Dieci anni fa mi trovavo in aeroporto, in partenza da Los Angeles e diretto a casa. Era la vigilia di Natale. L’aeroporto era convulso, la dogana e i controlli intasati di gente. C’erano ovunque schermi vibranti di centinaia di numeri di voli, di mille destinazioni, di orari previsti, di partenze, di ritardi. Tante scritte cangianti che nella loro impercettibile intermittenza stancavano la vista, soprattutto quando scrollavano velocemente come in un macchinetta per ludopatici, per aggiornare tutte le informazioni in tempo reale.
Finalmente uscì il gate per Roma. C’era coda. Una signora obesa era quasi sdraiata a terra al desk, nel lato del nastro trasportatore che carica i bagagli in stiva. Era figlia delle povertà contemporanee, fatte di cibo dozzinale, vestiti brutti e deperibili, una enorme felpa lisa e sbiadita, dal collo sgualcito, il cui cotone sembrava piluccato da una miriade di pallini. Piangeva con una hostess perché aveva bisogno di due sedili per poter stare seduta. Era in pieno crollo nervoso. La hostess tentava di tranquillizzarla.
Ero deluso perché contavo, data la vigilia di Natale, di trovare l’aereo mezzo vuoto, ma tanta gente tornava a casa, dai parenti. Ricordo tutti quegli occhi pieni di fretta: gli italiani sono impazienti, frettolosi.
Quando fu il mio turno, dopo ulteriori controlli dei documenti di viaggio, e vari passaggi di sicurezza dove mi capita sempre di dimenticare qualcosa, mi inoltrai nel finger dove ci si ammassa tutti, fino ad arrivare alla porta dell’aereo. Fuori dalla porta, sulla destra del ballatoio, era pieno di borse colme di stecche di sigarette.
Entrai nell’aereo, le hostess salutavano tutti come se avessero, da contratto, un ripetitore automatico. Alcune erano truccate con strati generosi di fondotinta, per mascherare la stanchezza che si intravedeva ugualmente dalla leggera mappa di rughe sotto il trucco. Le aspettava una lunga notte di lavoro.
Cercai nelle cappelliere il mio numero, promisi a me stesso di mangiare poco, di non guardare i soliti film tagliati e bruttini, che mi avrebbero fatto sentire ancora più lontano, in uno spazio concavo e inutile.
Mi sedetti preparando la solita cuccia fatta di coperte in pile, che con l’aria secca diventavano elettriche, bicchieri d’acqua, un paio di libri, un quotidiano del giorno prima e il pc a disposizione, che avrei usato in caso d’insonnia dopo il decollo.
Sui monitor interni la posizione, la destinazione, la distanza da percorrere, le temperature esterne, le temperature a casa, e le ore previste di volo. Tredici ore e venti minuti circa.
Ero arrivato abbastanza in orario, felice di aver evitato i tempi morti dei duty free. In genere, le volte in cui ero in anticipo, vagavo dentro e fuori da quei negozi, senza guardare niente, solo per ingannare la noia.

In aeroporto non si riesce a fare niente, e più cercano di renderti la vita lussuosa e confortevole, piena di profumi, dolci, regali, bar, strenne di tutti i tipi, più ti fanno sentire lontano, lontano da tutto in un luogo autoreferenziale che vive soltanto di sé. Una città artificiale colma di cose per distrarsi, comprare e sparire.
Forse gli aeroporti sono le nuove macchine di un tempo muto che non passa, e continuo a pensare che forse siano questi i nuovi templi dell’oblio che si deposita in noi quando siamo lì, un tempo scandito solo da un unico bisogno: arrivare presto e se fortunati, dormire durante il volo. Godersi una doccia, tornare nel proprio letto.
Mi ero prenotato un posto dalla parte del finestrino. Lo cerco sempre, nei voli lunghi, sperando di dormire, in quelle ore che non sono ore, in quelle notti che sono giorni, in quel tempo completamente dilatato che gira per i cieli del pianeta.
