Con una vittoria di proporzioni straordinarie, la presidente di Taiwan Tsai Ying-wen, sostenitrice della democrazia e aspramente critica verso Pechino, ha ottenuto un secondo mandato di quattro anni nelle elezioni che si sono svolte sull’isola sabato 11 gennaio.
Nonostante una massiccia campagna di disinformazione e di intimidazione, il Partito Comunista Cinese (PCC) ha subito una seconda, severa sconfitta nel giro di pochi mesi. Dopo che gli elettori di Hong Kong, in novembre, hanno assegnato ai democratici 17 dei 18 “district council” del territorio, è venuto lo schiaffo dei taiwanesi. Come a Hong Kong, anche a Taiwan il risultato è stato determinato da un’alta partecipazione al voto (oltre il 74 per cento degli aventi diritto, il massimo storico per l’isola) e dal voto giovanile: Tsai, che appartiene al Democratic Progressive Party (DPP), ha avuto oltre otto milioni di voti (il 57,1 per cento) contro i cinque del suo rivale filo-Pechino Han Kuo-yu (38,6) del Kuomintang (o Partito Nazionalista). Risultati che indicano con chiarezza che il futuro riserva seri problemi ai governanti della Cina.
Non solo Pechino ha perso la battaglia per “il cuore e la mente” dei “compatrioti” di Taiwan, ma le sue abituali minacce di un intervento militare hanno perso credibilità, dato che dovrebbe scontrarsi certamente con gli USA e probabilmente anche con il Giappone, mentre l’Europa – che in ottobre ha assegnato il prestigioso Premio Sahkarov al dissidente uighuro Ilham Tohti, condannato da Pechino all’ergastolo per reati d’ opinione – sarebbe nel migliore dei casi (per Pechino) neutrale. Sia gli USA che l’Unione Europea hanno inviato a Tsai messaggi di congratulazioni. Nulla per ora da Tokyo, ma l’opinione pubblica si è chiaramente schierata con i democratici taiwanesi.
È matura una riapertura della questione di Taiwan che cambi una volta per tutte le carte in tavola, sfuggendo al ricatto cinese: o cedimento (di Taiwan e dei suoi alleati) o guerra.

Taiwan è un’isola di 36mila chilometri quadrati, con 23 milioni di abitanti e una fiorente industria ad alta tecnologia che ne fa un attore fondamentale del commercio internazionale. Inoltre, si trova in una posizione di grande rilevanza strategica nell’Oceano Pacifico. È stata una delle “tigri” dell’industrializzazione dell’Asia e il suo contributo allo sviluppo della Cina è stato fondamentale.
Al contrario di quanto afferma la propaganda cinese, Taiwan non è mai stata parte della Cina. A partire dalla fine del XVII secolo alcune porzioni dell’isola sono state controllate, in vari periodi di varia durata, dalla dinastia cinese dei Qing. Il grosso dell’isola è rimasta sotto i governi di potentati locali.
Nel 1895 i Qing, sconfitti in guerra dal Giappone, hanno ceduto l’isola ai vincitori. Solo alla fine della Seconda Guerra Mondiale Taiwan è tornata sotto la sovranità della Repubblica di Cina governata del Kuomintang, che era succeduta all’Impero dei Qing. All’interno del movimento repubblicano e nazionalista lo status che Taiwan avrebbe dovuto assumere nella nuova Cina non fu mai definito con chiarezza. I dirigenti del Kuomintang e del Partito Comunista mantennero una sostanziale ambiguità sul problema. Nessuno disse mai con una chiarezza definitiva se sarebbe stata un “paese fratello” o semplicemente una provincia come le altre. Sull’isola, intanto, il mondo politico e gli intellettuali erano divisi tra i sostenitori dell’annessione, quelli che caldeggiavano l’indipendenza e addirittura una corrente che sperava in un’annessione al Giappone.
La prova che “i compatrioti” di Taiwan erano in maggioranza contrari a cadere sotto il governo di Pechino si ebbe nel 1947, quando il Kuomintang riuscì a prendere il controllo dell’isola solo con un massacro nel quale furono uccise migliaia di persone (le valutazioni variano tra le cinque e le 28mila, cifre spaventose) conosciuto come “228”, perché si verificò il 28 febbraio. Non solo: il massacro fu l’ inizio del “terrore bianco”, nel corso del quale altre migliaia di persone finirono in galera e che fu abbandonato solo nel 1987, quando fu revocata la legge marziale. Questa è l’origine della rivendicazione di Pechino secondo la quale Taiwan è “parte integrante” del paese.
Negli anni seguenti, scomparso il leader del Kuomintang e dittatore Chiang Kai-shek, Taiwan si è avviata gradualmente sulla strada della democrazia, che fu raggiunta in pieno nel 1996, con le prime elezioni libere. Da allora, l’isola è diventata la sede di una democrazia esemplare, con l’alternanza al governo dello stesso Kuomintang e del DPP, che si basa sull’affermazione di un’“identità taiwanese” distinta da quella cinese e che non rivendica apertamente l’indipendenza per ragioni di opportunità diplomatica.

