Anastasi: la Juve, l’Italia, il riscatto

“Pietruzzu” non è stato solo un giocatore di calcio. È stato un simbolo e l’eroe di una generazione che aveva lasciato il Meridione del nostro paese e aveva sofferto e lottato per consentire ai figli di studiare. E di “farcela”.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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L’addio di Pietruzzu Anastasi da Catania, a soli settantun anni, è una perdita che non si può capire se non si ha ben presente la storia del nostro paese. Anastasi, infatti, per almeno due generazioni è stato molto più di un calciatore. Per i meridionali nati nell’immediato dopoguerra da famiglie che erano venuti al Nord a cercare un futuro migliore, quella Juve pre-bonipertiana, che cominciava a porre i primi tasselli per dar vita all’egemonia pressoché incontrastata degli anni Settanta, costituiva una forma di riscatto e di speranza.

Per i loro genitori, che tanti anni prima avevano compiuto la scelta, drammatica ma necessaria, di dire addio al paesello senza prospettive per andare a farsi maltrattare nella fabbrica di Valletta, dai proprietari che si rifiutavano di affittare un appartamento ai meridionali o dai negozianti che esponevano cartelli molto simili a quelli contro gli ebrei durante le leggi razziali, vedere quel furetto dai lineamenti arabi che saettava su e giù per il campo, fra gli applausi scroscianti dei tifosi, era la conferma di avercela fatta.

Pietruzzo Anastasi è stato un simbolo, l’eroe di una generazione che aveva sofferto, sognato, lottato, cui nessuno aveva regalato nulla e che si era letteralmente tolta il pane di bocca per consentire ai figli di studiare. Ed era il mito dei ragazzi del Sessantotto, quelli che cominciavano a occupare le università, a leggere L’uomo a una dimensione di Marcuse, ad amare Márquez, a manifestare contro la Guerra del Vietnam e a solidarizzare con Panagoulis contro la dittatura dei colonnelli in Grecia.

Era la certezza che anche l’Avvocato avesse un cuore e che anche il potere potesse essere, in qualche modo, disposto a lasciarsi contaminare dai buoni sentimenti.

La Juve dei primi Settanta, quella del mitico Wycpálek e dell’indimenticabile Parola, era una squadra fortemente operaia, magnificamente meridionale, i cui punti di riferimento, oltre ad Anastasi, erano Causio e il capitano Beppe Furino, anche lui siciliano: il primo era un campione a tutti gli effetti, il secondo uno di quei giocatori indispensabili, un portatore d’acqua che sul terreno di gioco donava letteralmente il sangue. Mai una polemica, “Furia-furin-furetto”, mai una parola fuori posto, mai una lamentela.

Gente che piaceva tanto all’Avvocato quanto a Boniperti, un’autentica classe operaia, un proletariato divenuto borghese ma senza mai smarrire quei tratti di sobrietà e genuina umanità che ben si sposavano con la città fabbrica per eccellenza. Non a caso, un altro fuoriclasse che, di lì a poco, vi si sarebbe trovato a suo agio sarebbe stato Gaetano Scirea da Cernusco sul Naviglio, un lombardo figlio di operai che si vergognò quando uscì dalla discoteca dove aveva festeggiato il suo primo scudetto e vide le tute blu che cominciavano a varcare i cancelli di Mirafiori.

La Juve di Anastasi era forte, fortissima ma refrattaria a ogni forma di divismo. Un’aristocrazia operaia applicata al pallone che ben incarnava l’Italia profonda, prima che le fabbriche cominciassero a chiudere e la globalizzazione sregolata facesse il resto. Era un’Italia ancora in bianco e nero, con le partite disputate tutte la domenica pomeriggio alla stessa ora e Tutto il calcio minuto per minuto a scandire il ritmo delle nostre emozioni.

A Pietruzzo Anastasi è legato anche il dolcissimo ricordo dell’Europeo conquistato a Roma contro la Jugoslavia, nella ripetizione della finale che si disputò all’Olimpico di fronte a un pubblico che aveva trasformato i giornali in torce e contribuito a rendere indimenticabile una notte di gioia allo stato puro. Li condusse al trionfo un friulano dai lineamenti scolpiti nella pietra, Ferruccio Valcareggi, in porta un altro friulano, Dino Zoff, capitano Giacinto Facchetti, l’umiltà fatta persona, e le reti furono affidate a Gigi Riva da Leggiuno, idolo di una terra agra come la Sardegna, e, per l’appunto, ad Anastasi, la testimonianza vivente della dominazione araba in Sicilia.

Ora che il ragazzo dai capelli neri e dagli occhi scurissimi non c’è più, ci sia consentito di dire che è stato il Sessantotto realizzato, ossia il trionfo dei diritti e della dignità degli ultimi. Le braccia al cielo di Anastasi erano l’esultanza interiore di tutti coloro che vi si identificavano. Agnelli e i suoi operai uniti dalla stessa fede: per un’ora e mezzo, ai tempi dell’Autunno caldo, era possibile anche questo. Il Novecento è stato un secolo terribile ma, a tratti, anche ricco di splendore. Addio Pietruzzu!

Anastasi: la Juve, l’Italia, il riscatto ultima modifica: 2020-01-18T16:55:37+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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