Rossi come il fuoco, neri come la paura che avrebbero dovuto incutere agli avversari: era questo l’intento di Herbert Kilpin, fondatore del Milan insieme ad altri uomini d’affari inglesi e italiani che, una volta scoperta l’ebbrezza del pallone, avevano deciso di trapiantarla in quella che già allora era la capitale europea dell’Italia. L’Inter sarebbe nata nove anni dopo, da una costola del Milan scontenta dei metodi autoritari del presidente Gianni Camperio, e ne sarebbe derivata una rivalità straordinaria, forse unica al mondo, in una stracittadina che, specie negli anni Sessanta, è stata spesso un autentico derby d’Europa.

Milano e il Milan, centoventi anni di passione. Una storia unica, poderosa, ricca di alti e bassi, di cadute drammatiche e risalite mozzafiato. Una storia che ha portato il Diavolo a passare, in pochi anni, dall’inferno della B alla salvezza berlusconiana, con tanto di volo in elicottero sopra il centro sportivo di Milanello e presentazione della squadra in stile hollywoodiano. Senz’altro un’esagerazione, forse anche un po’ pacchiana, ma scindendo il Berlusconi politico dal Berlusconi presidente rossonero, non c’è dubbio che quest’ultimo abbia avuto dei meriti innegabili nella gestione del club e nell’innovazione del calcio. Ebbe, infatti, il coraggio di affidarsi a un allenatore pressoché sconosciuto: un uomo dai modi aspri ma convincenti, un sergente di ferro dal volto umano, Sacchi, il vate di Fusignano, capace, grazie al genio olandese delle sue punte di diamante, di rinverdire i fasti di Michels e del calcio totale adattandoli al contesto italiano, in un’esplosione di bel gioco che ebbe nell’apoteosi del Camp Nou di Barcellona contro la Steaua Bucarest la propria sublimazione. Poi, conclusasi l’era del romagnolo d’acciaio, vennero gli anni di Capello e la lezione di gioco inferta al Barcellona di Cruijff in quel di Atene: un 4 a 0 che è passato alla storia, specie se si considera la presunzione con cui i catalani andarono incontro al massacro in una finale nella quale peccarono di superbia dal primo all’ultimo minuto.
Berlusconi, nel bene e nel male, è un personaggio destinato a lasciare il vuoto dietro di sé, non concependo altra dimensione che la propria, non essendo in grado di passare la mano, non pensando neanche di poter avere degli eredi ed essendo, oggettivamente, troppo ingombrante per chiunque. È stato così in politica ed è stato così anche nel Milan, che infatti dopo di lui arranca e, da quasi un decennio, fatica a guadagnarsi l’attenzione delle cronache. Con buona pace dei tifosi milanisti, sembra di essere tornati ai primi anni Ottanta, quando sulla sponda rossonera lo sconforto regnava sovrano, al pari dell’incertezza, ed erano in gioco addirittura le sorti della società.

Non siamo a quel livello, ma è innegabile che né gli sconosciuti proprietari cinesi capitanati da Li Yonghong né gli americani del Fondo Elliott stiano regalando a un ambiente avvilito dalle troppe delusioni patite di recente quel minimo di soddisfazione che, al contrario, meriterebbe.
Tuttavia, vien da pensare che quest’altalena di emozioni e prospettive sia connaturata al DNA rossonero: in fondo, è sempre stato così. Il Milan ha nella discontinuità uno dei suoi tratti esistenziali e forse, anche per questo, è più adatto alla partita secca, alla finale europea, alla competizione in poche tappe che alla grande corsa in cui bisogna trovare il ritmo e gestire le forze lungo un arco temporale di mesi.
Prima squadra a trionfare in Europa, nel ’63 a Wembley contro il magno Benfica di Eusebio, doppietta di Altafini, il Milan è uno dei club più titolati in ambito internazionale, con ben sette Coppe dei Campioni all’attivo e un gioco perfetto per le grandi sfide contro le pari grado del resto del mondo. Assai meno per le noie del campionato, dove lo stesso squadrone capace di imporsi contro corazzate come Real Madrid e Barcellona è riuscito, talvolta, a subire sconfitte ai limiti dell’incredibile.
Senza dimenticare la dinastia dei Maldini: Cesare, Paolo e adesso Daniel, tre generazioni che abbracciano oltre sessant’anni, due capitani e una giovane promessa che fa ben sperare, un unicum nel panorama calcistico mondiale, a testimonianza di un attaccamento alla maglia e di una passionalità accesa che pare ancor più incredibile nella Milano del fare e dei sentimenti sopiti dalla trasformazione del calcio in un business globale.

E che dire del trio svedese che illuminò gli anni Cinquanta? Gren, Liedholm e Nordhal, quest’ultimo un centravanti modernissimo, detentore del record di marcature in Serie A per oltre sessant’anni, prima che Higuaín glielo strappasse nel 2016. Quanto al Barone Nils, basti un aneddoto: dopo cinque anni, sbagliò un passaggio e San Siro si alzò in piedi ad applaudire l’umanità di un campione ritenuto sovrannaturale per classe ed eleganza. Lo stile inimitabile del terzetto nordico avrebbe in seguito incontrato quello di un uruguaiano, Juan Alberto Schiaffino, che nel luglio del ’50, insieme a Ghiggia, aveva fatto piangere il Brasile al Maracanã, in una finale dei Mondiali indimenticabile per mille motivi: fra infarti e suicidi fu una strage sportiva, qualche spettatore pare che, per la disperazione, arrivò addirittura a gettarsi dagli spalti.
Poi venne l’era di Rivera e Rocco, quando “Maldini liberava in abito da sera”, “Trapattoni rischiava la galera”, la panchina di Nereo sembrava “una trincea prussiana”, “Rivera illuminava l’area” e “il Diavolo saettava” a suon di gol e vittorie, contenendo all’Inter di Herrera il primato nazionale e internazionale e contrapponendo i “bauscia” della borghesia nerazzurra ai “casciavit” della Milano operaia cantati da Jannacci.
Oggi l’armata rossonera batte in ritirata ma tornerà, ne siamo certi, e l’epopea andrà avanti e la passione non avrà mai fine.
Buon compleanno, caro ed eterno Diavolo!

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