PopBari. L’école barisienne del familismo amorale

Le criticità antiche e recenti del sistema bancario italiano che la crisi pugliese mette in evidenza.
FRANCESCO MOROSINI
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Dopo anni d’agonia, alla fine il destino della Banca popolare di Bari pare giunto a conclusione. Ovvero, caduti gli ultimi veli, non reggendo più la banca, ecco la decisione di Bankitalia di commissariarla. Subito dopo, come ultimo atto della vicenda di PopBari, domenica 15 dicembre il Consiglio dei ministri ha deliberato “misure urgenti per la realizzazione di una Banca di Investimento”. La soluzione prospettata lascia dubbiosi. Il sospetto è che nell’intervento abbiano pesato troppo sulla ratio economica gli equilibri politici (in parte inevitabili). Conseguentemente, il timore è che così i contribuenti si trovino a carico lo spettro della banca barese; anche se in forma di novellata Banca per il Sud.

Va però detto che tale modalità d’azione appartiene alla cultura politica del Belpaese; come pure un’idea di credito che, applicata alle banche (i dissesti delle popolari lo provano), porta a una visione dove le relazioni fanno premio sul merito del credito medesimo. Perseverando, come possibile, per questa strada, la Puglia rischia un dopo crisi di PopBari uguale al passato invece che un “modello creditizio” più orientato al mercato e meno vincolato alle dinamiche locali. Che di loro mostrano il persistere tuttora di una costante che frena la Penisola, già rilevata ai tempi del boom del Secondo dopoguerra e canonizzata in Teoria sociale da Edward Banfield (Le basi morali di una società arretrata) studiando la Basilicata degli anni Cinquanta del Novecento, e individuato come “familismo amorale”.

In sintesi, è la sottovalutazione del valore dello spazio pubblico e la primazia su di esso degli interessi clanici. La qualcosa in parte è inevitabile; e, se a dosi contenute, è pure utile. Facilmente, però, può divenire nocivo. A Nord, si potrebbe rintracciare, per fare un esempio, nella resistenza alla finanziarizzazione da parte delle imprese per mantenerne il controllo familiare. Insomma, se esso diventa assioma unico d’azione, crea incompatibilità con l’economia di mercato. Guardando alle crisi bancarie, ci aiuta a capire la cultura e gli interessi che poi conducono a disastri come quello di PopBari. Vero, Banfield analizzava i “blocchi” allo sviluppo in aree arretrate; ma anche in contesto modernizzato, dall’economia della terra a quella dei titoli subordinati, aiuta a capire.

A conferma, la sociologia economica di Banfield, se si guarda al modello gestionale della PopBari, chiarisce molti aspetti della sua gestione (e basterebbe applicare la sua lente teorica lungo tutta la Penisola per coglierne problematiche diffuse). Lo testimonia, a suo modo, la stessa composizione, durata anni, del vertice del management della banca pugliese. In definitiva, alcuni suoi “passi analitici” colgono le premesse sociologiche di scelte gestionali errate di PopBari. Nel senso, ad esempio, di farci correlare queste ultime al facile consenso che il suo “modello familista” induce. E alla cui base sta la personalizzazione del rapporto con i rappresentanti della banca e l’illusione di molti risparmiatori di essere così tutelati dai rischi di mercato. E analogo discorso vale, a danno della banca stessa, per la simile modalità di erogazione dei prestiti che poi il mercato sancisce come sofferenze.

Modello che poi, alla fine, crea più problemi di quanti ne risolva. Perché, quali siano le intenzioni del management, tra credito lontano dal suo merito e intrecci politici le cui priorità ancor più spingono nella medesima sbagliata direzione, è facile che il bilancio della banca (e la PopBari l’evidenzia) posto dinnanzi al micidiale e ineludibile “realismo del mercato” possa deragliare. Come puntualmente è successo in Italia, complice anche il lungo stop dell’economia italiana. D’altra parte, se vediamo nell’attivo delle banche (i prestiti fatti) il passivo delle imprese (crediti ottenuti), vediamo subito che, al di là della qualità del management, c’è da considerare pure la variabile stagnazione nelle difficoltà delle aziende di credito. Ma peggio va, ecco il punto, se i criteri gestionali sono dubbi.