Contrariamente a quanto avevo pensato durante la calca al gate, quella stava per diventare una notte fortunata per me: non c’era nessuno vicino a me… guardavo con aria circospetta tutti quelli che ancora in piedi cercavano il loro posto. Gli occhi di tutti coloro che si erano già accomodati, in questi casi, anche i miei, dicevano solo “speriamo che questo non si sieda qui”.
Invece si sedette un uomo sui trentacinque anni carico di cose, appoggiò tutto con un ordine di cui sarei stato incapace. Mi diede un buona sera, e si preparò al viaggio.
Aveva una bambola, dentro una confezione natalizia. La scatola regalo era rossa e piena di stelline dorate e la bambola era come in una vetrina, riparata dal cartone colorato e visibile dal cellophane.
Era una persona cordiale. Parlava bene l’inglese. Dopo i saluti di convenienza, mi disse subito che era per sua figlia. Gli chiesi di dov’era: era spagnolo di Alicante. Tornava da una sosta-vacanza in America perché era un militare della missioni di pace per le Nazioni Unite. Afghanistan, Iraq, Syria… Aveva scelto la destinazione italiana perché aveva una connessione veloce con Madrid. Tornava a casa per vedere sua figlia.
Ero, allora, pieno di pregiudizi verso chi faceva carriera militare. Li pensavo machisti, ottusi, diciamolo pure, ragazzi un po’ tarati che si arruolavano per amore della guerra.
Gli assistenti di volo stavano sgranando il rosario delle informazioni di sicurezza, mentre l’aereo rollava e vibrava come se la pista fosse sterrata. Quelle informazioni, nell’eventualità di qualche catastrofe, erano enunciate attraverso altoparlanti un po’ gracchianti.
Mi ero abituato, da tanti anni, a non ascoltarle, guardando solo i gesti da sordomuti del personale mentre indica le uscite di sicurezza. C’è una strana indifferenza verso quelle istruzioni di sicurezza, inclusa quella che sembrava un consiglio esistenziale: “in caso di necessità, mettetevi per primi la maschera ad ossigeno e poi aiutate i vicini e i bambini ad indossarla, solo nel caso siate ben certi che la vostra sia già collocata a posto su naso e bocca, in cui dovete respirare normalmente”.
Il senso era che non si poteva salvare nessuno senza prima salvare se stessi.
Quando salimmo in aria, sorvolando per molto tempo le luci della città, che sembrava non finire mai, il mio vicino di viaggio ed io incominciammo a chiacchierare.
Gli chiesi di nuovo se fosse in California per lavoro o se si era fermato a Los Angeles anche per diletto. Mi rispose, rilassandosi e dettagliando un po’ meglio la sua prima versione, che era andato lì tre settimane per un particolare addestramento, poiché a Capodanno sarebbe dovuto nuovamente partire per uno dei paesi che ancora oggi sono la polveriera del mondo.
Mi raccontò in maniera accorata di come rischiassero la vita, pur non essendo direttamente coinvolti negli scontri. Il loro lavoro consisteva nell’affiancare le popolazioni locali cercando di evitare attentati e stragi.
Gli chiesi se ne aveva viste. Rispose di sì e che non riusciva a parlarne. Gli dissi di non preoccuparsi, spostando la conversazione verso una domanda che mi sembrava più banale. Gli chiesi di sua moglie e di sua figlia.
Sorrise, mi disse che la figlia aveva cinque anni. E che la moglie aveva scelto la separazione perché non reggeva la paura e la distanza, che ne avevano discusso molto, ma che lei aveva pensato di farcela, ma non riusciva a trovare pace a saperlo lontano, in luoghi così pericolosi e per così tanto tempo. Quando lui era “in missione” si preoccupava fino all’angoscia se lui tardava con una telefonata o non dava continui cenni del suo essere vivo.
