L’odio che ha armato la mano all’assassino di mio nonno, è un male che ancora oggi pervade una parte, non solo politica, del paese. Ma questo odio non deve ipotecare il futuro d’Israele e dei nostri figli a cui quel futuro appartiene. Di una cosa sono certa: il lascito di Yitzhak Rabin non è andato perduto.
A sostenerlo, in questa intervista concessa a ytali, è Noa Rothman, la nipote del premier laburista assassinato la notte del 4 novembre 1995 da un giovane estremista di destra, Yigal Amir, al termine di una imponente manifestazione per la pace a Tel Aviv. Ventiquattro anni fa le sue parole commossero il mondo, toccando il cuore oltre che la mente di Israele e del mondo intero, molto più dei discorsi dei grandi della Terra riuniti sul monte Herzl, nel cuore della Gerusalemme ebraica, per dare l’ultimo saluto a Yitzhak Rabin.
In lacrime, Noa, allora diciottenne, aveva letto il suo addio al nonno materno, nella sua casa passava la maggior parte del tempo perché quand’era piccola la madre era malata:
Mi perdonerete perché non voglio parlare di pace. Voglio parlare di mio nonno. Eri, e ancora sei, il nostro eroe. Voglio che tu sappia: in tutto quello che ho fatto ti ho sempre avuto davanti ai miei occhi. Persone molto più importanti hanno parlato prima di me, nessuna di loro ha avuto la fortuna di sentire la carezza delle tue mani calde, morbide o di provare il tuo abbraccio che era solo per noi o il tuo mezzo sorriso che diceva così tanto, lo stesso sorriso che ora non è più.
Quel ricordo struggente, quegli abbracci accoglienti, restano indelebili nella mente e nel cuore di Noa, oggi sceneggiatrice di successo.
La storia, si dice, non si fa con i ma e con i se – afferma Noa Rothman – ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che quella maledetta notte non ha stravolto solo la vita di quanti volevano bene a mio nonno, ma ha cambiato il corso della vita di un intero paese.
Per raccontare il suo rapporto col nonno-primo ministro, Noa ha scritto un libro di grande successo, Il dolore e la speranza (edito in Italia da Rizzoli). A ben vedere, sono i due sentimenti che l’hanno portata a scendere in campo. Il dolore per un Paese che
rischia di vedere ipotecato il suo futuro da una destra che ha fatto dell’estremismo la sua cifra identitaria, il fondamento della sua azione di governo. [E la speranza] per un cambiamento che ritengo possibile e non solo necessario.

Nelle elezioni del 17 settembre, Noa Rothman è scesa in campo con Campo Democratico dell’ex premier Ehud Barak.
È stata una esperienza importante, formativa ma penso che si possa testimoniare il proprio impegno e la passione civile anche svolgendo al meglio il proprio lavoro, e il mio non quello del politico.
Per la terza volta in meno di un anno Israele torna al voto. In un clima avvelenato. “Tenete i vostri bambini lontani dalla tv, ci saranno nuove elezioni e saranno un festival di odio, violenza e disgusto”, ha avvertito Yair Lapid, numero due di Kahol Lavan (Blu-Bianco), il partito centrista di Benny Gantz, il grande rivale per la guida del paese di Benjamin Netanyahu. Lapid fa una forzatura della realtà?
Magari fosse così! Purtroppo Lapid fa una fotografia della realtà. Una realtà che mi fa paura. Lo dico con la morte nel cuore: sembra di rivivere quel clima di odio e di istigazione nel quale si consumò l’assassinio di mio nonno. Materialmente, l’assassino di Yitzhak Rabin agì da solo, ma la sua mano fu ideologicamente armata da quanti avevano orchestrato una infamante campagna contro il primo ministro accusato di essere un traditore, di aver capitolato al “capo dei terroristi” palestinesi, firmando gli accordi di Oslo-Washington. Ricordo le caricature di mio nonno con la kefiah (il copricapo palestinese, ndr) o in divisa da SS. Sull’odio non si costruisce nulla di buono, ma si ipoteca il futuro delle giovani generazioni. Quella che dobbiamo condurre è una battaglia culturale, prim’ancora che politica. Non è più questione di destra o di sinistra, ma di civiltà o barbarie.

