[TOKYO]
Al di là dei dettagli sulla sua rocambolesca fuga notturna da Tokyo – chiuso, ma per ora sono solo voci, in una custodia di contrabbasso – che ha lasciato di stucco le autorità giapponesi e che Ghosn rivelerà con il contagocce nel corso della sua attesissima conferenza stampa dell’8 gennaio a Beirut, la sua vicenda scopre i nervi di uno dei tanti lati oscuri del Giappone. Quello del suo sistema giudiziario. Che lo stesso Ghosn, ma non è certo il primo, ha definito medievale, iniquo, arbitrario e inumano.
Un sistema basato su due principi universalmente respinti (anche se di fatto talvolta condivisi) dai paesi “civili”: quello della carcerazione preventiva utilizzata come strumento di coercizione e di pressione psicologica per ottenere una confessione (ricordate i tempi di Mani Pulite? il suicidio di Raoul Gardini?) e quello, davvero sacrosanto, della presunzione di innocenza. Un sistema noto in Giappone come hitojichi shiho (giustizia dell’ostaggio) e che un migliaio di avvocati locali, grazie proprio alla notorietà del caso Ghosn, ha formalmente denunciato lo scorso giugno con un appello al governo che ne chiede l’immediata riforma.
Nel documento, che è stato formalmente inviato alla Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite chiedendone l’intervento immediato, si legge:
In Giappone l’uso della carcerazione preventiva va oramai al di là del suo scopo originario, quello di assicurare la presenza dell’imputato al processo [in Giappone il processo in contumacia non è previsto, e la prescrizione scatta, per ogni tipo di reato, dopo 15 anni, ndr] e viola tre principi costituzionalmente riconosciuti: quello della libertà personale, quello del diritto a rimanere in silenzio e quello del diritto ad un processo equo.
Una denuncia forte, che ci spinge a tentare un approfondimento della questione.

HITOJICHI SHIHO – La giustizia dell’ostaggio
Intanto, una premessa: qui non si discute della colpevolezza, della sua eventuale consistenza e della eventuale punibilità di Charlos Ghosn, l’ex supemanager di Nissan-Renault arrestato oramai più di un anno fa a Tokyo per evasione fiscale (pare su una somma solo concordata, ma di fatto non percepita) e, successivamente, per malversazione e sottrazione di fondi aziendali per scopi privati (è accusato, tra l’altro, di averli usati per far restaurare la sua villa privata e per le spese del matrimonio principesco di Versailles). Si tratta piuttosto di inquadrare l’intera vicenda, nel contesto socio-politico-giudiziario giapponese. E internazionale, visto che il Giappone non è proprio l’ultimo paese al mondo. Un paese membro del G7, cofirmatario di tutti i più importanti trattati internazionali, patti e convenzioni che regolano la delicata, quanto fondamentale, questione del riconoscimento e rispetto dei diritti umani. Sempre e comunque.
E qui l’imputato, diciamolo subito, non è più Charlos Ghosn, ma il sistema penale, e più in generale giudiziario, del Giappone. Perché non è accettabile che in un paese del G7 siano ancora in vigore leggi, regolamenti e procedure medievali, arbitrarie e disumane, che violano apertamente non solo i trattati internazionali pur ratificati dal Giappone ma la stessa Costituzione.
Quello che di fatto nasce come un “fermo di polizia” non può durare, come dura in Giappone, 23 giorni, rinnovabili e per singolo addebito [nota 1]. Non si può tenere una persona – prima di una qualsiasi formalizzazione dell’accusa – per 139 giorni in una cella di isolamento, con la luce accesa 24 ore su 24 e senza accesso, se non per pochi minuti al giorno e sempre in presenza di un poliziotto, alla difesa. Non si può, durante quella che è probabilmente la fase più delicata del processo, la famosa “fase istruttoria”, sottoporre una persona, dal ladro di banane al terrorista, dal pedofilo al grande manager o politico famoso, a interrogatori lunghi, improvvisi, defatiganti, senza difensore e non registrati e spesso neanche verbalizzati. E continuare a effettuarli nonostante l’indagato abbia chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi del diritto (peraltro formalmente riconosciuto dalla Costituzione) di non rispondere (mokuhi). Il tutto al solo scopo di ottenere quella che le autorità inquirenti giapponesi, dall’ultimo poliziotto al docente universitario, dal giornalista al procuratore capo (l’ho sentito io, con le mie orecchie, nel corso di varie conferenze stampa) la “collaborazione” (kyouryoku) dell’indagato.