E siamo alle solite: una banca improvvisamente (ma non troppo) va in difficoltà; quindi, dubbi sulla Vigilanza di Bankitalia; poi gli azionisti e gli obbligazionisti, toccati nel portafoglio, s’infiammano. A ultimo, interviene il governo tentando, al contempo, di aggiustare al meglio la crisi ed evitare che l’ira dell’opinione pubblica divenga un caso di ordine pubblico. Così, tra crolli e speranze di soluzioni il meno dolorose possibili, molte sono le sigle di banche che hanno visto la polvere: da Monte dei Paschi di Siena, banca antichissima, per giungere infine al caso d’attualità: la PopBari. Cui aggiungere il colpevole ritardo, determinato da infinite resistenze, della riforma delle popolari i cui guai, se già fossero state S.p.a., il mercato li avrebbe rilevati ben prima, con più ampi margini di correzione. Cosa impossibile se il valore delle loro azioni era amministrato dai vertici.

Veniamo, dunque, alla PopBari. Che per essa le cose volgessero al peggio, e che i criteri di gestione del management della banca fossero quantomeno dubbi, era ormai sotto la luce dei riflettori già da tempo: e questo sia dal lato dell’erogazione del credito che da quello della raccolta di risorse (obbligazioni) e di conferimenti di capitale (azioni). Lo dimostrano, tra l’altro, i ricorsi all’Arbitro per le controversie finanziarie (ACF), istituito dalla CONSOB nel 2016, e le sanzioni poi comminate da CONSOB medesima nell’ottobre 2018. Pertanto, già si annunciava la tempesta in arrivo. Il commissariamento (scioglimento degli organi della banca e sua sottoposizione ad amministrazione straordinaria per perdite patrimoniali, come da Testo unico bancario (TUB) ne è conseguenza.

La questione di PopBari parte di qui. Ma se una banca, com’è accaduto alla PopBari va a gambe all’aria, esiste una regola, almeno in linea generale, di governo della sua crisi? O conta solo l’opportunità del momento? Per PopBari si notano differenze nelle regole applicate in altri casi, anche in conseguenza d’interventi d’oltralpe. In particolare, per la banca di Bari la politica (nazionale e locale) sembra essersi sia attivata da subito, quantomeno per evitare soprattutto agli obbligazionisti perdite sull’investimento fatto. E forse anche per difendere, dove possibile, il vecchio modello creditizio della PopBari. Ed è chiaramente un guaio se, come potrebbe essere per PopBari stessa (ma non solo), le crisi bancarie fossero affrontate, negando ogni ratio tecnico/politica, esclusivamente secondo discrezionalità ed opportunità politica. 

Un passo indietro, per chiarire. Ogni crisi bancaria – quali poi ne possano essere le possibili dinamiche risolutorie e se il dissesto dipenda da cattivo management o dall’esplodere di crediti inesigibili (nella crisi di PopBari, come di altre che l’hanno preceduta, c’è un po’ di tutto questo) – ha un suo punto di caduta. Ed è che gli impieghi (crediti e investimenti) sono minori, magari per rettifica e svalutazione, rispetto alle poste del passivo (capitale di rischio, obbligazioni, depositi). Alla fine sono i bilanci ad annunciare gli tsunami bancari in arrivo. Tuttavia, ed è appunto il caso della banca di Bari, poiché i bilanci necessitano di equilibro (le operazioni baciate et similia più che correggere alla fine aggravano il male), ne consegue che necessita intervenire. 

In prima linea il capitale di rischio (non è risparmio). Poi, se le perdite fossero maggiori, toccherebbe alle obbligazioni che “pagano differenziate per tipologie,” incorporando un diverso rischio dell’emettente. Ce lo ricordano le subordinate, cioè di obbligazioni

per le quali il pagamento delle cedole ed il rimborso del capitale, in caso di particolari difficoltà finanziarie dell’emittente, dipendono dalla soddisfazione degli altri creditori non subordinati (CONSOB).

Come da cronache bancarie recenti, il rischio degli obbligazionisti (in parte degli azionisti) tende a tradursi in rischio politico (di consenso). Difatti, l’ipotesi del governo di gestione delle crisi di PopBari, come si vedrà, riguarda pure il contenimento di questo rischio politico.

Il fatto è che i dissesti bancari generano situazioni assai delicate (dalla Toscana alla Puglia; passando per il Veneto) che facilmente tracimano dall’economico per esplodere socio/politicamente. Infatti, è in questa prospettiva, cioè per evitare forme di panico bancario, che i depositi sotto i centomila euro sono tutelati dallo stesso sistema bancario (il rischio si spalma su di esso così “assicurando” i correntisti) attraverso il Fondo interbancario per la tutela dei depositi (FITD). Misura logica; diversamente, incrinandosi il sistema dei pagamenti, la fiducia potrebbe crollare e la situazione potrebbe andare fuori controllo sia economicamente che politicamente. Ovvio, nessun paese potrebbe permetterselo. Purtroppo, però, l’attenzione politica così generata in nulla garantisce che questo porti alle soluzioni più sagge.

