Indifendibile Corbyn

Il leader del Labour ha commesso molti errori e questa sconfitta elettorale è soprattutto la sua. Assenza di leadership e indisposizione al compromesso, accompagnata da radicalismo e integralismo sulle politiche, ne hanno segnato la fine politica. Ma non del movimento che ha creato.
MARCO MICHIELI
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Più che difendere Jeremy Corbyn si tratta di capire perché il Labour ha perso la quarta elezione di fila, dopo averne vinte tre con Tony Blair, un leader “ideologicamente” all’opposto di Corbyn. Sarebbe sbagliato ovviamente trovare una sola ed unica spiegazione che potesse fare luce delle complesse motivazioni degli elettori che hanno votato, però non si possono sottovalutare le responsabilità di Corbyn. E su queste ci soffermeremo.

A margine della riflessione su Corbyn, se c’è qualcosa che lascia perplessi, è la necessità di leggere il risultato di elezioni nazionali in altri paesi occidentali come la lente attraverso la quale leggere la vita politica del Belpaese. Vale per Corbyn o per Macron, per Trump o Sanchez. Ce ne passa tra l’individuazione di dinamiche culturali generali e la spiegazione monouso per descrivere la situazione politica di ogni singolo paese. Cerchiamo quindi di rimanere ben saldi nell’analisi politica.

Senza togliere nulla a Boris Johnson e alla sua campagna elettorale, chi ha perso le elezioni è Jeremy Corbyn. Il resto è propaganda ad uso interno delle varie sinistre nostrane: “se ci fosse stato Blair, le cose sarebbero andate peggio”, “in termini di milioni di voti Corbyn ne ha presi più di Tony Blair”, ecc…. Nel primo caso, è impossibile da dimostrare (e anche inutile). Nel secondo caso, i sistemi elettorali contano ed è l’unica lezione che tutti dovrebbero trarne: perché se non organizzi il tuo partito per operare nel contesto di uno specifico sistema elettorale, il rischio è quello di perdere. Esistono infatti sistemi elettorali che in maniera diversa traducono i voti in seggi.

Nel sistema elettorale britannico, basta un solo voto in più per vincere il seggio: “first past post”, si chiama. Se un partito prende milioni di voti in più ma sono concentrati in un’area, quei milioni di voti non si traducono in seggi proporzionali ai voti presi (lo sanno bene i Lib Dem). Può piacere o non piacere come sistema elettorale ma con meno voti Tony Blair vinse tre elezioni di seguito. Perché lui e i suoi seppero individuare quei seggi (target seats) che potevano essere vulnerabili, proporre idee e adattare il messaggio politico a quella constituency. E qui c’è il primo errore di Corbyn. Un errore non da poco per chi fa politica: ha individuato dei seggi sbagliati.

Ha concentrato i propri sforzi su battaglie simboliche – come il seggio in cui era candidato Boris Johnson – o in aree già largamente Labour. Come nel 2017 con Theresa May, anche questa volta i Tories avevano l’obiettivo di prendere i seggi del cosiddetto “Red Wall”, una serie di seggi di lunga tradizione laburista nel Nord del paese: in molti di questi seggi nel 2016 avevano di poco vinto i “remainers” ma una parte di elettori laburisti aveva votato per abbandonare l’Unione europea. Sono questi i seggi che hanno cambiato colore, passando dal Labour ai Conservatori.

Certo con l’aiuto di Nigel Farage che in questi seggi ha presentato delle candidature, a differenza di quanto è accaduto in 317 seggi dove il Brexit Party non si è presentato per non dividere il fronte del “Leave”: e il Brexit Party è stato il maggiore fattore di attrazione di elettori laburisti “leavers”, mal disposti a votare per Boris Johnson (i conservatori sono saliti in tutti i seggi del “Red Wall” ma di molto poco, di fronte a cadute del 10-15 per cento del Labour).

Tenere unito il fronte degli elettori che si erano espressi diversamente durante il referendum del 2016, non era un problema solo per il Labour, in ogni caso. Anche conservatori dovevano trattenere i propri elettori “Leave” e “Remain”: secondo Yougov, i tories sarebbero riusciti a trattenere il 61 per cento dei propri elettori che avevano votato per il “Remain” nel 2016. Per il Labour però la situazione era più complicata: solo il 43 per cento dei leavers del Labour avrebbe votato per il partito e solo il 58 per cento dei remainers (che avevano come alternative i Libdem e i Verdi). E qui troviamo il secondo errore: la posizione del partito a guida Corbyn sulla Brexit.

Per anni Corbyn ha cercato di definire una linea sulla Brexit, che cercasse di tenere assieme le sue convinzioni personali, quelle della grande maggioranza dei suoi elettori che avevano votato per il “Remain” e quel terzo del suo elettorato che aveva votato per il “Leave”. Quello che ne è uscito fuori è una posizione che non soddisfaceva né remainers né leavers.

Al di là dell’ambiguità personale di Jeremy Corbyn sull’appartenenza del Regno Unito all’Ue (Corbyn come tutta l’ala sinistra del Labour e i sindacati votò contro la permanenza britannica nell’Ue nel referendum del 1975), la posizione del partito ha oscillato tra una posizione pro-remain – ma non troppo convinta, con attacchi di Corbyn alla campagna per restare nell’Ue -, al “Remain and reform” del 2016, all’ambiguità sul mercato interno del piano laburista per la Brexit, al sostegno per un secondo referendum nel 2019 (con l’impegno a fare campagna per il remain se fosse diventato primo ministro), all’ultimo cambio di passo, “la neutralità” del governo da lui guidato in un secondo referendum sulla Brexit.