Questo perché il Giappone, nonostante il codice penale lo escluda decisamente, è uno dei paesi dove si può e si è di fatto quotidianamente condannati in base a una semplice confessione, non importa se estorta o ritrattata in fase di dibattimento. Ma anche dove una confessione, non importa quanto suffragata da elementi concreti, può risparmiarti il rinvio a giudizio e la condanna certa. Perché in Giappone al “processo”, nel senso di pubblico dibattimento, arrivano solo i casi già decisi, quelli dove l’accusa è certa di ottenere la condanna. Cosa che di fatto avviene nell’oltre il novanta per cento dei casi. Ma lo vedremo più avanti.
Cose da regimi dittatoriali, da repubbliche (o imperi, in questo caso) delle banane. Non di un paese che, sia pure in enorme ritardo (la prima codificazione di diritto positivo risale alla fine dell’Ottocento, grazie al contributo di esperti e studiosi occidentali, italiani compresi) si è dato, quantomeno dal dopoguerra in poi, un ordinamento giuridico compiuto, ispirato ai principi oramai, quanto meno formalmente, universalmente riconosciuti. Certezza del diritto, separazione dei poteri, contrappesi tra accusa e difesa, “terzietà” dei giudici. Presunzione di innocenza. Habeas corpus, come dicono gli americani.

Un sistema obsoleto e arbitrario, indegno di un paese civile
Di fatto, in Giappone, la situazione della giustizia penale è molto grave. Basti pensare ai numerosi casi di enzai, gli “errori giudiziari”, alcuni dei quali hanno coinvolto casi di condanne a morte, con detenuti rimasti per decine di anni nel braccio della morte, salvo poi essere riconosciuti innocenti [nota 2]. E dobbiamo per questo essere tutti grati al signor Ghosn, a cominciare dai media giapponesi e dagli addetti ai lavori indigeni, specie gli avvocati difensori, che forse ora troveranno il modo di affrontare seriamente l’argomento e premere per una riforma, da tempo annunciata ma mai portata avanti, del sistema.
Forse il premier Shinzo Abe, preoccupato per l’immagine che il suo paese darà in occasione delle oramai imminenti (quanto inutili ed in un certo senso “arroganti”) Olimpiadi [nota 3], farebbe bene, anziché rincorrere il suo discutibile (e per fortuna oramai poco probabile) progetto di revisione costituzionale, lasciare in eredità ai suoi cittadini – dopo il più lungo mandato del dopoguerra – un sistema giudiziario più moderno, democraticamente più “sostenibile” e meno imbarazzante dal punto di vista dell’immagine internazionale. Approvando, per esempio, una legge che giace da anni in Commissione Giustizia e che prevede l’obbligo per la polizia di registrare tutti gli interrogatori. E magari, come da anni suggerisce la Commissione diritti umani delle Nazioni Unite (in applicazione della famosa risoluzione dell’Assemblea generale 43/173 del lontano 1988, votata a maggioranza con la significativa astensione degli USA, ma non del Giappone, normalmente fedele replicante del suo alleato), aggiungere il diritto, durante gli interrogatori, alla presenza del difensore. Che a oggi non è prevista.
Durante la sua permanenza nel dahyokangoku – le celle di “sicurezza” presenti nelle varie questure e in tutti i koban, i commissariati di quartiere spesso minuscoli ma estremanente funzionali e “strategici” per il controllo del territorio –il “sospettato” non può avere alcun contatto con l’esterno, né fisico né virtuale (non può incontrare parenti, amici, né accedere a internet). E nei pochi casi in cui, al termine della detenzione preventiva, il tribunale autorizzi la liberazione su cauzione (poco diffusa in Giappone, meno del tre per cento dei casi) spesso tali limitazioni vengono reiterate e addirittura rese più stringenti.
Tra le condizioni imposte a Ghosn – e inutilmente appellate alla Corte Suprema dai suoi difensori – c’era quella di poter accedere a un computer solo presso lo studio dei suoi legali e a patto che non fosse direttamente (sic!)collegato a Internet. E quella, bizzarra quanto disumana, di non poter parlare (sottolineo, “parlare”, non “frequentare” o fare altre cose) con la moglie, peraltro, per certi periodi, con lui convivente nell’appartamento dove risiedeva a Tokyo. Vauro o Makkox avrebbero sfoderato una vignetta al giorno.