Ma quali sono gli strumenti per affrontare una crisi bancaria? In primis c’è la Direttiva europea 2014/59 (nota per il bail-in, o salvataggio interno, che, a tutela della finanza pubblica, coinvolge azionisti, obbligazionisti e, in extremis, i conti correnti oltre i centomila euro). È una variante meno traumatica per la risoluzione di una banca “malata” della liquidazione coatta amministrativa (LCA), già nella Legge bancaria del ’36, che rimuove dal mercato (le conseguenze poi si vedranno) la banca in questione. Naturalmente, rari i casi di sua applicazione (ad esempio, toccò nel 1974 alla Banca Privata Finanziaria di Sindona). Poi c’era e c’è di fatto il bail-out (paga il contribuente). Così come i tentativi di “non applicare” la Direttiva 59, di cui la vicenda PopBari può essere parte.

In altri termini, è difficile riscontrare la stessa applicazione di regole dinnanzi ai recenti dissesti bancari. E, pur considerando che situazioni e contesti variano, l’intervento del governo sul dissesto pugliese pare confermarlo.

Prima però di affrontare la questione, qualche cenno sulle cause della crisi di PopBari. L’ipotesi è che a minarla sia stata una politica aziendale condotta meno sul merito del credito e più secondo una logica relazionale di rapporti socio/politici (più possibili erronei affidamenti). Poi l’assorbimento della TERCAS di Teramo, azienda di credito sfibrata e commissariate da Bankitalia nell’aprile del 2012, fu un passo che sarebbe stato meglio evitare. Cui aggiungere operazioni dubbie dal lato della raccolta rilevare dall’Arbitro per le controversie finanziarie (ACF). 

In definitiva, a colpire, in Puglia come altrove, molta parte ha avuto il virus del credito relazionale. Certo, a breve produce consenso e conseguente gradimento da parte della politica (locale ma non solo). Nell’ideologia, è il mito – tuttora con molti fans – della “banca dei territori”, dove il credito è subordinato al suo essere inserito in una rete dove il capitalismo è più relazione socio/politica che di mercato. Ovvio, il credito ha aspetti anche politici e non solo di mercato; purtuttavia, facilmente a livello locale la logica dominante rischia d’essere quella propria al capitalismo familistico//lobbistico (ancora Banfield); e gli effetti distorsivi sull’allocazione del credito sono facilmente immaginabili. A danno dell’efficienza dei sevizi bancari.

Conseguentemente, oggi la PopBari, fondata nel 1960, paga pure per l’ambiente in cui opera/operava. Che condiziona anche le modalità per affrontarne la crisi. D’altronde, con le sue oltre 350 filiali (follia ai tempi dell’home banking ma sono elettori), i 3.300 dipendenti, i suoi settantamila soci, i suoi difficili numeri – perdita netta di 73,3 milioni e un Cet1 (ovvero il capitale immediatamente utilizzabile a copertura di rischi e/o perdite) sotto i requisiti fissati da Bankitalia –, inevitabilmente la PopBari è oggetto di forte attenzione sociale e politica. Quindi, molti gli interessi al capezzale di PopBari. Ed il cui peso già emerse nella riluttanza della banca, nonostante le dimensioni, a divenire Spa secondo previsione di legge.

E ora cosa succede alla banca di Bari? Quali, e quanto differenti da altri interventi per dissesti bancari, sono le strategia che si vogliono mettere in campo per essa?

Una precisazione, prima, di ordine più generale. Ed è che da anni, al di là del credito relazionale che qui fa da protagonista principale, l’industria bancaria italiana preoccupa. Nel senso che, oltre la mala gestione, parte dei problemi, come già ricordato, nasce da ritardi pericolosi sia organizzativi sia sui modelli di business. In sostanza, guai illudersi di ridurre tutto a errori di valutazione sugli affidamenti e la cattiva gestione. Il punto è che l’industria finanziaria italiana ha “tre discontinuità non più rimandabili” (Oliver Wayman, Banche italiane su un piano inclinato): credito 2.0 (fintech); troppe filiali, nuovi approcci (proattivi) alla gestione dei bilanci. Meglio sottolinearlo; c’è di più, in generale, della sola cattiva gestione.