Gli chiesi se per sua moglie non fosse stato chiaro subito il suo lavoro, così particolare.
Accennò un sorriso, rispondendo che sì, lui aveva messo tutte le carte in tavola fin dal primo momento in cui si erano conosciuti e piaciuti.
L’amore, all’inizio, pensa di poter mettere a posto ogni cosa, ma poi con il tempo e le difficili prove pratiche a cui viene sottoposto non sempre prevale, poiché non sempre ci si conosce, e non siamo in grado di immaginare le nostre reazioni alle difficoltà incognite del futuro, in quel caso piuttosto rilevanti.
E quando queste difficoltà, o addirittura le tragedie, arrivarono, soprattutto quando un’autobomba esplose a poche centinaia di metri dalla loro macchina blindata, lei anziché consolarlo, andò in escandescenze per paura. Fu un inferno di fiamme e corpi, mi raccontò, pezzi di cose che volavano dappertutto, fiamme alte come le nuvole e urla che arrivavano da ogni parte.
Si allontanarono quanto bastava, più veloci che mai per salvarsi, stavano sempre con l’auto blindata pronta e accesa, e poi, quando della gente, dell’auto, dell’esplosione, rimase solo un fumo acre e denso, tornarono lì a raccogliere i feriti, a cercare ambulanze. Giravano tra i resti da raccogliere, sparsi per centinaia e centinaia di metri.
Quella fu la goccia che, raccontata a sua moglie, fece traboccare il vaso già pieno di crepe del loro incerto matrimonio.
Raccontando questa storia tremenda, si era fatto serio, aveva perso la serenità iniziale. Gli chiesi se dopo un evento del genere fosse riuscito a dormire. Mi rispose che quando si torna al campo si attende che l’adrenalina scenda e si dorme come si può. Ci furono tanti morti tra i civili in quell’attentato, si erano abituati a quei pericoli, con voce bassa e quasi parlasse a se stesso mi disse che si sa, ci si abitua a tutto. Raccolse, insieme ai feriti, i pezzi di una bambola.
Ma quella notte era felice di averne trovata una in aeroporto per sua figlia.
Capita che i regali, ma quasi sempre lo sa solo chi li fa, assumano un valore segreto e simbolico.
Era un uomo dall’aria gentile, vestito con jeans costosi e una t- shirt di una marca famosa. Aveva una muscolatura pronunciata, dagli avambracci si vedevano dei tatuaggi. Mi spiegò che erano tutti ricordi di donne e amori passati. Ne aveva uno su ciascun avambraccio dove era scritto “I love you daddy”, si vedeva un cuore e una scrittura infantile.

Gli chiesi se era per sua figlia. Mi rispose sorridente che erano presi dai biglietti che lei gli aveva scritto nel giorno di un suo compleanno e che era stato difficile tatuare quei messaggi d’amore, perché voleva che sul suo corpo ci fosse stampato l’affetto delle sua creatura (la chiamò così) con la stessa, identica calligrafia della sua bambina. Mi raccontò delle difficoltà di farli uguali, perché li voleva uguali al messaggio originale, perché voleva che l’amore di sua figlia rimanesse impresso per sempre nel suo corpo.
Gli dissi che non capivo molto i tatuaggi. Sollevò la t-shirt, mostrandomi una parte del petto, mentre io ero già chiuso nella coperta, poiché soffro sempre il freddo in aeroplano. I suoi muscoli addominali sembravano un muro di Basquiat, io sembravo un profugo accovacciato nel sedile con la coperta fino al collo.
Scherzai su me stesso raccontandogli il terrore degli aghi, di tutto quello che è dolore fisico e che mai avrei voluto fare un tatuaggio. Dopo quel racconto, mi accorsi che stavo cercando di conversare in modo compiacente. Senza volerlo, speravo di rendere un inconscio omaggio alla sua vita usando parole di encomio per il suo lavoro, i suoi affetti, il suo coraggio.