La “dipendenza” della magistratura dal potere esecutivo
Tutto questo è possibile perché in Giappone, va detto chiaramente, non esiste una reale separazione dei poteri, peraltro costituzionalmente sancita. La magistratura giapponese non è né libera ne indipendente. Al suo vertice non c’è infatti un organo autogestito come il nostro Consiglio Superiore della Magistratura, bensì il ministero della Giustizia. Le carriere dei magistrati, siano essi giudici o procuratori, dipendono dunque dal potere esecutivo. E per accedere alla professione, bisogna affrontare un tirocinio organizzato dal ministero e poi un esame di stato. Unico per tutti. Futuri magistrati, giudici, procuratori, avvocati e commissari di polizia sono dunque “istruiti” per oltre un anno nello stesso modo, dalle stesse persone (funzionari del ministero), creando di fatto una sorta di humus di relazioni umane, professionali e istituzionali, che renderà poi difficile la nascita di “battitori liberi”, di personalità capaci di sfidare il sistema, sfidandolo apertamente. Difficile, ma non impossibile [nota 4].
Non solo. Essendo di fatto il ministro della giustizia a capo della magistratura, è la sua struttura che provvede a promozioni e trasferimenti, indica a inizio anno le “priorità” da seguire ed esercita un potere decisivo, di fatto arbitrario, sulle inchieste. Che può non solo avocare direttamente, archiviandole o passandole ad altre procure, ma anche, più efficacemente, “convincendo” i procuratori a ripensarci.
Il caso più conosciuto è quello dello scandalo dei cantieri navali, nel lontano 1954, che coinvolse l’allora premier Eisaku Sato. Che anziché essere arrestato, come da richiesta iniziale della magistratuta, non solo venne prosciolto, ma dopo qualche anno insignito del prestigioso Premio Niobel per la Pace. Ma sono pochi i politici, inclusi i premier, che non siano stati “toccati” dalla giustizia, anche se pochi, come il “povero” Kakuei Tanaka (inviso agli USA) sono stati di fatto, e sia pure per pochi giorni, arrestati [nota 5].
Un potere enorme, quello dei pubblici ministeri, che si fonda sul controverso principio della discrezionalità (leggi: arbitrarietà) dell’azione penale, principio peraltro presente – anche se spesso limitato a un certo tipo di reati – in molti altri ordinamente giuridici e di cui si è discusso anche in Italia, ai trempi del Guardiasigilli Claudio Martelli.
La discrezionalità dell’azione penale è un istituto che conta su molti sostenitori. Una sua, magari limitata, introduzione, consentirebbe di eliminare migliaia di antichi e inutili processi, alleggerire il carico dei giudici e consentire una gestione più efficace e forse anche più equa della giustizia.
Funziona così: se un tizio viene fermato per un dato reato, e mostra segni di “collaborazione” (che non prevede solo la confessione, ma anche una sorta di pentimento, di non reiterazione e magari l’impegno, se il reato ha provocato danni civili, a risarcirli) il giudice può (ma non deve) archiviare il caso. Se poi accetta di dare un “aiutino” ai giudici, denunciando altre persone, o rivelando fatti non ancora noti all’accusa, l’accordo è fatto.
Negli Usa si chiama plea bargaining,ma non si applica a tutti i reati e soprattutto non prevede assoluta impunità. Uno viene arrestato e accusato di una serie di crimini, alcuni dei quali più difficili da dimostrare, e si mette d’accordo per dichiararsi colpevole dei reati minori. Verrà condannato, ma a pene ridotte, ed eviterà di essere incriminato per i reati più gravi.
È quanto succede sempre nei film americani. In Giappone, no: la “collaborazione”, specie se alla confessione si aggiunge la delazione, viene retribuita con un bonus pieno: non luogo a procedere, archiviazione, si direbbe da noi. Il delinquente, ancorchè reo confesso, è rimesso in libertà. La fedina penale è pulita, ma la polizia, nei suoi archivi, lo “ricorda”. E se viene ripescato a delinquere (ma non è detto, c’è discrezionalità anche su eventuali recidive) è certamente rinviato a giudizio e dunque (vedremo più avanti perché…) condannato.
