Liverpool FC, orgoglio rosso

Il club della città dei Beatles ha una storia che riflette bene il colore della sua maglia.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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“This is Anfield”, fece scrivere Bill Shankly nel tunnel dello stadio che conduce dallo spogliatoio al campo di gioco. La storia del Liverpool, senza l’incontro con questo carismatico tecnico scozzese, sarebbe stata assai diversa. I Reds, infatti, nascono nel 1892 per volontà di John Houlding, l’affittuario di Anfield Road dove da otto anni si esibiva l’altra metà di Liverpool, l’Everton (fondato nel 1878), che proprio in quell’anno sarebbe migrato al Goodison Park, dove gioca ancora e cerca invano di recuperare una supremazia cittadina che ormai si perde nella notte dei tempi. E così, poiché l’impianto di Anfield era rimasto orfano del suo club, Houlding non trovò di meglio che fondarne un altro, pensando di chiamarlo Everton F.C. and Athletic Grounds Ltd o, semplicemente, Everton Athletic.

Ma visto che la Football League si rifiutò d’iscrivere al campionato un altro Everton, ripiegò su Liverpool Football Club e la leggenda poté avere inizio. Una leggenda relativamente recente, intendiamoci, dato che per sessant’anni i rossi della città socialista per antonomasia erano stati relegati in una sorta di oblio e, negli anni Cinquanta, addirittura confinati nell’inferno della Seconda divisione, dove avrebbero continuato a languire se nel dicembre del ‘59 il presidente Williams non avesse chiamato Shankly rivolgendogli la seguente domanda:

Vuoi guidare il più grande club inglese?

E la risposta di questi, spiazzante, fu:

Perché, Busby ha lasciato il Manchester United?

Ex calciatore di medio livello e allenatore ancora bisognoso di affermarsi, il nostro colse comunque l’occasione che gli veniva offerta e avviò una rivoluzione tutt’altro che silenziosa. In breve tempo, puntando sul collettivo e sull’idea di remare tutti nella stessa direzione, fece fuori la bellezza di ventiquattro giocatori, ritenuti non all’altezza dei suoi metodi d’allenamento e della sua visione del mondo e del gioco. Una concezione complessiva dei fenomeni non solo rivoluzionaria ma volta a restituire un’anima a una squadra che da anni si era rassegnata alla mediocrità e all’anonimato.

Shankly, invece, riteneva entrambe le cose intollerabili per chiunque avesse a che fare col pallone, e così ecco la rabbia, la grinta, il sudore, l’etica del sacrificio e del duro lavoro nonché un giovanotto di belle speranze di nome Kevin Keegan destinato a segnare la storia del calcio mondiale.

Shankly, negli anni a venire, fu molto più di un semplice condottiero. Psicologo, padre, confidente, animatore del gruppo e teorico di alcuni aspetti identitari che tuttora caratterizzano l’universo rosso, rese la divisa interamente red, pantaloncini compresi, al fine di pretendere rispetto dagli avversari, oltre a svolgere il ruolo di mentore nei confronti di un gruppo di collaboratori che avrebbe proseguito nei decenni a venire l’opera da lui intrapresa. La cabina di regia shanklyana aveva luogo nella boot room, la stanza degli scarpini, e vi prendevano parte i suoi due vice, Bob Paisley e Joe Fagan, oltre a Reuben Bennett e Tom Saunders. I primi due erediteranno la panchina del maestro e ne seguiranno egregiamente le orme.

Bill Shankly. “Liverpool was made for me and I was made for Liverpool

Sfrontato, irriverente, graffiante e sempre pronto a dettare l’agenda, Shankly sarebbe stato protagonista anche oggi, nell’era dei divi e dei Mourinho, delle dichiarazioni roboanti e della spasmodica ricerca della visibilità. Del resto, come si poteva ignorare un tipo che si permetteva di asserire che “a Liverpool ci sono due squadre: il Liverpool e la squadra riserve del Liverpool”?

Neanche il simpaticone portoghese autodefinitosi Special one, forse, sarebbe arrivato a tanto. Senza dimenticare il suo rapporto d’amore puro, viscerale con la Kop, la curva più calda del tifo del Liverpool, la quale prende il nome da una collina del Natal, simbolo della guerra anglo-boera, e la dice lunga sul clima in cui si gioca da quelle parti.

Del resto, basta osservare Anfield prima dell’inizio di qualunque sfida, specie se di un certo livello, basta vedere i tifosi che cantano a squarciagola l’inno sportivo più bello in assoluto, You’ll never walk alone, con le sciarpe tese e una concentrazione totale sui propri idoli, al fine di infondere loro il coraggio necessario e l’energia positiva per vincere, per capire per quale motivo persino il magno Barcellona di Messi, la scorsa primavera, vi abbia rimediato una figuraccia epocale.