Un caos che non è piaciuto né ai remainers, né ai leavers.

Sicuramente era difficile tenere assieme le due posizioni. Però erano possibili varie strategie: una Remain alliance, cercare i voti dei Lib Dem o, ancora, quelli dell’Snp. Tutte strategie differenti – non necessariamente vincenti, certo nulla è garantito – ma che avrebbero avuto il merito di chiarire la posizione del partito sulla permanenza del Regno Unito nell’Ue.

Scelte strategiche diverse che ovviamente avrebbero dovuto essere accompagnate da negoziazione e compromessi con quei partiti o con gli elettori di quei partiti, nei tre anni precedenti le elezioni. E qui c’è l’altro errore di Corbyn.

Le alternative all’ambiguità laburista sull’Ue prevedevano una flessibilità ideologica che il leader del Labour non ha e non vuole avere. L’idea che si possano individuare dei seggi, proporre politiche specifiche e adattare il messaggio agli elettori di quei seggi è quasi una bestemmia nel Labour a guida Corbyn. E non è casuale: il radicalismo e l’integralismo della coalizione che l’hanno portato alla vittoria nel 2015 si accompagna al rifiuto della collaborazione con altri partiti e alla necessaria flessibilità che un partito moderno dovrebbe avere rispetto alle varie tematiche politiche.

L’idea che il partito di Corbyn trasmette è che il mondo sia diviso tra due visioni opposte e non conciliabili, dove tutti coloro che si oppongono alle politiche del Labour sono da considerare come “liberisti”, senza alcuna gradazione (mi scuso per l’uso dell’etichetta “liberista”, che vuol dire tutto e niente, ma ci siamo capiti). Un integralismo a cui si lega l’assoluta incapacità di mettere in discussione la leadership di Corbyn. 

Ed è il quarto errore è quello più evidente: l’assenza di leadership.

Jeremy Corbyn non piace agli elettori britannici: è il leader dell’opposizione più detestato da sempre. Anche nel suo partito le cose non vanno benissimo. La scorsa estate Yougov aveva reso note alcune indagini sugli iscritti al Labour: rispetto all’anno precedente, l’approvazione nei confronti del leader laburista era passata dall’80 per cento al 56 per cento e il numero degli iscritti che pensavano che stesse agendo in maniera sbagliata era passato dal 19 al 43 per cento. La maggioranza di essi soprattutto pensava che la gestione della Brexit da parte di Corbyn fosse stata disastrosa.

Un’impopolarità che si è manifestata anche attraverso l’incapacità di gestire la comunicazione politica in maniera efficace. Pensate soltanto alle differenze tra il programma laburista e quello dei conservatori: cento pagine contro “Get Brexit done”.

Questi sono tutti errori che hanno dimostrato ovviamente soltanto i limiti di Jeremy Corbyn. Vero è che non significano automaticamente la sconfitta della sua proposta politica. È probabile che il prossimo leader del Labour, quando Corbyn deciderà di dimettersi, sarà comunque qualcuno in continuità, anche se con qualche minimo elemento di rottura: un o una Corbyn con maggiore appeal e capacità di comunicazione rispetto all’attuale leader laburista.

Tony Benn (3 aprile 1925 – 14 marzo 2014), leader storico della sinistra laburista. Alle sue spalle, a destra nella foto, Jeremy Corbyn

Certamente non c’è da aspettarsi che accada quello cha accadde nel 1983, quando dopo la sconfitta di Michael Foot, il leader della sinistra Labour, iniziò la leadership trasformativa e più moderata di Neil Kinnock. Innanzi tutto perché Corbyn ha trasformato il Labour. È cambiata totalmente la membership; i sostenitori di Corbyn dominano gli organi del partito che sono quelli che determinano le regole per la leadership; il gruppo parlamentare è cambiato; c’è un’organizzazione pro Corbyn, Momentum, che è un partito nel partito e che determina successo e insuccesso di varie carriere politiche; e i sindacati giocano un ruolo sempre più determinante all’interno del partito.

In secondo luogo perché attualmente non esiste una candidatura alternativa forte e distante dall’area di Corbyn. E questo è un elemento non da poco: anche i cosiddetti “Blairites”, i pochi rimasti, sono cambiati.

Si può pensare quindi certamente che il programma di Corbyn sia destinato a durare, che le sue “idee non moriranno mai” e che “non c’è alternativa” a quel percorso. Però maggiore intelligenza politica, maggiore capacità di negoziazione e di costruzione della coalizione “vincente” – che questo accada a livello di elettorato oppure a livello di partiti, anche se meno probabile nel sistema inglese – , forse potrebbero aiutare a dare gambe più solide a quelle idee. Che potranno anche “non morire mai”, ma se non c’è disposizione al compromesso, potrebbero non essere mai realizzate.

Ammesso che siano soluzioni efficaci per risolvere i problemi, gridare al mondo che le proprie idee sono più giuste di quelle degli altri, in politica serve a ben poco: servono infatti i voti a sostegno di quelle idee. E questo la sinistra tende a dimenticarselo.

Indifendibile Corbyn ultima modifica: 2019-12-14T14:54:50+01:00 da MARCO MICHIELI
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