Ciò posto, torniamo alla PopBari.

Dove, come in tutte crisi bancarie, è della partita un ampio ventaglio di stakeholders (interessi coinvolti): cioè azionisti, obbligazionisti, depositanti, aziende con fidi, dipendenti, contribuenti. Questi, per il vero, sono gli stakeholders su cui scaricare preferibilmente, quando possibile, gli oneri dei salvataggi/risoluzioni delle banche nei guai: lo confermano le spinte al “ristoro” a loro carico delle vittime bancarie. La ragione è che il danno al contribuente è meno immediatamente percepito rispetto all’azionista/obbligazionista. Dunque, costa meno in consenso alla politica. Di qui il suo interesse. Che per la PopBari è evidente molto per la volontà di tutelare al possibile i suoi stakeholders. Che poi sia implicitamente che esplicitamente sono anche interni al suo mondo.

Pertanto, sotto questo profilo, il commissariamento è il meno peggio, specie in confronto alla LCA: azzeramento del capitale, cessazione dell’organo assembleare, perdite degli obbligazionisti, rimozione della banca dal mercato, blocco del pagamento delle passività di ogni genere della banca (art. 81 Testo Unico Bancario). Un incubo. Ovvio, che si punti a evitare alla Puglia, già stressata dal “caso ILVA”, conseguenze fuori controllo. Dunque, il commissariamento traccia un possibile percorso. Resta però che pure questa “saggezza” può portare lo stesso a pessime scelte; e il dubbio c’è. Soprattutto, come prima ipotizzato, per il contribuente, che è lo stakeholders politicamente più fragile. 

La strada intrapresa a Bari ricorda più quanto fatto per Carige di Genova che il caso delle popolari venete. Ovvero puntare a un piano di risanamento che consenta di scansare il bail-in con la ricapitalizzazione (Stato e FITD); il commissariamento e la messa di PopBari in amministrazione straordinaria (grazie anche alla segnalazione del Presidente di CONSOB alla magistratura e a Bankitalia dopo la resistenza di PopBari a richieste di chiarimento di CONSOB stessa) ne è la premessa. Tra l’altro, con il commissario nominato precedentemente all’’approvazione del bilancio pertanto sostituito da una sua relazione presso l’ufficio del registro delle imprese, si evita, mancando l’emersione ufficiale delle perdite, che scatti il bail-in

Ecco, dunque, la ratio politica del commissariamento. Naturalmente, anche così c’è un prezzo economico che poi diventa politico: ed è che le azioni, diluite via capitalizzazione pubblica, pagano pegno (sebbene siano ipotizzabili forme di ristoro essendo gli azionisti sono “minoranze intense” che votano). Però la decisione del governo dovrebbero preservare gli obbligazionisti sebbene vi sia un ombra su parte di essi. Si tratta di un bond subordinato con scadenza 2021 di 213 milioni di euro e di taglia, poco saggiamente, retail. Il dubbio è se basterà il salvataggio governativo; oppure se, ciononostante, i possessori dovranno sostenere parte della condivisione delle perdite (burden sharing). Di certo, in ogni modo dovrebbero esserne esclusi anche i depositanti sopra i centomila euro.

Sicuramente, questa è l’intenzione del disegno di legge governativo titolato Misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento per il Sud. La via adottata è di potenziare la capacità patrimoniale di Mediocredito Centrale per una cifra di novecento milioni. Così Palazzo Chigi ritiene che lo stesso Mediocredito Centrale possa concorrere con il FIDT, magari con l’aggiunta di altri investitori, al ripescaggio della PopBari. Piuttosto, la novità da rilevare rispetto a Carige è, più che nell’intervento di capitali privati, nel protagonismo diretto del Tesoro. Mentre le banche partecipanti al FIDT entreranno in partita, magari con scarso entusiasmo. Lo faranno perché, in caso di crack di PopBari, la cifra per la tutela dei depositi sotto i 100.00 euro potrebbe essere piuttosto onerosa.

