I bilanci vanno stesi sempre con l’aiuto del tempo, valutando ad ampio spettro effetti, conseguenze, legami, eredità. Riflettere oggi, subito dopo la scomparsa dell’autore, sulla seconda (o terza?) fase dell’attività professionale di Giampaolo Pansa non è facile. Troppa animosità, troppo rancore, e/o troppo, incondizionato, riconoscimento.
Per chi ha lavorato per anni nel campo della ricerca storica sui temi della Resistenza, della violenza e della guerra (civile), la svolta antipartigiana di Pansa, a partire dal fortunato Il sangue dei vinti, non ha rappresentato una sorpresa, almeno per quanto riguardava i contenuti. Da infaticabile lettore, il giornalista (o storico, o storico-giornalista), le tante storie di violenza le aveva ben conosciute, e ripensate, nel corso degli anni.
Riproporle allora, ponendosi sulla scia di Pisanò piuttosto che del maestro Quazza fu la sorpresa. Una scelta, quasi una “conversione” difficilmente comprensibile, se non la si riconduce anche ad elementi complessi e personali che l’indispensabile riservatezza spinge a lasciare sullo sfondo. Possiamo discutere – come abbiamo fatto tante volte da quel 2003 in poi – su cosa sia la “verità” o quantomeno cosa sia la correttezza metodologica che dovrebbe sottendere sempre ogni ricerca. Ma il dibattito, ancora una volta, rimane aperto e sospeso: una verità incompleta è ancora tale? Un evento, strappato dal contesto e narrato in una sorta di sospensione del reale, è ancora esemplare? Abituati, come metodologia storica impone e richiede, a circostanziare, verificare, annotare, certamente la narrazione “giornalistica” (quanto ci sarebbe da riflettere su questo aggettivo…) suona come qualcosa di estraneo ma, nello stesso tempo, qualcosa che può attrarre e affascinare proprio per quella capacità di agevolare il percorso del lettore, spesso allontanato dalla scarsa capacità narrativa di storici professionali collaudati. Così si è compiuto il salto comunicativo: quello che Pisanò aveva raccontato all’interno di chiuse mura, di oscuri e rancorosi cenacoli, a soddisfare desideri di riconoscimento famigliari prima ancora che politici, diventava, sotto gli occhi increduli di tanti di noi, la colonna sonora di talkshow, di TG formato famiglia, di “speciali” che si moltiplicavano di rete in rete, di network in network. Una potenza massmediologica talmente soverchiante da lasciare nell’afonia quanti di quelle vicende per anni avevano ricercato e scritto.

Come già lamentato tante volte, con l’abilità del comunicatore il giornalista-storico (o storico-giornalista?) ha avuto la capacità d’inserirsi negli spazi vuoti di una narrazione antifascista spesso reticente e retoricamente bloccata e a ben poco, o nulla, è servito ricordare che tante di quelle vicende che sui suoi libri venivano gridate, erano già state oggetto di ricerche, volumi, video e quant’altro. Risorgevano i muri dei pro – e contro – e all’interno dell’affaticata cultura antifascista prendeva forma una nuova categoria di nemico: “Pansa e i suoi…”.
Non so quanto quelle ondate mediatiche abbiano sedimentato in termini di consapevolezza diffusa su una vicenda storica complessa come la guerra civile e l’uscita dalla guerra, o quanto quei racconti ripetuti siano stati condivisi da quanti volevano semplicemente, e finalmente, sentirsi raccontare la “loro” storia, vera o presunta tale poco contava, tanto da far diventare una concreta posizione politico-culturale quella di chi poteva vantare “io ho letto Pansa” come nuovo elemento identitario. In fondo l’arma vincente non era la sostanza del messaggio ma chi quel messaggio comunicava.
Trovo esplicitato sulla stessa Wikipedia, alla voce dedicata all’autore, l’esistenza di un “ciclo dei vinti”, sei opere in otto anni a confermare la poco sorprendente ripetitività del clichè su cui, inevitabilmente, l’opera del giornalista (o storico?), colto dal successo, finisce per arenarsi. Perché è questo il percorso obbligato della contro-narrazione che ha dominato i media in quegli anni, con un effetto che, oggi, ci pare quasi moderato, considerato come il passo successivo (rivendicare direttamente la legittimità del fascismo, quello di Salò incluso) sia stato già compiuto e siano ormai all’ordine del giorno le sfilate di Forza Nuova e Casa Pound, le adunate a Predappio, l’antisemitismo ritornante.
In questa prospettiva la contro-narrazione di Pansa è stata la (forse) necessaria, ma certamente utile, fase di passaggio. Una narrazione che, volume dopo volume, si definiva nella sua definita monotematicità, nello squadernare un catalogo di orrori, violenze, atrocità. Un’elencazione sempre più ripetitiva che doveva, forzatamente, volume dopo volume, capitolo dopo capitolo, alzare il livello dell’orrore, in una progressione quasi pornografica (la narrazione di decine di stupri nelle ultime opere a stuzzicare la sensibilità sempre più grossolana del lettore). Perché in tutte queste atrocità, ordite dalla perfidia al limite (e spesso oltre) della psicopatologia degli assassini “rossi”, non esiste alcuno spessore narrativo, nessun spazio a una ricostruzione che esca dalla narrazione dell’orrore fine a se stesso, di un’Italia feroce e retrocessa a livelli barbarici, quasi a uniformarsi alla propaganda dei manifesti della Repubblica di Salò dove i “rossi” assumevano forme ed espressioni bestiali e ferine.
Una contro-narrazione che non si è esaurita prima della scomparsa del suo autore ma che ha continuato a mescolarsi, a intermittenza dopo il boom editoriale degli anni 2003-2010, all’attenzione alle problematiche politiche e sociali tipiche della prima fase dell’attività del giornalista (il suo ultimo libro Il dittatore tratta della resistibile ascesa di Matteo Salvini) contribuendo così ad accrescere l’ambiguità di una vicenda professionale e culturale di una figura comunque di rilievo come Giampaolo Pansa.


Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!