Lavorare tutti, guadagnare meno. Sembra questo lo slogan della nuova marca di capitalismo che, come commenta Aldo Bonomi, il sociologo che analizza i cosiddetti segnali deboli dei territori, rovescia l’ambizione del lavorate tutti, lavorare meno del crepuscolo della centralità operaia degli anni Ottanta. Ancora una volta, mentre si celebra l’ennesimo suo funerale, il capitalismo s’alza e cammina, magari barcollando, ma cammina e sorprende i suoi becchini.
I dati dell’Istat di questi giorni sulla congiuntura economica manderebbero al manicomio più di un economista. Siamo dinanzi al disaccoppiamento, come dicono quelli che sanno d’economia, delle funzioni primarie: aumenta l’occupazione mentre diminuisce il Pil, aumentano i contratti a tempo indeterminato ma calano le ore lavorate, mentre riprende la produttività.
Siamo nel gorgo dell’apparente incongruenza, dove impazziscono le bussole e si strappano i manuali. Sembrerebbe che, per sopperire all’accartocciarsi del sistema manifatturiero, il capitalismo diventi compassionevole e sostituisca l’impresa con il terzo settore e il consumo con l’assistenza.
In realtà solo ora stiamo registrando una trasformazione che agiva da tempo.
Prima, negli anni Settanta e Ottanta, dinanzi al miracolo dei distretti industriali, dove un pulviscolo di piccole aziende produceva volumi imponenti di fatturato, si diceva che il calabrone, che stando alle leggi biologiche non potrebbe farlo, volava comunque; oggi, dinanzi a questi numeri si deve constatare che la ragnatela regge grandi pesi e strappi.
Più che la rete, che congiunge, punto a punto, in un ordine geometrico, è infatti l’opera di un infaticabile ragno che tesse e connette caoticamente, una densità di punti fra loro, a raffigurare la nuova dinamica economica.
È ancora Aldo Bonomi, con le sue ricerche sulle intersezioni fra luoghi e flussi, forse il modello econometrico più sensibile ed efficace per fotografare il ragno in azione, a dirci che sta mutando radicalmente l’anima più che la faccia di un capitalismo che non esita a rovesciare le ambizioni del movimento del lavoro, spezzettando l’occupazione, modificando profili e ruoli dei dipendenti nel ciclo attivo, per eliminare del tutto il residuo di attrito che poteva condizionare le nuove forme che Mariana Mazzucato chiama di “estrazione parassitaria di valore”.

Se infatti, seguendo gli scenari tracciati dai dati Istat, osserviamo il campo di questa strana occupazione che cresce senza produrre valore, vediamo che da una parte diventa sempre più rarefatto il tessuto industriale tradizionale: 168 tavoli di crisi aperti al ministero dello sviluppo economico ci dicono che siamo davvero ad una desertificazione delle catene industriali.
Dall’altro vediamo un pulviscolo di mini imprese che avvolgono – come i pesci pilota i grandi cetacei oppure gli uccellini pulitori, che danzano sulla schiena degli ippopotami o dei coccodrilli, che s’allungano nel territorio con ragnatele, appunto, che congiungono servizi e produzioni immateriali: come le aree virtuali della moda, che collegano quartieri di Milano, località delle Marche e comuni vesuviani, oppure del “food”, che condensano arcipelaghi di coltivazioni e produzioni artigianali che la distribuzione impreziosisce con una narrazione sofisticata.
Torino, con la sua transizione dalla Fiat, da settantaseimila a settemila occupati a Mirafiori, agli attuali distretti di tlc e di “slow food”, è forse la capitale di questa transizione. Ma anche le aree a ridosso di Milano, come Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, passata da trentottomila addetti, concentrati in cinque grandi fabbriche metalmeccaniche, alla stessa cifra polverizzata in aziende che hanno in media non più di tre dipendenti l’una.
Ma lo stesso fenomeno lo ritroviamo, a macchia di leopardo, nell’intera pianura padana e lungo la dorsale appenninica e insulare.