Nel ventesimo anniversario della morte di Rabin, lei aveva detto in un’intervista a 24newstv/ fr: “Il problema è che siamo guidati dalla filosofia dell’ebreo perseguitato invece che dalla morale del Sabra, libero dalle nevrosi della Diaspora e prodotto di un’idea di sionismo pratica e efficace”. L’obiettivo del sionismo, aveva aggiunto “non era la creazione di un terzo Tempio, ma di un modello sociale. Sembra che un’epoca sia finita e che questa conclusione sia stata determinata dal peccato originale: l’assassinio di mio nonno. Per ragioni molto superficiali basate sul suo nome, questo omicidio è stato paragonato alla Akedat Yitzhak, il sacrificio di Isacco. Ed è un errore. Piuttosto, parlando di Torah, lo paragonerei a l’assassinio di Abele per mano di Caino. Due interpretazioni opposte”. È ancora di questo avviso?Assolutamente sì e gli eventi intercorsi negli anni successivi a quell’intervista, hanno rafforzato la mia convinzione. Per questo parlo di battaglia culturale, nella quale emerga con forza la visione che fu dei pionieri del sionismo, di coloro che hanno combattuto per dar vita a uno Stato che non fosse solo il focolare nazionale ebraico, ma uno Stato democratico, inclusivo, fondato sulla giustizia sociale. Una visione che si contrappone a quella di una destra messianica, per la quale non è importante difendere e rafforzare il carattere democratico della nostra società, delle nostre istituzioni, ma ciò che conta è imporre una idea di comunità che esclude, divide, nel nome, infangato, dell’ebraismo. Nel vocabolario politico di questa destra non esistono parole come “dialogo”, “compromesso”. Questa istigazione all’odio ha segnato anche le recenti elezioni, e di questo porta la responsabilità più grave l’uomo che, come primo ministro, avrebbe dovuto invece incarnare il senso di responsabilità: Benjamin Netanyahu.
Come scrisse il Gran Rabbino di Francia René Sirat in una lettera indirizzata qualche giorno dopo l’omicidio a Shimon Peres: “Quando un valore – anche se un valore importante come il carattere sacro della terra d’Israele – si trasforma in valore assoluto, in nome del quale ci si arroga il diritto di uccidere un ebreo, un arabo, un essere umano, esso diventa oggetto di idolatria. In tal modo si abbandona il monoteismo affermato sul Sinai e che ordina ‘Non ucciderai’ per abbracciare un culto straniero, quello della violenza e dell’odio…”
Sono affermazioni che hanno una attualità straordinaria. E che dicono a tutti noi che senza memoria non c’è futuro.
Nel futuro prossimo d’Israele ci sono nuove elezioni, fissate per il 2 marzo 2020. Un’anticipazione per i lettori di ytali: lei si ripresenterà come ha fatto nella precedente tornata elettorale, nella lista di Campo Democratico dell’ex premier Ehud Barak?
Mi è stato chiesto, e non solo da Ehud, ma non è mia intenzione ripetere quell’esperienza, che pure ritengo importante, formativa, ma al tempo stesso penso che si possa dare un contributo altrettanto importante per far vincere le forze sane del paese, impegnandosi nel proprio ambito di lavoro, scrivendo, partecipando alle iniziative della società civile. È quello che ho intenzione di fare. Moltiplicherò il mio impegno, ma in forme diverse.

Le fa davvero così paura la destra del suo paese?
Sì, mi fa paura. Per quello che è diventata, qualcosa di altro rispetto a ciò che per decenni il Likud era stato: una forza conservatrice, certo, ma che non aveva mai sposato le posizioni più estreme, avventuriste, che erano proprie di frange minoritarie di una destra estrema. Pur di restare al potere, con un cinismo senza eguali, Netanyahu ha radicalizzato le posizioni del suo partito, alimentando un clima di odio, arrivando ad evocare la sollevazione della piazza contro un inesistente “golpe legale” del quale si sarebbe fatto strumento una persona per bene e un giudice di specchiata onestà intellettuale e indipendenza, qual è il procuratore generale d’Israele, Avichai Mandelblit. Questo è un atto allo stato di diritto, condotto da un politico che pur di non sottoporsi, come ogni cittadino, al giudizio di un tribunale, tiene in ostaggio un paese, impone nuove elezioni e rivendica impunità davanti alla Legge. Una cosa del genere non si era mai vista. Israele rivendica, giustamente, di essere l’unica vera democrazia in Medio Oriente. Lo è non perché si vota, ma perché esiste una magistratura indipendente, una stampa indipendente… È questo che fa paura a Netanyahu, che ha trasformato un magistrato, peraltro da lui nominato, nel peggiore degli ayatollah. Oggi il grande pericolo per Israele viene dall’interno.
In ultimo vorrei tornare su suo nonno. Agli inizi degli anni Novanta, quelli che precedettero gli accordi di Oslo-Washington del settembre 1993, Rabin sostenne che occorre combattere il terrorismo come se la pace già ci fosse e mirare a un accordo di pace come se il terrorismo non ci fosse.
In quell’affermazione c’è tutta la storia di un uomo che aveva passato gran parte della sua vita a combattere i nemici d’Israele. Ma per chi ha combattuto davvero, e con incarichi della massima responsabilità, sa che la sicurezza del proprio paese non può essere affidata solo alla forza e al coraggio del suo esercito. Yitzhak Rabin voleva una pace nella sicurezza, una pace che non poteva essere, per nessuno dei contraenti, a costo zero, né per noi israeliani né per i palestinesi. Pace e sicurezza sono strettamente legate: è il lascito a Israele di mio nonno, di un Grande d’Israele: Yitzhak Rabin.

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