L’Europa è assente. L’Europa non ha una politica estera. L’Europa non conta nulla nelle crisi del Medio Oriente. L’Europa è sotto il ricatto di potenze “inaffidabili” come Russia e Turchia, di leader politici illiberali come Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan. Sicuramente Putin ed Erdoğan non sono esponenti del mondo democratico occidentale, ma forse quel mantra sull’inesistenza dell’Europa a livello di politica internazionale, che vede assieme in Italia nazional-sovranisti e europeisti un po’ troppo “convenzionali”, deve essere guardato con una certa prudenza.
Proprio in questi giorni la nazione europea più importante ha dispiegato una discreta tela geopolitica con la missione a Mosca della cancelliera Angela Merkel. Berlino e Parigi stanno, da qualche mese, coinvolgendo Mosca in un quadro di rapporti che vanno dal Mar Nero, l’Ucraina, al Mediterraneo e al Golfo, Siria e Iran. E stanno cercando di portare su binari politici multilaterali sia le crisi ucraine, con il cosiddetto “formato Normandia”, sia le crisi mediorientali, con il cosiddetto “processo di Berlino” per la Libia.
Sia Merkel sia Macron si “stanno dando da fare”: l’Italia almeno in questa fase sembra essere in sintonia con le cancellerie d’Europa, probabilmente grazie all’opera fondamentale del Quirinale. Insomma quello che luccica oggi non è solo oro falso.
Ma per capire davvero l’effettiva posizione dell’Europa dovremo, forse, cercare di guardare la regione che ci ostiniamo a chiamare “Medio Oriente” con lenti nuove.

Quello che chiamiamo Medio Oriente infatti non è altro che un’invenzione geopolitica e storica dell’Impero britannico. Le entità geopolitiche e politiche che oggi conosciamo in quella parte del mondo presero la loro forma fra l’Ottocento e il Novecento con un obbiettivo preciso: garantire le rotte dell’Impero britannico verso il gioiello della Corona di Sua Maestà, l’India. L’India era la colonia chiave dell’Impero, per lo sbocco per le merci inglesi, per il suo surplus economico, per lo stesso reclutamento dell’esercito britannico. Sudafrica e India, entrambe sull’Oceano indiano, erano le colonie da cui dipendeva buona parte della prosperità e della potenza del Regno Unito allora.
Suez, Mar Rosso, Aden, i piccoli Emirati del Golfo erano le postazioni chiave, assieme alle piccole isole mediterranee, Cipro, Malta e alla rocca di Gibilterra, per controllare quelle rotte. Le entità politiche e geopolitiche della regione erano le società di quelle latitudini che, governate tramite l’“indirect rule” britannico, partecipavano efficacemente dal punto di vista di Londra a quel controllo “imperiale”. Il Medio Oriente, ovvero la regione dei tanti stati e staterelli arabi in perenne e cangiante conflitto fra di loro (e con la presenza di importanti e litigiosi stati non arabi come Turchia, Persia poi diventata Iran e infine Israele), è nato allora grazie all’azione dell’Impero britannico.
Questo particolarissimo ruolo del Medio Oriente come avamposto chiave per la rotta dell’India è diventato ancora più decisivo per gli equilibri del mondo occidentale con la scoperta del petrolio in quei deserti: gli inglesi compresero immediatamente che il petrolio era la risorsa fondamentale per l’operatività della loro Marina Reale, il cuore della loro potenza, il “potere navale”. Il controllo “indiretto” della regione, la sua organizzazione geopolitica come Medio Oriente divenne a quel punto ancora più essenziale per le economie guidate prima dalla sterlina e poi dal dollaro.
Il Medio Oriente, dunque, tra Ottocento e Novecento divenne parte del sistema geopolitico ed economico occidentale a leadership anglo-americana.
Oggi le cose stanno cambiando drasticamente. Potremo definire il processo geopolitico e storico in atto in quella parte del mondo con una definizione semplice: il “ritorno del Medio Oriente in Asia”, o il “ritorno dell’Asia occidentale”. Come ci disse uno stimato ambasciatore di Delhi, diventato poi vicepresidente della Repubblica Indiana, “Guardi che qui dalle nostre parti, quello che lei chiama Medio Oriente, per noi è West Asia”. Il ritorno dell’Asia occidentale è il processo al quale stiamo assistendo con scarsissima consapevolezza.

