La Noche Buena delle creature e degli abbracci

Una messa molto particolare nella notte di Natale a La Oliva, nel centro di Fuerteventura.
LUCIO FAVARETTO
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[FUERTEVENTURA, CANARIE]

Quella notte prendemmo la strada che porta a La Oliva, una cittadina interna all’isola di Fuerteventura. Ci dissero che la messa lì sarebbe stata molto suggestiva. Guidammo per mezz’ora nel buio totale impregnato di astri. I fari della macchina illuminavano i vulcani e la terra lavica depositata ovunque come se fosse stata sparsa in un tempo recente ai lati della strada.  Era ovunque, in centinaia di migliaia di pezzi che sembravano pece, buttati lì come semi preistorici, tirati a caso da demoni giganti. 

C’era una casa ogni tanto, con il giardino ricco di cactus, aloe vera, e altre piante che conosco solo di vista ad adornare i giardini, e le finestre illuminate con luce bianca come ossi di seppia.

Nel buio pesto della notte le stelle pulsavano nel cielo possente e maestoso, come nel deserto.  Vuote erano le strade: alle undici di sera erano tutti in famiglia perché era la “Noche Buena”, così si chiama in Spagna la notte di Natale. 

Arrivammo dalla strada dritti al centro del paese. Le palme del viale che porta alla chiesa erano vestite di Natale, colme di lucine giallo oro.  

C’era un silenzio che più di così non si può. Eravamo un gruppo di amici e mi accorsi che stavamo parlando a voce bassa in mezzo al niente, per non disturbare la notte. L’oscurità era benevola di pace. Lì, dove il mare sembrava lontanissimo e i turisti soltanto un ricordo. 

Le nostre voci avrebbero potuto disturbare l’immensità di quei cieli che si curvavano nel buio, e quelle centinaia di migliaia i puntini intermittenti facevano della notte buona un inno silenzioso e solenne alla mitezza. Non era la pace dei dormienti, era pace e basta, pace della via lattea curva sopra di noi, fino a dove arrivavano gli occhi, così lontano che l’orizzonte sembrava carta da zucchero. Il vento era lieve e tiepido.

Nuestra Señora de la Candelaria, foto di Marco Sangiorgi

Dal nulla apparve una chiesa del Settecento. Non v’era ancora nessuno, e sentimmo fisicamente il privilegio di essere lì, soli al mondo, in mezzo al nulla. Noi, la chiesa, le stelle e le poche palme illuminate che segnalavano la chiesa. 

La testa era così leggera che ci si poteva inginocchiare per terra e pregare anche se non tutti noi eravamo persone che pregavano, o sapevano pregare. 

Aspettavamo fuori dalla chiesa con qualche dubbio: “ma ci sarà la messa di mezzanotte?”. Un amico che vive qui ce lo confermò. Era ancora presto, mancava più di mezz’ora alla mezzanotte. Siamo sempre occidentali in continuo anticipo. 

Qualche persona vestita a festa incominciò ad avvicinarsi al portone centrale. Quasi tutti erano vestiti bene, con abiti eleganti. Gli uomini portavano abiti di seta, lasciavano intravedere i calzini rosso fiammante dentro le scarpe nere e lucidate. 

Finalmente la gente tutta arrivò ordinatamente in chiesa fino a riempirla. In fondo, sotto l’altare, si vide un presepe normale, dove mancava solo l’asinello.

Dall’altare uscì un prete anziano e minuto, tutto vestito di bianco, dagli occhi vispi e intelligenti. E con voce melodiosa incominciò la messa. 

foto di Marco Sangiorgi

Alcuni ragazzini indossavano l’abito majorero, il loro abito tradizionale locale, fatto di camicia bianca, gilet, fascia attorno all’addome e cappello a tesa larga in testa.  C’era gente seduta per terra, di posti ve n’erano ma in molti s’accomodarono come volevano, come si sentivano più comodi.   

Non c’era nessuna goffaggine in quella casualità di posture, ognuno poteva mettersi in un angolo gradito lasciando libera per un tacito accordo solo la lunga navata centrale. 

Iniziò la messa, i cori della gente non erano sincronizzati, e vari Amen arrivarono alla fine delle tante preghiere, come applausi caduti per ultimi, uno qui, uno lì, in un teatro entusiasta. Amen, Amen, Amen si sentiva nei ritorni d’eco provenienti dai vari angoli della cattedrale. Erano gli Amen di coloro che pregavano in ritardo sui ritmi dell’officiante, ma finivano l’orazione. 

Il prete spiegò cosa fosse il belén, il presepe ovvero la casa del pane di origine araba, e improvvisamente con una voce dolce e fioca, al punto che qualcuno gli porse un piccolo microfono alzandone l’asticella davanti alla sua bocca, disse rivolgendosi con lo sguardo a quella platea di fedeli che quella era una notte di festa, annunciando che lì, quella notte, il dolore se n’era andato via e non c’era più.

foto di Lucio Favaretto

Era una notte, disse sorridendo, che girava su tutta la terra per celebrare la tenerezza di Dio, per un bambino nato proprio lì, dove le comete indicavano il luogo perché tutti i viandanti e i re magi potessero raggiungerlo e omaggiarlo di delizie. Il prete diceva parole di gioia, belle e accorate, rese ancora più affascinanti dal suo perfetto accento spagnolo, dalle “r” rotate, dalle “J” aspirate perfettamente: le sue parole che sembravano un canto vagavano come musica per tutta la Chiesa. 