Più si scende più diventa centrale la componente dei servizi alla persona, dall’assistenza al turismo, all’intrattenimento, alla formazione. E la ragnatela diventa più esile e sbrindellata, ma non cede, anche per una tolleranza maggiore da parte dei sistemi di controllo, che autorizzano un tasso di evasione fiscale maggiore o di lavoro nero, o ancora di fatturazioni creative. Ma tutto questo non sembra frenare il ragno, semmai rende più flessibile il ramo su cui lavora.
Certo in questa flessibilità poi s’infiltrano le forme di malavita e di inquinamento mafioso, che distorcono i flussi finanziari, inibendo le imprenditorialità migliori.
Il punto però è capire se questo scenario sia, come sembra farci intendere qualcuno – come ad esempio la Repubblica, che addirittura ha rimosso questi dati complessivi, per celebrare solo la crisi della grande industria – l’effetto di un bombardamento; oppure, paradossalmente, come il commento di Dario Di Vico sul Corriere della sera esplicitamente fa intendere, non siamo dinanzi a uno spazio di ipermaturità del sistema, a una prefigurazione di processi che non sono lontani dal manifestarsi persino nell’Europa che produce.
Mi sembra più interessante questa seconda ipotesi, che ha una sua dignità storica, se pensiamo a cosa fu proprio il modello italiano in quel fugace miracolo nel miracolo che registrammo nei primissimi anni Sessanta, diciamo dal ’62 al ’64. Quando ci trovammo, quasi a nostra insaputa, al vertice dei settori tecnologici trainanti, come quello informatico (Olivetti), energetico (Eni), elettronucleare (Cnen), nella genetica (Buzzati Traverso), nella chimica fine (il Nobel di Giulio Natta) e nel settore aerospaziale (comandante Broglio). Era quello il capitalismo soft, come lo definisce appunto Bonomi, in opposizione al capitalismo hard, propugnato dalla Fiat di Valletta.
Sappiamo tutti come è andata a finire. In pochi mesi, attorno alla fine del 1964, sono sbaragliati, contemporaneamente, tutti questi fenomeni innovativi, e insieme a un rattrappirsi del corso riformatore che il nuovo centro sinistra doveva inaugurare, il paese s’immerse in un’aura di mediocre galleggiamento da cui non è più uscito.
Ora la convergenza di fenomeni promettenti (l’innovazione computazionale che smaterializza i sistemi industriali e la grande ondata di nomadismo turistico che privilegia le aree esperienziali e narrative quali le nostre città) e negativi (la curva demografica che riduce la nostra natalità rendendo centrali le figure più anziane che necessitano cure assidue), torna attuale e inevitabile una strategia di capitalismo soft, dove il capitale umano è valore strategico proprio per la sua intraprendenza relazionale e narrativa. Una svolta che non può essere lasciata sola alla spontaneità di un mercato che spinge per stressare in termini speculativi tutte le opportunità.
E infatti il lavorare tutti, lavorare meno che in Gran Bretagna e Germania è tornato al centro del dibattito politico, da noi diventa, appunto, lavorare tutti e guadagnare meno. S’incanagliscono le relazioni aziendali e le prospettive occupazionali. Ma soprattutto s’inquina l’equilibrio istituzionale e politico.
Non a caso le nuove forme di capitalismo soft invece di rendere più sereno e aperto il sistema di vita lo rendono più estremo, perché acuiscono il senso di solitudine e debolezza d’ogni singolo lavoratore. Basta osservare quanto sta accadendo in tutto l’Occidente.
Cosa, se non una rarefazione dei processi produttivi manifatturieri, potrebbe spiegare quell’ondata di populismo diffuso e antielitario che sta ridisegnando gli equilibri istituzionali in tutto il mondo?
Cosa se non l’emergere di figure sociali ibride, che lavorano poco, guadagnano meno, e cambiano occupazione spesso, ventre molle di una società senza identità e conflitti, possono spiegare l’emergere di leadership occasionali e semplificate, che si reggono sull’impeto di uno sberleffo o di una minaccia? E ancora: cosa potrebbe integrarsi con l’automatizzazione spinta delle attività produttive, se non il rigonfiamento di servizi accessori che riempiono gli spazi urbani che le fabbriche liberano, dalla moda, alle smart city, alle attività di sopporto del turismo e della ricreazione?
Il buco nero che rende i processi d’alleggerimento del lavoro, e persino la loro diffusione, un motivo di rancore e rabbia sociale, causa di un’insoddisfazione ma soprattutto di un’inspiegabile invidia per il proprio passato, è proprio il senso di impotenza. Questi processi, persino quando portano reddito e protezione, seppur in scala minore, lo fanno solo a condizione che non vi sia alcun attrito sociale, alcuna forma di resistenza e negoziazione.

Manca in sostanza il conflitto per dare luce al paesaggio delle forme indirette di produzione. Un conflitto che non può più essere di pertinenza diretta ed esclusiva degli addetti, dei dipendenti, che non si pensano più come lavoratori, ma come occasionali e momentanei occupati, in vista di soluzioni migliori.
Dal ricercatore universitario al precario dell’informazione, allo stivatore di Amazon e di Ikea, lo sfruttamento gli appare un destino sociale generale, non una sconfitta nello scontro con il proprio padrone. È la società che crea subalternità, non il contratto di lavoro. Lo stesso vale per le imprese o i commercianti che devono subire le vessazioni delle piattaforme, o dei sistemi automatizzati di profilazione: è una maledizione epocale, non una sopraffazione da rimuovere.
In questo quadro non è difficile immaginare come il processo d’automazione delle attività, dalle fabbriche ma anche gli uffici, gli ospedali, le redazioni e i tribunali, potrà procedere geometricamente, senza responsabilità sociale, se non una diversa divisione dei larghissimi profitti che dovranno anche pagare servizi e assistenza per le figure che verranno marginalizzate.
Stiamo andando verso una società degli iloti? Diciamo che siamo in una società di calcolanti e calcolati, dove i redditi diventano forme di mascheramento dell’estrazione di valore medianti dati. In questa dinamica, se vogliamo tornare al dualismo fra Olivetti e Valletta, ci sembra di straordinaria attualità proprio la lezione del visionario inventore del Programma 101, che parlava di comunità come punto d’intreccio fra territorio, cultura e produzione.
Oggi comunità, ossia città, di soggetto metropolitano, che articola e democratizza il concetto di stato, è forse il motore di una negoziabilità che possa limitare lo strapotere speculativo degli estrattori di valori e governare socialmente il processo di automazione, intendendolo come fattore di liberazione dalla coercizione del lavoro materiale e come ridistribuzione delle funzioni sociali di relazione umana, rendendo le tecnologie computazionali, proprio come diceva Olivetti, tecnologie di libertà.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
bell’articolo, grazie. Ho un dubbio su questo passaggio: “In questo quadro non è difficile immaginare come il processo d’automazione delle attività, dalle fabbriche ma anche gli uffici, gli ospedali, le redazioni e i tribunali, potrà procedere geometricamente, senza responsabilità sociale, se non una diversa divisione dei larghissimi profitti che dovranno anche pagare servizi e assistenza per le figure che verranno marginalizzate.”
non mi è chiaro se ti riferisca alla tassazione dei profitti del sistema 4.0 e alla sua partecipazione alla spesa sociale o invece ad altro che non colgo. grazie!