È chiaro a tutti che una soluzione del genere potrebbe essere efficace in molti casi, ma non in tutti. Specie in quelli dove è alto il pericolo di contaminazione politica (come è certamente il caso Ghosn, nato, vale la pena ricordarlo, da un “contatto” con la magistratura – chiesto e ottenuto – di alcuni dirigenti Nissan, preoccupati del loro futuro dopo l’oramai imminente fusione con la Renault). In Giappone è applicabile invece in ogni caso: lo sancisce chiaramente l’art 248 del codice di procedura penale, dedicato appunto alla definizione e alla regolamentazione del kisobengishugi. Un istituto del quale in Giappone si fa uso ricorrente, e che consente di “drogare” le statistiche sul crimine. Quando leggete sui media che in Giappone oltre il novantanove per cento dei procedimenti penali termina con una condanna dovete tener presente che solo il ventidue per cento degli “indagati” viene rinviato a giudizio. E che la fase dibattimentale è quasi sempre un teatrino, dove tutto è già deciso, una sorta di “legittimazione formale” di una sentenza già scritta, non un luogo dove, ci insegnano all’università, la Corte deve formarsi, attraverso la dialettica accusa/difesa e la valutazione delle prove, il suo libero convincimento sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato.
Una sentenza – e qui è l’altro, pressochè sconosciuto e sociogiuridicamente inquietante aspetto – che a questo punto non è emessa da un organo giurisdizionale, da un giudice, ma dalla polizia. Al termine della lunga, come abbiamo visto, e arbitrariamente gestita fase istruttoria, la polizia redige infatti un verbale, “chiedendo” all’indagato di firmarlo. La maggior parte firma, nella speranza di essere perdonato. E così avviene. Il verbale finisce con una “raccomandazione”: rinvio a giudizio, non luogo a procedere/archiviazione. La percentuale con la quale i pubblici ministeri, ed alla fine il giudice istruttore accettano questa “raccomandazione” è ancora maggiore della precedente: si parla del 99,9 per cento. Makoto Endo, uno dei più famosi e agguerriti avvocati giapponesi, fervente buddhista e disposto a difendere sempre chiunque e comunque, presso il cui studio ho avuto il privilegio di fare un breve tirocinio, tanti anni fa mi disse:
Siamo dei barbari. Il Giappone è uno stato di polizia. In nessun altro paese industrializzato la polizia è così potente e la magistratura così debole.
Questo avveniva quarant’anni fa. Ero appena arrivato in Giappone, giovane procuratore legale, con una borsa di studio, per studiare il sistema della discrezionalità dell’azione penale, che all’epoca godeva di qualche simpatia, in Italia.
Oggi la situazione è identica, se non peggiore. Speriamo che il caso Ghosn lasci per un po’ i fari accesi. E che il Giappone si ravveda.

POST SCRIPTUM
Il sistema penale giapponese non prevede il processo in contumacia. Se Ghosn non rientrerà spontaneamente in Giappone o non vi sarà in qualche modo estradato (cosa molto improbabile, oltre al Libano – che si è sempre rifiutato di “restituire” al Giappone il terrorista dell’Armata Rossa Kozo Okamoto, autore del massacro all’aeroporto di Tel Aviv nel 1975 e Kunio Bando, altro leader dell’Armata Rossa lì rifugiatosi dopo essere stato scarcerato in Giappone a seguito di un controverso scambio di ostaggi dopo il sequestro di Kuala Lumpur, nel 1975, nella valle della Bekaa – anche la Francia, di cui Ghosn è cittadino, ha detto che non lo farà) il processo non potrà aver luogo. Il che farebbe certamente piacere ai dirigenti Nissan che a suo tempo hanno denunciato Ghosn: in questo modo l’avrebbero comunque tolto di mezzo, senza pagare il prezzo di dover mettere in piazza le nefandezze interne. Qualcuno dice che tra i “complici” della fuga ci possano essere anche alcune personalità politiche – o membri della magistratura – che hanno preferito evitare, alla vigilia delle Olimpiadi (il pubblico dibattimento doveva iniziare in aprile) un processo così complicato, delicato ed imbarazzante. Se non fosse che, dopo quello che ha fatto e ha dichiarato sinora – e che presumibilmente reitererà nei prossimi giorni – Ghosn rischia di finire i suoi giorni in una cella di isolamento, un altro dispetto all’Impero, dopo averlo beffato con la sua fuga, ci starebbe. Anche perché i suoi legali, tra i pochi che possono vantare alcune importanti assoluzioni, sono convinti che la sua innocenza non sarebbe difficile da provare.

