Esplosivo, esultante, barbarico, felice, insensato, mostruoso, invivibile, liberatore, orribile, religioso, laico… così sarà il Ventunesimo secolo. Non c’è migliore metafora, per descriverlo, di quella di un dizionario, mosaico di parole, accostamento di antinomie, inventario di combinazioni. Allo stesso modo, non c’è forma migliore per descrivere la decostruzione cui si va incontro, groviglio di schegge della realtà, accostamento di culture e barbarie, litania di catastrofi e meraviglie. Ecco dunque un’enciclopedia del futuro, un testamento prenatale, una mappa d’avanscoperta.
Questo l’incipit del Dizionario del XXI secolo pubblicato nel 1998 dall’intellettuale francese Jacques Attali. Da allora si sono consumati i primi vent’anni del Ventunesimo secolo e molti degli aggettivi che Attali ha profuso potrebbero ben definire questo primo spicchio di secolo che ormai abbiamo alle spalle.
Per cominciare, la globalizzazione non è stata un “pranzo di gala”, come direbbe il presidente Mao. E come si pensava, ingenuamente, negli anni Novanta. In realtà la globalizzazione ha fatto “pendant” con la disuguaglianza, come sostiene l’economista Branko Milanovic: in nove casi su dieci i beneficiari della globalizzazione appartengono alle economie emergenti asiatiche, principalmente la Cina, ma anche India, Vietnam, Indonesia e Thailandia. Sono questi i vincitori della globalizzazione, la “classe media globale emergente”, i cui redditi reali tra il 1988 e il 2008 sono più che raddoppiati. Tra i perdenti figura invece la “classe media inferiore del mondo ricco”, che ha visto i propri redditi stagnare.

Gli studi di Milanovic individuano inoltre un secondo (il vero) vincitore, il più ricco ventesimo a livello globale: dell’intero incremento di reddito globale tra il 1988 e il 2008, il 44 per cento del guadagno assoluto è finito nelle mani del più ricco cinque per cento a livello globale (alla classe media emergente solo il dodici-tredici per cento). E dopo la crisi del 2008 si fa ancora più marcata la crescita della classe emergente asiatica:
[…] il riequilibrio dell’attività economica in favore dell’Asia e a scapito dell’Europa e del Nord America non viene interrotto, quanto piuttosto rafforzato dalla crisi.
La crisi colpisce infatti solamente i paesi occidentali e, più precisamente, le classi medie di questi paesi, non i cosiddetti super-ricchi.
L’altra novità di questo ventennio è proprio la grande paura delle classi medie, nude di fronte alla globalizzazione e prive dello storico scudo protettivo dello Stato-nazione. Da qui la reazione nazionalistica e populistica in cerca di un rifugio da “un mondo senza cuore”. La tanto invocata sovranità – contro la Cina, gli immigrati, Bruxelles, le multinazionali, le banche, l’euro, le tecnologie job killing e chi più ne ha più ne metta – diventa una corazza, una protezione.
E proprio per questo la nazione è un valore sempre apprezzato specialmente da chi di protezione ne ha bisogno, cioè dalle classi popolari, i settori più sfavoriti della popolazione, inclusi anche i settori impoveriti del ceto medio senza più ascensore sociale.
È un nazionalismo che vuol farsi diga economica quanto culturale e psicologica. Perché forte è stato il mutamento intervenuto nei modi di vivere e di percepire delle società occidentali negli ultimi decenni. In pratica è in dissolvenza un modello culturale che durava da secoli producendo una frattura tra una parte, dotata di maggiori risorse lato sensu, in stretto rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, orientata al nuovo, pluralista negli stili di vita, individualista, libertaria e liberista, anche anglofona, insomma illuministicamente cittadina del mondo; e un’altra parte, invece, dotata di assai minori risorse, maggiormente legata ad una “piccola” dimensione comunitaria e localistica, a un modo di pensare tradizionale e di fatto conservatore o conservativo.
Un modo di pensare oggi spaesato e impaurito di fronte a tantissime trasformazioni – sintetizzate nella parola globalizzazione – tanto veloci quanto intense. E quindi non comprensibili e impaurenti.
Per l’Italia il ventennio del nuovo secolo rappresenta un periodo di fragilizzazione (di decadenza?) sempre più evidente, anche se con radici negli ultimi decenni del Novecento. Con le dimensioni dell’economia, della demografia, della politica in perversa alimentazione reciproca e segnate dalla stagnazione se non dall’arretramento. L’andamento delle nascite e degli espatri sono indicatori non meno significativi del Pil o dell’occupazione.
D’altronde bastano le parole dell’ultimo rapporto del Censis – che parlano di “società ansiosa di massa macerata dalla sfiducia”, di “stratagemmi individuali per difendersi dalla scomparsa del futuro”, addirittura di “suicidio in diretta della politica italiana e […] pulsioni antidemocratiche” – per sintetizzare una realtà logorata in cui – dice il Censis – per il 48 per cento degli italiani “un uomo forte al potere” rappresenta quel deus ex machina che sempre nelle situazioni bloccate sembra essere la soluzione più facile (un 48 per cento che sale al 56 tra i redditi bassi, al 62 tra i meno scolarizzati, al 67 per cento tra gli operai: ma è difficile credere che questi ultimi pensino a un nuovo Lenin).

Paradossalmente siamo in un contesto in cui il futuro presenta numerose potenzialità perfino esaltanti: anzi, per lo storico israeliano Yuval Harari l’essere umano non è mai vissuto bene come adesso (anche se si chiede “se possa esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono”). Ma in particolare per l’Italia sempre più questi anni hanno segnato il rischio dell’avvicinarsi ad un punto di non ritorno – dalla denatalità al debito pubblico, dalla competitività all’invecchiamento, oltre al clima ovviamente – oltre il quale si aprirebbero scenari duri quanto inquietanti. E comunque ben difficili da gestire, se ancora gestibili.
Hic sunt dracones, si diceva una volta. Hic sunt futura si potrebbe dire oggi: manca o è insufficiente la consapevolezza che queste due espressioni latine potrebbero, nel futuro prossimo venturo, malevolmente coincidere.

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