Il processo era in atto da anni, ma c’è stato un avvenimento americano che l’ha inopinatamente accelerato: l’autosufficienza petrolifera degli Stati Uniti con l’industria dello shale gas. Gli Stati Uniti, grazie a quella scelta energetica, non importano più quote decisive di greggio dai paesi mediorientali. I quali invece sono sempre più legati e dipendenti dalle esportazioni verso le grandi economie dell’Asia: Cina, India, Giappone, Corea del sud. I paesi mediorientali si rivolgono sempre di più a Oriente per salvaguardare i propri interessi economici e geopolitici. I viaggi del principe bin Salman in India e in Cina e i legami fortissimi della Repubblica Islamica con la Repubblica Popolare (e anche con l’India) ne sono la prova evidente.
Proprio il cambio di paradigma strategico di Teheran è un altro passaggio chiave di questo processo storico e geopolitico. Con il regime dello Scià, l’Iran era il guardiano americano del Golfo, il tutore anche del petrolio per Israele, nonché il paese cardine della CENTO (Central Treaty Organization), la NATO mediorientale comprendente Iran, Pakistan, Iraq, Turchia oltre ovviamente Usa e Gran Bretagna. La CENTO non funzionò sicuramente come la sua omologa nordatlantica; pur tuttavia anch’essa fu un pilastro del sistema strategico mondiale a guida americana durante la guerra fredda. Per capirne l’importanza anche simbolica basta guardare una cartina geografica: Turchia e Iran erano alla frontiera meridionale dell’URSS. Il Pakistan era alla frontiera di Cina e India. La CENTO era un elemento importante della strategia americana di governo del “cuore del mondo” per fermare la massima potenza continentale, l’URSS, lontano dai mari del sud. Allo stesso tempo, l’Iran con le sue forze armate garantiva la sicurezza sia di Riyadh sia dei piccoli emirati del Golfo e delle loro enormi ricchezze petrolifere.
La rivoluzione khomeinista ha cambiato questa equazione geopolitica: l’adesione della Repubblica Islamica alla SCO (Shanghai Cooperation Organisation) ha rappresentato il cambio di paradigma strategico. La SCO, che comprende molti paesi asiatici, “guidati” da Cina e Russia, non è certamente una alleanza militare comparabile con la NATO. È per lo più un patto “regionale” di carattere politico ed economico, con alcuni scopi di lotta al “terrorismo”. Pur tuttavia, l’adesione di Teheran alla SCO e la fine del sistema strategico di alleanze americane costituiscono un cambiamento geopolitico che non può essere sottovalutato.
Da un lato, i paesi esportatori di petrolio infittiscono legami e relazioni con le economie asiatiche, mentre indeboliscono la relazione economica ed energetica con gli Stati Uniti. Dall’altro lato, il paese cardine della regione, l’Iran, da guardiano americano diventa partner strategico della partnership sino-russa.

Poi c’è la nuova presenza della Russia in “Medio Oriente”. Da un lato, Putin è stato il mallevadore dell’“allineamento” geopolitico fra Turchia, Iran, soggetti sciiti, Siria; dall’altro lato, la Russia (assieme peraltro alla Cina) è entrata in rapporto anche con quelli che vengono usualmente considerati come alleati di Trump nella regione, Israele e Arabia Saudita. Mosca in questo quadro è diventato un attore “centrale” nella geopolitica regionale: gli Stati Uniti hanno molti nemici ed alcuni amici “con relazioni multiple”. La Russia di fatto ha molti amici e partner anche nel campo nominalmente avverso.
Mosca ha una base economica molto debole e quindi ben difficilmente può sostenere una tale forte proiezione strategica. Ciò in teoria, ma in pratica può continuare ad avere quella proiezione grazie al legame organico che Mosca ha con le grandi economie asiatiche in tema di gas, materie prime, armamenti: Cina e India sono in primissimo luogo.