Ma può il FITD intervenire come finanziatore oltreché garante dei depositanti fino a centomila? Sì, anche se la sua missione principale è la tutela della funzione di intermediazione monetaria delle banche e la funzione sociale del risparmio. Cioè garantisce il permanere della fiducia dei risparmiatori (evitando in tal modo le corse agli sportelli tipiche dei dissesti bancari) nel sistema delle banche consorziate (le Banche di Credito Cooperativo partecipano ad uno schema di tutela dedicato; il Fondo di Garanzia dei Depositanti del Credito Cooperativo). Pur tuttavia, il FITD può anche partecipare al superamento di stati di dissesto (i cosiddetti “interventi non-obbligatori”); però, per il principio di economicità, si dovrebbero evitare interventi di onerosità maggiore rispetto all’eventuale rimborso dei depositanti (artt. 34, 35,36 dello Statuto, poi modificato eliminando i riferimenti alle “funzioni direttive” di Bd’I).

La questione, che potrebbe ancora riverberarsi sul caso PopBari, aprendo il caso degli aiuti di Stato (qui il rimando alla fallita, come si dirà, ricapitalizzazione delle Venete) è se il FIDT operi come mandatario dello Stato; oppure se – come riconosciuto dal Tribunale dell’UE (Repubblica italiana; PopBari, FITD contro Commissione europea) nel caso TERCAS – esso agisca ad esclusiva tutela privata degli interessi dei consorziati. Ovvero se, come sostenuto dall’Italia presso il Tribunale dell’UE, l’autorizzazione dell’intervento del FITD di Bd’I, pur rientrando nei suoi compiti di vigilanza, non vincola il FITD all’intervento medesimo. Poiché l’UE ha fatto ricorso contro la sentenza, anche sotto questo profilo su PopBari c’è ancora la spada di Damocle degli aiuti di Stato.

Quanto ad altri investitori privati si vedrà. Perché l’impresa appare meno che certa e, quindi, poco attrattiva. Comunque è problematico, per i possibili partner privati e per l’opinione pubblica, che dal travaglio di PopBari, anche per l’inseguire la chimera di una “banca d’investimento in toto novellata”, possa nascere un soggetto capace di operare con criteri di economicità. Che poi, e non altro, è quello che servirebbe al nostro Mezzogiorno. Insomma, che basti il blocco del bail-in e la ricapitalizzazione coi soldi dello Stato (almeno qui aveva ragione la Thatcher: il denaro dello Stato è “solo” quello del contribuente) per una rinnovata banca pugliese.

Il timore, piuttosto, è che si punti soprattutto a tutelare gli equilibri in essere attorno a PopBari. Mentre, abbandonando la nenia ideologica del mito della “banca del territorio”, servirebbe un cambio di prospettiva e puntare ad un approccio al risanamento bancario di tipo efficentista. Ovvero, a voltare pagina rallentando la presa, escluderlo del tutto è impossibile e forse nemmeno saggio, del capitalismo di relazione spostando un po’ l’equilibrio verso il mercato. E poi chi lo dice che, pur con la dovuta prudenza, escludere progressivamente dal mercato banche che la cattiva gestione ha reso irrecuperabili favorendo così le migliori, alla fine non implichi miglior credito e più tutela del risparmi. E se fosse questo da fare per PopBari?

Per di più resuscitare la banca pugliese come “banca di investimento” preoccupa ulteriormente. Parrebbe un esperimento in stile Frankenstein che, oltre l’accanimento terapeutico su una banca malata, facilmente può portare – ci sono casi aziendali a suggerirlo – ad innesti quantomeno dalla vita difficile. Perché allora impiantare sulla PopBari, il cui modello di business è di banca retail (banca commerciale tradizionale) un altro modello che potrebbe produrre un rigetto a danno di risparmiatori e contribuenti? Poi ha ragione Nicola Rossi (Corriere Economia) che è tragicomico che la politica voglia “promettere il rilancio del Sud a partire da un dissento bancario”.

Da ultimo va ripresa ancora la questione degli aiuti di Stato perché dirimente nell’approccio alle diverse crisi bancarie (dalla Toscana al Veneto, dalla Liguria alla Puglia). Nel senso che proprio la già richiamata “sentenza TERCAS” bloccò, per evitare l’accusa di “aiuti di Stato”, il FITD dall’intervenire su Banca Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche in difficoltà facendo scattare il burden sharing. Va in ogni caso notato come questa non fu l’applicazione parziale del bail-in, essendo entrata in vigore la Direttiva posteriormente agli avvenimenti. Infatti, il burden sharing si fermò alle subordinate mentre il bail-in ha uno spettro d’azione più ampio (obbligazionisti ordinari e depositanti). Ma l’ombra di eccessiva discrezionalità d’azione nei vari dissesti bancari permane. 