Dissi che mi sembrava strano rompere un rapporto a causa del lavoro. Mi rispose che non trovava strano più niente.
Vedendolo emozionato, gli domandai, come per dargli un po’ di sollievo, delle sua famiglia originaria. Volevo distrarlo un po’ da quei pensieri.
Aveva passato l’infanzia in una città molto piccola, conosciuto da tutti gli abitanti, ma poiché i genitori lavoravano entrambi in ospedale, con turni spesso contemporanei che lo lasciavano da solo anche di notte, avevano preferito che crescesse nei Pirenei, in montagna, dove i nonni avevano un piccolo negozio di alimentari.
Mi parlò con grande amore di suo nonno, che gli aveva insegnato a scalare le montagne e che aveva dato il via alla sua vita di allenamenti, instillandogli il piacere di misurarsi, e diminuire le limitazioni del suo fisico. Mi raccontava quanto sia difficile immaginare come e dove un corpo umano possa andare oltre ai propri limiti, quanto la montagna aiutasse a conoscerli e, in casi di emergenza, insegnasse a non rispettarli.
È così, continuava, che l’adrenalina aumenta in modo esponenziale nel sangue per riuscire ad arrivare nelle vette più difficili e nelle condizioni di tempo più impervie. Parlava del nostro corpo come di una macchina prodigiosa che lui aveva sperimentato. Mi raccontava l’allerta fisica continua nelle zone di guerra. Le esperienze in montagna, al cospetto delle sue missioni di lavoro, erano soltanto passeggiate. Lo avrebbe scoperto più tardi.
È così, pensavo io, che, forse, ci si prepara alla guerra.
Gli chiesi se fosse proprio quell’adrenalina, che non si poteva sicuramente chiudere come un rubinetto, che sua moglie non riusciva più a sopportare dopo ciò che mi aveva raccontato. Rispose che si erano messi insieme e sposati molto giovani, che allora avere un posto stabile come studente-lavoratore, era un lavoro molto ambito. Aiutava i nonni al negozio consegnando le spese a domicilio, caricando e scaricando le forniture più pesanti, e mettendo a posto il magazzino.
Di mattina andava a scuola, lavorava al pomeriggio e la sera studiava. Fino al suo ingresso nell’Accademia Militare Spagnola.
Si capiva che, più che la disciplina militare, gli piaceva aiutare gli altri.
Mi disse che spesso si arruolavano ragazzi analfabeti, e che lui allora insegnava, quando era nella base spagnola, a leggere e scrivere, a far di conto, e soprattutto la storia, che era diventata con gli studi la sua grande passione.
Erano ragazzi arrivati dalla strada, poveri in canna, spesso frutto di famiglie molto difficili, che lui era orgoglioso di tirare fuori attraverso la conoscenza e disciplinandoli ad usare un salario che non avevano mai ricevuto e che rischiavano di sperperare, soprattutto all’inizio, in cose futili e dannose, non per ultimo l’alcool. Ragazzi che non avevano mai conosciuto una paga.
Da ciò che diceva, il lavoro era la cosa più bella che gli fosse capitata, dopo la paternità.
Ma che sua moglie, nel tempo, dopo che iniziarono le missioni, lo trattava come un tipo un po’ bislacco, lo guardava con occhi sempre più distanti, i loro silenzi erano aumentati, cominciava a chiedergli di cambiare la sua vita con un lavoro meno pericoloso e distante.
Gli chiedeva di abbandonare quella sindrome da missionario in guerra. Avrebbe potuto, con la sua preparazione, lavorare in qualche altro tranquillo ministero, spostando carte. Avrebbero potuto, con la bambina, trasferirsi tutti insieme a Madrid e vivere in pace, ma niente di tutto questo accadde.
Un giorno lei gli disse, come nei peggiori film sui reduci, che durante la sua assenza di un anno aveva incontrato un altro ragazzo, che lavorava in banca. Non lo amava come lui, ma garantiva a lei e alla figlia una vita senza paura. E che voleva divorziare, nella speranza che rimanessero genitori e amici.