La Russia, insomma, sta agendo come “agente” dell’Asia nella trasformazione del Medio Oriente in Asia occidentale, o meglio nel processo di ritorno dell’Asia occidentale.
Se così stanno le cose, allora possiamo interpretare un po’ meglio le vicende di questi giorni e possiamo mettere nella giusta luce il ruolo europeo.
Riassumendo: in questi mesi stiamo assistendo, da un lato, al ritorno dell’Asia occidentale, con la guida congiunta di Russia e Cina; e, dall’altro, stiamo assistendo al tentativo americano di conservazione del vecchio Medio Oriente.
Se così stanno effettivamente le cose, l’Europa che dovrebbe fare? I seguaci del mantra l’Europa non esiste, non ha una politica mediorientale, sostanzialmente vorrebbero una mera adesione di Berlino e Parigi (e delle altre capitali) al tentativo americano di conservazione del vecchio Medio Oriente. Magari con invio di truppe unilateralmente.
Ma ciò ha un qualche senso? L’Europa, dopo la sua lunga, tragica e tremenda esperienza colonialista, dovrebbe riassumere un ruolo neo-coloniale sotto la guida o a fianco degli Stati Uniti per cercare di opporsi alla gigantesca forza di marea storica del ritorno dell’Asia occidentale? Guardandolo dal lato giusto, questo approccio non sembra avere alcun senso.
Come non sembra auspicabile un ruolo europeo sostanzialmente subalterno al disegno “euroasiatico” di Mosca e Pechino che ha il suo cardine nella nuova Via della seta di Pechino. Senza fare alcuna demonizzazione di quel disegno strategico, pare evidente che l’Europa non può essere un soggetto subordinato in un ordine regionale a guida sino-russa.
L’Europa, a nostro avviso, dovrebbe nel breve periodo continuare a fare meglio quello che sta facendo, ridurre i danni provocati dalle tensioni regionali; nel medio periodo invece dovrebbe organizzare adeguati strumenti e forze geopolitiche per costruire la “propria” Via della seta.
L’Asia occidentale, tra le altre cose, non è che una delle principali rotte della Via della seta. L’Europa dovrebbe costruire la propria Via della seta con una dotazione di risorse decente. Dovrebbe dotarsi poi degli altri strumenti geopolitici, i fondi sovrani ad esempio, per allargare il proprio ruolo come “grande potenza civile”. E qui arriviamo al punto cruciale del nostro ragionamento.
La Germania di Angela Merkel in questi anni ha dispiegato una fortissima iniziativa geopolitica come “potenza civile”: ovvero come attore geopolitico che promuove iniziative multilaterali, che è contrario alla minaccia unilaterale della forza e che fa affidamento sui legami e le capacità economiche produttive.
Berlino ha trovato in questo importante percorso geopolitico innovativo indubbi e rilevanti successi, ma anche molte pericolose contraddizioni. Le difficoltà sono legate, in particolare, al semplice fatto che il peso geopolitico della Repubblica Federale (pur con l’Unione europea a fianco) non è sufficiente a reggere la competizione globale. Solo l’Europa unita, irrobustita da una moneta affidabile e dotata di adeguati strumenti politici e geopolitici, può reggere (molto bene) a livello globale. L’Europa “neo-renana” della Commissione von der Leyen cerca di essere questo soggetto geopolitico globale. Ma l’Europa unita non può essere la mera riproposizione di una nuova vecchia potenza tradizionale “westfaliana” e neo-coloniale: deve essere un grande attore globale di nuovo conio, una “grande potenza civile”.
L’Asia occidentale è un teatro geopolitico ovvio dove l’Europa “grande potenza civile” dovrebbe applicare le sue caratteristiche innovative. Quando sarà in grado di farlo adeguatamente, allora potrà partecipare al ritorno dell’Asia occidentale come soggetto robusto assieme agli altri grandi attori globali. Fino ad allora, se le cancellerie d’Europa riescono a ridurre i danni delle azioni altrui, faranno, secondo noi, un grande lavoro politico.

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