Certo, dire Liverpool non significa solo rievocare ricordi positivi. Il rosso della divisa rimanda al rosso del sangue in almeno due episodi: la tragedia dell’Heysel di Bruxelles, quando gli hooligan sfogarono la propria inumana ferocia contro trentanove tifosi juventini assiepati nel Settore Z di uno stadio fatiscente e inadeguato, e quella di Hillsborough, a Sheffield, quattro anni dopo, quando furono novantasei tifosi del Liverpool a trovare la morte in una calca, prima della finale di Coppa d’Inghilterra contro il Nottingham Forest.

Storie da non dimenticare, soprattutto se si ha presente il contesto nel quale ebbero luogo, ossia l’Inghilterra della Lady di ferro, con le sue riforme inique e il suo liberismo spinto fino ai limiti del darwinismo sociale, fra attacchi ai diritti dei lavoratori (pensate ai minatori, per dire) e la sua teoria secondo cui la società non esiste ma esistono solo gli individui, presupposto dell’individualismo che, tre decenni dopo, ha condotto il Regno Unito sull’orlo di una guerra civile (per ora) a bassa intensità.

Storie che s’intrecciano a filo doppio con il malessere sociale che si percepiva ovunque nell’Inghilterra di quegli anni, in cui lo stadio era considerato da molti una sorta di zona franca in cui scatenare i propri istinti peggiori. Storie di dolore selvaggio, di morte e disperazione che costarono alle squadre inglesi una pesantissima squalifica (ben cinque anni, sei per il Liverpool) in ambito internazionale e che devono farci a riflettere su quanto il calcio non sia mai estraneo al quadro complessivo in cui si svolge la sua epopea.

Jürgen Klopp

L’era moderna, costellata dapprima di debiti e poi di trionfi, grazie a una gestione oculata e sanamente internazionale, ci parla di uno dei club più spettacolari e vincenti al mondo, non a caso allenato da un socialista tedesco di nome Jürgen Klopp che costituisce un raro esempio di classe operaia che va in Paradiso. Klopp, infatti, è quanto di più simile a Shankly si sia visto negli ultimi quarant’anni, oltre a poter disporre di una compagine fortissima e di una dirigenza in grado di assecondarne le richieste. Una squadra di uomini veri, questo Liverpool, in cui Mané, punta di diamante di un attacco che ha in Firmino e Salah gli altri due alfieri, aiuta a proprie spese il suo villaggio in Senegal e al quale l’Olanda farfallona, che per questa sua pecca costitutiva ha raccolto assai meno di quanto avrebbe meritato, ha donato, invece, una roccia inscalfibile come Van Dijk, il quale contribuisce da par suo alla solidità di un gruppo che il non meno coriaceo timoniere ha plasmato per resistere a tutti i marosi.

Ed ecco, dunque, che nella città dei Beatles e del duro lavoro, la squadra più inglese di tutte si è trasformata in una mutinazionale della bellezza, capace di lampi barcelloniadi e trincee difensive degne di Nereo Rocco, giocate a centrocampo all’altezza del miglior Pirlo o di un ispirato Iniesta e rotture delle folate offensive avversarie che c’inducono a pensare che anche l’onesto Ringhio Gattuso, oggi, ad Anfield, si sarebbe potuto ritagliare un ruolo di rilievo.

Il Liverpool è una storia in atto e un mito che si concretizza giorno dopo giorno, come dimostra la bacheca traboccante di cui gode ma, più che mai, la fame spensierata con cui scende in campo e dona gioia a chiunque ami il calcio e lo sport. Gli mancava un solo tassello per essere una macchia perfetta: un portiere all’altezza del resto della squadra. Nell’estate del 2018, a colmare la lacuna, è arrivato Alisson, un brasiliano dai piedi dolci che, in pochi mesi, ha cancellato il ricordo delle papere di Karius, costate la Champions nella finale persa per 3 a 1 contro il Real Madrid.

Ammetterete che solo a Liverpool avrebbero potuto pensare a un brasiliano per un ruolo così delicato e di cui la scuola carioca non ha, storicamente, grandissimi interpreti. Nel catino infernale di Anfield hanno messo il Brasile in porta, l’Olanda in difesa, il resto del mondo a centrocampo e l’Africa in attacco. Se volete spiegare al volgo il concetto gramsciano di egemonia culturale nonché l’importanza di creare una contronarrazione rispetto ai dogmi di una determinata stagione, la banda di Klopp è l’esempio giusto. 

Liverpool FC, orgoglio rosso ultima modifica: 2019-12-28T16:40:10+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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