S. S. Lazio. Centovent’anni nel nome di Olimpia

Nell’anno in cui ricorre un anniversario significativo, il club romano va dritto verso traguardi inattesi, anche al di là dei propri limiti.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Spesso ho avuto modo, specie negli ultimi anni, di polemizzare con le frange peggiori della tifoseria biancoceleste. Non ne ho mai accettato, infatti i toni e i modi, i cori fascisti e le espressioni manifestamente razziste che spesso infestano le curve del nostro paese, non certo solo quella laziale. Tuttavia, la Lazio non è solo questo e non sarebbe giusto sminuire il ruolo, la funzione storica, la complessità e la grandezza.

Oltre al calcio, la polisportiva biancoceleste si è sempre dedicata al culto dello sport in tutte le sue forme, sul modello delle due grandi di Spagna, Real Madrid e Barcellona, e costituendo, da questo punto di vista, un modello poco diffuso in Italia ma senz’altro affascinante.

Centovent’anni, dicevamo, nel nome dell’aquila in volo e del sacro fuoco di Olimpia, con colori tenui, cerulei, moderati, in perfetta sintonia con il ceto sociale di riferimento di una squadra nata in Prati e che ha sempre avuto nella Roma borghese il proprio zoccolo duro. Eppure, a morire per un razzo esploso dalla curva giallorossa, il 28 ottobre 1979, fu un meccanico di trentatré anni, Vincenzo Paparelli, che era allo stadio con la moglie e fu colpito in pieno dalla furia di un calcio che già allora stava degenerando, prima che la tragedia dell’Heysel ne sancisce la definitiva mutazione genetica in peggio. Ho voluto citare questo peculiare episodio della lunga vicenda umana e sportiva del club per far comprendere come nessun universo sia mai bianco o nero e come sia sempre opportuno astenersi da ogni sorta di manicheismo. I laziali non sono fascisti ed è bene ribadirlo, anche se la presa di distanza da certi cori e determinate espressioni dovrebbe essere, a parer mio, più aspra e, soprattutto, continua.

Non ha vinto molto, la Lazio ultracentenaria, eppure è incancellabile il ricordo dello scudetto del ’74, conquistato il 12 maggio, lo stesso giorno in cui l’Italia difendeva alle urne il divorzio, e frutto della bravura di un allenatore, Maestrelli, che aveva fatto la Resistenza e si trovava a dover gestire una banda di scalmanati che si divertiva a giocare con le pistole ed era divisa in due clan arcinemici fra loro. Pulici e i suoi da una parte, Chinaglia e i suoi dall’altra, in mezzo un mucchio di scarti altrui che quell’allenatore-papà seppe amalgamare, tollerando che si picchiassero e si detestassi in allenamento ma pretendo, in cambio, la massima coesione e collaborazione durante le partite. Senza Maestrelli quello storico scudetto sarebbe stato impensabile, specie se si considera che razza di corazzata fosse la Juve di Wycpálek di quali risorse, tecniche ed economiche, disponesse. Ma i ragazzi del presidente Lenzini non si diedero per vinti, ci misero l’anima e ottennero ciò che nessuno avrebbe mai creduto potessero ottenere: un titolo che sarebbe stato bissato ventisei anni dopo, ancora a spese dei bianconeri, e mai più ripetuto nei venti anni che ci separano da quell’uragano che nel 2000, a Perugia, fece affondare i sogni di gloria di Madama e consegnò al gruppo di Eriksson un tricolore che a marzo sembrava irrimediabilmente perduto.