È evidente, come detto, che si vuole schivare per la PopBari proprio la nuova regola del bail e la filosofia che la sottende. La quale, di suo, comporta una soluzione che punti al bail-out (salvataggio pubblico). Al contempo, riemerge rigetto molto italico della la novità concettuale del bail-in. Ovvero della negazione che dinnanzi ad un dissesto bancario, dopo aver coinvolto gli stakeholders interni alla banca, sia sempre necessario il salvataggio al fine di evitare una ben peggiore crisi sistemica. Insomma, la Direttiva 59 esclude che il “to big to fail” diversamente, per la PopBari è contemplato anche il bail-out.

Quindi, è questa la discrepanza cruciale tra PopBari e Venete. Infatti, fallita la ricapitalizzazione, e constatato il loro dissesto dalla BCE, ci fu per entrambe, col burden sharing, la liquidazione “controllata” – a differenza della LCA scongiura il “blocco” dell’attività bancaria – e la cessione per 1 euro a Intesa. Più la garanzia dello Stato (sebbene ad un interesse inferiore a quello sui crediti ordinari) sul 5 ,4 miliardi di credito verso la liquidazione; nonché sussidi per cassa per assorbire l’impatto sui coefficienti patrimoniali di Intesa stessa (evitare ai soci un aumento di capitale) ed altro. Insomma, per la PopBari, a differenza delle Venete, c’è la volontà, giusta o sbagliata di tutelare i titolari di subordinate.

In ogni caso, la percezione di un’eccessiva discrezionalità nelle regole di governo dei dissesti bancari potrebbe produrre problemi politici tra aree del Paese. In particolare col Veneto, se continuassero al riguardo le perplessità sul ricorso a due pesi e due misure. Specie se trovassero fondamento i dubbi, al tempo espressi dall’allora Presidente della Commissione Industria del Senato Mucchetti che, relazionando in aula, si chiedeva se la soluzione spinta da BCE e Commissione per le Venete, negando la ricapitalizzazione, sia stata la meno onerosa per la Repubblica. Insomma, l’ipotetica diversa sorte degli obbligazionisti subordinati (sebbene forse meno garantita di quanto la ratio dell’intervento governativo vorrebbe) potrebbe fare da innesco di tensioni politiche potrebbe essere.

Questo porta alla soluzione prescelta per la PopBari: quella cosiddetta di sistema. Si tratta di due filosofie d’intervento diverse cui aggiungere, e fa la differenza, che per le venete toccava alla BCE vigilare. Viceversa, per la banca pugliese ciò tocca tuttora a Bankitalia che un’esplicita propensione alle “operazioni di sistema” pare averla. Ciò posto è lecito il dubbio che rifiutare la Direttiva 59 spinga a “mettere lo sporco sotto il tappeto”. Col rischio che il soccorritore, nel caso il Mediocredito centrale, si prenda la malattia (via poste di bilancio) del malato soccorso. È il lato oscuro delle operazioni di sistema (comunque si valutino).

Ma quello di PopBari è un fallimento del mercato? Parrebbe di no. Al contrario, il mercato ha funzionato, qui come per i casi precedenti, segnalando il pericolo. Lo ricordano anche gli allarmi di CONSOB e Bankitalia, pur se l’azione dei nostri vigilantes sul risparmio ha sollevato perplessità. Così, il mercato con PopBari, ma prima con Carige e le popolari venete, ci dice che il credito relazionale/politico “fonde” i bilanci delle banche, trascinandole nella polvere. Cui aggiungere che l’ipotesi “nazionalizzazione di fatto” di PopBari (via Mediocredito Centrale), in attesa della sua ipotetica rigenerazione in Banca d’investimenti, potrebbe risultare per lo Stato e l’economia più onerosa della risoluzione in stile “popolari venete”. Con in più per Puglia di restare ai bordi di un moderno mercati del credito.

Il fatto è che soluzioni illusorie potrebbero di seguito presentare un conto assai salato per il contribuente e l’economia.

Una domanda per concludere.

Per quale ragione mai emergono le crisi bancarie quando ormai queste stanno all’ultimo stadio? Forse dipende da regole di vigilanza bancaria metodicamente neglette da management troppo sicuri di evitare di rispondere delle loro azioni? Se così fosse, qualora si restasse inerti, allora altri casi tipo Venete, PopBari, Carige, le Toscane, sono probabilmente già in calendario.


Nell’immagine d’apertura il lungomare di Bari [@p_petruzzelli]

PopBari. L’école barisienne del familismo amorale ultima modifica: 2019-12-29T18:13:51+01:00 da FRANCESCO MOROSINI
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