Disse:

amatevi tutti i giorni e tutte le notti e tutte le sere e anche la mattina quando vi svegliate, che il mondo è stato creato solo per voi, e voi siate contenti e riconoscenti e allegri. Che notte di festa bambini miei, mi ninos.

Prese il bambinello, spiegò come duemila anni fa lo fasciavano dalla testa ai piedi e che oggi si era più fortunati a nascere senza quelle vesti scomode e paralizzanti.  E parlò di quei genitori bambini che a loro volta non hanno ancora pratica di un bimbo appena nato. E mentre teneva il bambolotto di Dio in braccio con una mano spiegava con enfasi felice che il bambino era ebreo, figlio di gente povera, fuggita e nomade. La statua della Madonna era avvolta da coperte dozzinali.

Il prete fece un cenno con la mano sinistra rivolto al portone d’entrata a qualcuno o qualcosa, di farsi avanti. E arrivarono galli, gatti, uccelli, cibo, patatine, verdure, frutta, pentole fumanti, con i bimbi che come i magi portavano in dono l’abbondanza, e il cibo, e gli animali. 

La celebrazione, sempre accarezzata dalle parole del curato, continuò senza perdere la sua forza benigna, pur nella confusione degli animali che arrivavano spingendo un po’ a destra e un po’ a sinistra della navata centrale, facendosi accarezzare dai fedeli. 

E fu tutto un di qua e di là per la chiesa, fu tutto un girare il collo per vedere che diavolo stesse succedendo. Noi eravamo attoniti, mai avevamo visto un trambusto così forte. I bambini tenevano la gallina bianca come neve appoggiata e protetta dall’avambraccio, il gatto camminava al guinzaglio, le pentole piene di gofio, il cereale locale che nutrì e nutre la gente da generazioni e generazioni e l’asinello, il burrito, recalcitrava perché, pettinato e lavato e pulito anch’esso a festa, si rifiutava di salire il primo gradino dell’altare.

 E fu allora che molti fedeli s’avvicinarono all’asinello per tranquillizzarlo con carezze affettuose e dolci, lisciandolo ovunque, finché si fidò e salì goffamente lo scalino acquattandosi nel presepe. Insieme ai doni, fatti di cibo, pane, farina, uova, latte di capra, e tanto altro che quasi non riesco a ricordare. 

La chiesa scoppiò in un canto, il pastore fece segno con la mano di alzare i volumi e tutti chi prima chi dopo, in un coro che sembrava casuale e stonato, diedero vita a  un inno alla gioia e alla pace. 

La comunione venne offerta, per chi la prendeva, con baci e abbracci del prete a ciascun fedele che, benedicendo i comunicandi, li stringeva forte a sè, e proclamava amore e invitava all’amore, quello che si mangia e si spezza, si condivide ed esplode in un abbraccio.

Questo, proprio quest’abbraccio, diceva mentre comunicava i fedeli, è Dio e non c’è niente di complicato in amore, così che tutti si scambiarono tenere effusioni e si strinsero forte come per una felicità arrivata da un evento miracoloso e inaspettato.

Una donna, dai capelli biondi e perfetti, magra e dinoccolata, agghindata da orecchini color rubino e un vestito festoso dai disegni floreali, m’abbracciò con intensità e mi disse più volte paz, paz, paz amigo, pace, pace, pace.

Poi venne il bello.

Animali e doni erano a posto, i bambini–magi sostavano ai lati delle navate, recitavano delle poesie preparate all’uopo, finché il prete disse che la festa di tutti è cibo per tutti, e che si poteva procedere tra i fedeli e offrire i doni della notte.

E passarono con i cappelli offrendo caramelle, Ferrero Rocher, pezzi di cioccolato… insomma fu bello sentire verso le due di notte un cioccolatino scendere dal palato come un luminoso impasto dolce. 

Le messa finì e il prete disse che in quel piccolo posto nel nulla avevano pensato che la gente avrebbe avuto fame, e che molti dei fedeli avevano preparato, in sagrestia, tavoli imbanditi con agnelli arrosti, carne d’ogni tipo, pane, dolci e verdure, e che tutti erano invitati a partecipare alla festa e a goderne dei frutti. 

Ecco, la messa era finita, e la festa del Natale era incominciata in un fruscio di vestiti e banchetti. 

Questa messa fu celebrata a La Oliva, paese interno dell’isola di Fuerteventura nell’ A.D. 2019, la notte tra il 24 e il 25 dicembre. Forse Dario Fo, quando nel Mistero Buffo offriva alle platee il suo corpo e la voce per la moltiplicazione del vino, impersonando Gesù che brillo di gioia gridava “bevetelo, bevetelo che l’ho fatto mi”, si trovava lì, sceso dalle stelle e invisibile, si limitava a sorridere di gioia.

La Noche Buena delle creature e degli abbracci ultima modifica: 2019-12-28T18:47:26+01:00 da LUCIO FAVARETTO
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