumere le ragioni e le logiche della destra dominante. Magari edulcorandole e umanizzandole.

Il mainstream ideologico che governa il mondo da svariati decenni è ben lungi dall’essere sconfitto, nonostante i suoi disastrosi effetti sulla realtà economica e su quella sociale e culturale siano ormai stati compiutamente disvelati.

In realtà un’analisi delle elezioni britanniche potrebbe suggerirci ben altre interpretazioni.

Innanzi tutto queste elezioni hanno rappresentato il secondo e decisivo referendum sulla Brexit. 

Confrontando queste con le elezioni europee di qualche mese fa i laburisti sono passati dal tredici al trenta per cento dei consensi, e quel trenta per cento conquistato da Farange col suo Brexit Party è confluito integralmente nel campo dei conservatori. Quello che ha vinto non è dunque il modello economico neoliberista dei conservatori contro il modello socialista dei laburisti, ma il forte sentimento regressivo, nazionalista e nostalgico di gran parte della società inglese contro chi parlava di altri valori e di altri problemi.

La proposta identitaria in risposta al senso di insicurezza, al bisogno di protezione, alle frustrazioni e alla paura del futuro della parte meno difesa della popolazione in Gran Bretagna, come altrove e negli Stati Uniti in primis, sta apparendo più seducente e più garantista che non l’idea chimerica di una diversa società retta da diversi rapporti sociali. Decenni di sconfitte, di impoverimento materiale, di precarietà e di distruzione del welfare hanno scavato solchi profondi tra gli individui e hanno preparato il terreno alle stra-vittorie dei ricchi tycoon alla Trump, alla Johnson, alla Bolsonaro, così come dei populisti alla Salvini o alla Orban.

Va invece detto che la proposta socialista di Corbyn ha tenuto insieme una grossa fetta della società inglese e non sappiamo come sarebbe andata di fronte a un Labour che avesse assunto posizioni più moderate. Il fallimento dei LibDem o dei Verdi dovrebbe insegnare qualcosa.

E va però anche detto che tale proposta ha fatto pendere verso i conservatori, oltre che la massa dei pro-Brexit, anche quella parte di società moderata e conservatrice che tra il male Brexit e il male socialismo ha preferito abbracciare il male Brexit.

Se le cose stanno più o meno così, la vittoria della Brexit coincide con la vittoria di un modello sociale retto da billionaires e che fonda la propria ricchezza su una struttura finanziaria da paradiso fiscale, ben distante da quel modello sociale famoso un tempo per i suoi elevatissimi standard di welfare che sono oggi solo un ricordo (come Ken Loach ci mostra genialmente in ogni suo film). 

C’è chi ritiene che un modello di questo genere, oltre ad essere di per sé profondamente ingiusto, non possa reggere a lungo andare e che dunque in tempi più o meno brevi, e forse più brevi di quanto si possa immaginare, dovrà produrre una sua alternativa radicale che non possiamo identificare se non come di sinistra e socialista.

Il sospiro di sollievo, oltre che i scomposti entusiasmi, del vasto campo conservatore anche e forse più nei settori che si dichiarano di sinistra e moderati, non ha in quest’ottica davanti a sé un grande futuro. Non è solo o tanto la profonda ingiustizia che struttura le società dei Johnson a renderle precarie: se fosse solo questo si tratterebbe di un problema etico che il cinismo di chi detiene il potere e la ricchezza non prende neppure in considerazione. Sono le contraddizioni materiali che questa società genera e che non possono essere a lungo velate dalle motivazioni tutte sovrastrutturali che i sovranisti di ogni paese invocano e che inevitabilmente esploderanno. A quel punto solo un progetto di società radicalmente democratica e di sinistra potrà dare risposta alle domande di masse che ancora oggi stanno affidando le proprie speranze di riscatto a coloro e a quel sistema che le deprime e impoverisce.

Corbyn è stato sconfitto ma ha segnato la strada: there is no alternative (come diceva quella signora inglese con un obiettivo esattamente opposto).

In difesa di Jeremy Corbyn ultima modifica: 2019-12-13T22:01:03+01:00 da ROBERTO D’AGOSTINO
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1 commento

Francesco Morosini 14 Dicembre 2019 a 19:25

Proporre un modello riferentesi a un mondo che non c’è più (i trent’anni “gloriosi” quando il dominio occidentale sui paesi terzi consentiva una alto welfare chiusosi con la crisi petrolifera) non è TINA; né aiuta a risolvere le ingiustizie del presente. È solo caricare a testa bassa un muro di cemento armato. Blair, allora? No. È altrove pure quello, pare dicessero i marxisti. Ebbene, è di qui che si deve ripartire. O uscire dalla storia.

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