Gli chiesi perché non avesse accettato le possibilità di un lavoro tranquillo a Madrid. Riprese a parlare come un fiume dei Pirenei, di cosa si prova in alta montagna dopo che si è rimasti appesi nel nulla, il piacere che provava aiutando i compagni di scalata, le solidarietà strane che nascono nelle guerre.
Domandai se a volte, nel suo caso, il prossimo di cui si era scordato, di cui aveva dimenticato le necessità affettive, non fosse proprio sua moglie.
Mosse il collo per esprimere titubanza. Disse che forse avevo qualche ragione, ma che per lui il suo lavoro era tutto.
Era grato all’Accademia, gli aveva dato una cultura immensa che lui non aveva e non si sarebbe potuto permettere attraverso una scuola normale. In effetti parlava un inglese colto e variegato, con citazioni sui secoli lontani, conosceva molto bene la storia di Spagna, i massacri secolari e esprimeva continuamente, forse per farmi sentire a mio agio, analogia con i periodi delle guerre italiane e le dittature subite da entrambi i paesi.
Strano per me, ripeto avevo ancora molti pregiudizi, il fatto che fosse contrario alla destra. Il nonno era dalla parte della Spagna repubblicana. Lui sembrava accettare tutta la politica per quello che era. Mi disse che in Spagna nessuno aveva ragione nella guerra finale, e che il capolavoro diplomatico, evitando gli spargimenti di sangue, lo fece solo Suarez, quando transitò il paese verso la democrazia, chiudendo molti occhi per evitare altro sangue.
A quel punto, dopo che avevano portato la cena che mi ero promesso di non mangiare, gli chiesi se volesse anche la mia parte di quel pastone indistinto del catering aeronautico. Mi ringraziò e rifiutò. Ritirarono i vassoi, si prese un liquore e si accasciò nel sedile incominciando a dormire.
Io mi misi tranquillo con un libro, ma mi accorsi che stavo guardando le pagine senza interiorizzare una sola parola.

Preferii reclinare il sedile, coprendomi completamente con la coperta e restando in quel limbo tra sonno e veglia che è un sonno particolare, diverso dall’insonnia e diverso dal dormire. Ogni tanto si avvertiva qualche turbolenza, ma ciò che mi svegliava era la voce degli altoparlanti che raccomandavano le cintura di sicurezza fino a segnale spento.
Poi, nel lucore dell’alba che entrava da chissà quale cielo, ci svegliò il rumore delle vettovaglie, c’era un altro pasto in arrivo: la colazione.
Mancavano tre ore per arrivare a Roma. Gli chiesi di scambiarci i biglietti da visita dopo un caffè orribile. Lo facemmo… Gli dissi che poteva venirci a trovare in Veneto, anche con la figlia. Lui ricambiò gentilmente l’invito. Non seppi mai dove finì quel biglietto. Lo persi chissà dove, disfacendo assonnato i bagagli di dieci giorni.
Con la bocca impastata per l’aria secca, arrivammo a destinazione. Ci stringemmo la mano e ci dividemmo per andare ciascuno al proprio nuovo ed ennesimo gate. In poco meno di due ore e mezza, tra attese e imbarco, sarei stato a casa. E avrei cominciato ad avere più curiosità per le missioni di pace e un grande rispetto per chi faceva quel lavoro.
Adesso, quando sento le notizie che trascuriamo… poiché gli attentati lontani fanno meno effetto all’opinione pubblica, so qualcosa di più e leggo a fondo le notizie che mandano i nostri ragazzi della stampa insieme ai loro operatori televisivi. La realtà di quelle parole, il racconto di quell’attentato mi rimase impresso per sempre.
Quella vigilia di Natale la ricordo ancora.
Le foto sono tratte dal film It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa) di Frank Capra (1946), con James Stewart e Donna Reed

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!