Come il PCC, il Kuomintang mantiene viva l’assurda pretesa di essere il governo di “tutta la Cina”. Questa pretesa gli fu riconosciuta dall’ONU ai tempi della Guerra Fredda, quando la scelta era tra il governo di Chiang e quello comunista che Mao Zedong aveva instaurato in Cina e che allora era fedele all’URSS di Josif Stalin. Dopo la distensione con la Cina in funzione anti-sovietica lanciata dal presidente americano Richard Nixon e dal suo segretario di Stato Henry Kissinger negli anni Settanta, il seggio della Cina all’ONU fu assegnato a Pechino. A Taipei, la capitale di Taiwan, rimasero degli “uffici commerciali” degli USA e dei paesi europei, Italia compresa, che in realtà svolgono tutte le funzioni delle ambasciate.
Seconda Guerra Mondiale, massacro del 228, Guerra Fredda: queste sono le basi dell’attuale situazione. Gran parte degli elettori taiwanesi non erano nati quando si verificarono questi drammi, con i quali la Taiwan di oggi non ha nulla a che vedere. Come ha scritto sul Japan Times Shaun O’Dwyer, professore di lingue e cultura all’Università di Kyushu:
…Taiwan ha abbandonato da tempo il suo ruolo di pedina autocratica nella geopolitica della Guerra Fredda. Sotto il governo di Tsai ha conquistato il diritto di essere considerata una delle democrazie liberali più progressive. È ai primi posti per le libertà politiche, mentre la sua società civile consente diverse affiliazioni religiose, ha sindacati robusti, attivisti per i lavoratori immigrati, numerose organizzazioni femministe e un movimento per i diritti di gay e lesbiche che ha ottenuto il diritto al matrimonio.
In breve – continua il professore – la cultura politica di Taiwan sostiene i diritti e le libertà che sono sotto attacco in altre democrazie liberali e che sono sparite del tutto in Cina, dove i cittadini di Hong Kong stanno conducendo una lotta disperata per difendere le loro…
Senza reclamare misure drastiche che potrebbero portare alla guerra, si potrebbe cominciare dal contenere le pretese di Pechino, alle quali finora tutti o quasi hanno aderito acriticamente, e nella maggior parte dei casi senza conoscere la situazione (ricordo un importante politico italiano che paragonò la situazione di Taiwan a quella della Sicilia del dopoguerra…).
Per esempio, Taiwan potrebbe essere ammessa ufficialmente con sue rappresentanze nelle istituzioni internazionali e/o partecipare alle manifestazioni sportive internazionali col suo nome e non, come avviene oggi, con fantasiose e insignificanti denominazioni come quella di “Chinese Taipei”. Con prudenza ed evitando le provocazioni, il momento di abbandonare le ipocrisie e di prendere atto della realtà, è arrivato.

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