Qui lo speciale timeline realizzato da TV Asahi. Anche in inglese. Ottimo per capire come si è sviluppata la vicenda, dal primo arresto a oggi.
Appello per l’eliminazione della ”giustizia dell’ostaggio”
Protezione di tutte le persone sotto ogni forma di detenzione o carcerazione

[1] Il caso Ghosn, ancorché il più famoso, non è certo l’unico. La carcerazione “progressiva” e la pratica del “riarresto” riguarda ben il 35 per cento delle indagini preliminari. Uno dei casi più simili a quello di Ghosn, per le sue componenti “politiche” è quello di Hiroji Yamashiro, l’attivista di Okinawa arrestato per tre volte di seguito e tenuto in isolamento, prima di formalizzare le accuse, per ben 159 giorni. Anche lui, come Ghosn, non ha “collaborato”. Nel senso che ha costantemente rivendicato il diritto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Il suo caso è stato denunciato al UN Working group on Arbitrary Detention che ha già espresso un suo primo giudizio, purtroppo non vincolante, contro il governo giapponese.
[2] Il caso più recente e famoso è quello dell’ex pugile Iwao Hakamada, scarcerato nel 2014 dopo ben 48 anni nel braccio della morte. Prima di lui, anche Sakae Menda, restato nel braccio della morte 33 anni, era stato riconosciuto innocente. Ma il numero di enzai è altissimo, anche se solo negli ultimi anni cominciano a emergere, grazie al lavoro dei media e di varie associazioni attive nel settore.
Di recente, la TV Asahi ha dedicato un lungo reportage all’argomento, in lingua giapponese. Qui un articolo in inglese.
Per un approfondimento più generale sul tema, cfr. l’ottimo saggio di David Johnson.
[3] Contrariamente a quanto pubblicamente affermato da Shinzo Abe (mascherato per l’occasione da Super Mario) a Buenos Aires, in occasione della serata decisiva per l’assegnazione ufficiale delle Olimpiadi, l’emergenza nucleare a Fukushima è tutt’altro che risolta. A quasi dieci anni dall’incidente, tre reattori sono ancora, di fatto in melt-through. Basterebbe un altro terremoto, anche d’intensità molto minore di quello dell’11 marzo 2011, per provocare nuove e più gravi emergenze. E neanche l’impegno a sfruttare questa grande occasione per “rilanciare l’economia del Tohoku”, la regione maggiormente colpita dallo tsunami, corrisponde alla realtà: la regione ospiterà solo un paio di eventi minori, e tra mille difficoltà logistiche e polemiche con le varie squadre. Chiedere – e insistere per ottenere le Olimpiadi della “ricostruzione” – non è stato, a mio parere, un gesto di grande apertura, bensì di arroganza e irresponsabilità. E la ricostruzione non riguarderà certo il povero Tohoku, che continuerà ad essere abbandonato a sé stesso, quanto le varie speculazioni, già in atto da anni, che andranno ad arricchire ulteriormente il già potente l’impero del zenikon (settore edilizio/lavori pubblici).
[4] Negli ultimi anni, qualcosa si sta muovendo. E ai vecchi, storici “battitori liberi”, come il compianto Makoto Endo, che per anni s’era battuto per la non punibilità (in quanto infermo di mente) di Shoko Asahara, condannato a morte per l’attentato al gas sarin nella metropolitana nel 1995, Yuichi Kaido e pochi altri “anziani”, sta nascendo una nuova classe di giovani e preparati avvocati, molti dei quali con studi all’estero, disponibili e determinati a “sfidare” il sistema.
[5] Nel giugno 1954 l’allora leader del partito liberaldemocratico Eisaku Sato, successivamente divenuto premier e insignito del Premio Nobel per la Pace, venne indagato all’interno di uno dei più gravi scandali del dopoguerra: quello che riguardava la corruzione del sistema dei cantieri navali. Dopo aver a lungo ponderato i pro e i contro, l’allora procuratore capo spiccò il mandato di cattura, avvertendo ovviamente il ministro. Questi lo convocò nottetempo a casa sua, “suggerendogli”, possiamo immaginare come, di “ripensarci”. Il procuratore, amareggiato e sconvolto (l’ha scritto lui, nelle sue memorie) obbedì. Revocò il mandato di cattura e il giorno dopo si dimisem per poi ritirarsi a vita privata in un tempio. Qualcuno sostiene che una cosa del genere potrebbe succedere anche oggi.

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