Gli anni del primo scudetto laziale sono i Settanta, come detto, gli anni della Roma nera, della violenza e del terrore, e non è un caso che la morte prematura di Maestrelli, sconfitto da un cancro a soli cinquantaquattro anni, abbia coinciso con la fine di quell’utopia realizzata che sarebbe poi definitivamente annegata nel sangue di un ragazzo di ventinove anni. Maestrelli, infatti, se ne andò il 2 dicembre 1976; un mese e mezzo dopo Luciano Re Cecconi, valente centrocampista dal carattere eccentrico, simulò per scherzo una rapina a un gioielliere che ne aveva già suite diverse e perse la vita. Era il 18 gennaio 1977. In quarantasette giorni la Lazio, di fatto, non esisteva più. Addio alla gloriosa compagnia dei Chinaglia, dei Wilson, dei Pulici, dei Martini, dei D’Amico, dei Garlaschelli e di altri personaggi venuti dal nulla o quasi che capirono, e questa fu la maestria del loro tecnico, di non essere, forse eccetto Chinaglia, dei fuoriclasse ma di avere una fame, una rabbia e un desiderio di spaccare il mondo che le opulente fuoriserie torinesi, per una stagione, avevano smarrito.

La Lazio cragnottiana, la seconda grande Lazio vincente, al di là dei risvolti giudiziari del suo presidente, era figlia di tutt’altra epoca. Nata post-Muro, in piena globalizzazione e al termine di un decennio tragico, gli anni Ottanta, in cui la squadra aveva rischiato addirittura la C (memorabile l’anno del -9 in Serie B, con tanto di spareggio finale contro il Campobasso), venne allestita con fior di campioni, da Nedved a Vieri, da Verón a Nesta, e messa in campo per vincere con signorile eleganza, garbo e disinvoltura. Giacca e cravatta, altro che pistole! E giù trofei: la Coppa delle Coppe nel maggio del ’99, la Supercoppe europea pochi mesi dopo, battendo a Montecarlo addirittura il magno United di Sir Alex Ferguson, il già menzionato scudetto del 2000, rimontando nove punti sulla Juve e battendola a Torino nella sfida diretta del 1° aprile, la Coppa Italia e la Supercoppa italiana di un anno giubilare particolarmente lieto per i colori biancocelesti, prima che iniziasse il declino, che Cragnotti cadesse in disgrazia e che un nuovo presidente si affacciasse alla ribalta. Parliamo, ovviamente, di Claudio Lotito, uno che ama infarcire ogni discorso di citazioni latine, non propriamente simpatico, non particolarmente disinvolto ma, innegabilmente, uno che capisce di calcio, sa far quadrare i bilanci e sa il fatto suo, al punto che ogni anno va a pescare in giro per il mondo qualche talento sconosciuto che poi le grandi provano a strappargli, peraltro spesso non riuscendoci.

A ciò aggiungiamo il caso, che ha voluto che nell’estate del 2016 “el loco” Bielsa, in uno dei pochi momenti di scarsa lucidità di Lotito, declinasse la sua offerta di accomodarsi in panchina, e così un tecnico chiamato in causa per disperazione sul finire della stagione precedente, Simone Inzaghi, ha avuto la possibilità, in questi anni, di dimostrare a tutti di cosa sia capace, conducendo la Lazio a risultati straordinari e rivelandosi non solo l’allievo perfetto di Eriksson, meglio anche degli ex compagni Mancini e Mihajlović, ma anche il probabile successore di Massimiliano Allegri.

Una Lazio assatanata, la sua, capace di battere due volte la Juve nel giro di quindici giorni e di strappare, in due anni ben due Supercoppe italiane, a dimostrazione di un coraggio, di una furia agonistica e di un furore complessivo davvero invidiabili.

Del resto, Inzaghi ha sempre avuto il coltello fra i denti, anche per affrancarsi dal ben più noto fratello Pippo, oggettivamente più forte in area di rigore ma meno abile in panchina. Inzaghino, al contrario, in panca ha dimostrato di avere più testa, di essere uno scacchista più abile, di saper aspettare il proprio turno e di poter colpire alla grande gli avversari. Pippo era un rapace, Simone è uno stratega.

E la Lazio va, nell’anno in cui ricorre un anniversario significativo, dritta verso traguardi inattesi, certa di poter cantare comunque vittoria per essersi saputa spingere, con la dovuta sfrontatezza, al di là dei propri limiti. 

S. S. Lazio. Centovent’anni nel nome di Olimpia ultima modifica: 2020-01-09T23:20:07+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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