Gilles Villeneuve. Una vita spericolata, e troppo breve

Eccessivo, smodato, matto come un cavallo, il pilota canadese era decisamente atipico: il 18 gennaio scorso avrebbe compiuto settant’anni.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Vien quasi da piangere quando si legge il verso del poeta greco Menandro che recita: “Muore giovane chi è caro al cielo”. È un verso crudele, straziante, doloroso, specie se si pensa a Gilles Villeneuve che in questi giorni avrebbe compiuto settant’anni e che, invece, ci disse addio l’8 maggio 1982 sul circuito belga di Zolder.

Villeneuve era un folle innamorato della velocità, un campione come se ne sono visti pochi sulle piste, l’emblema dell’ardore e del coraggio, della passione e della voglia di vivere. Non a caso, lo aveva voluto fortemente Enzo Ferrari, il patriarca della scuderia, per sostituire il “traditore” Lauda che nel ’77 era passato alla Brabham Alfa Romeo. A proposito di “Gil”, poco prima di morire, scrisse:

Nella sconfinata tipologia dei campioni del volante mi piace l’ardimentoso, generoso e combattente, audace interprete dell’epica agonistica, romantico cavaliere dell’avventura, quello che nel gergo del nostro sport viene definito un garibaldino.

E aggiunse:

Ecco penso a Gilles Villeneuve che a sua volta rievocava in me il grande Tazio Nuvolari… Uomini che su qualunque tipo di vettura, in qualsiasi circostanza e su qualunque percorso hanno personificato la massima espressione di spregiudicatezza a bordo di una macchina e hanno offerto ogni volta la loro totale dedizione e la loro perentoria voglia di vincere.

Eppure, di Villeneuve non si ricordano tanto i trionfi, appena sei, quanto, per l’appunto, l’ardore, il giro su tre ruote a Zandvoort nel ’79, il duello epocale con René Arnoux nel Gran Premio di Francia dello stesso anno, quando vinse Jabouille ma nessuno ci fece caso, tanto era stato il pathos di un duello senza quartiere, ruota a ruota, che aveva emozionato gli spettatori e trasmesso una carica adrenalica che poche volte si è vista su un circuito di Formula Uno.

Se ne andò a soli trentadue anni, dopo aver affrontato tutta la vita come una grande corsa, con la dovuta spericolatezza, il giusto grado di pazzia e alcune notevoli bravate, come la volta che il tragitto da Montecarlo a Maranello si trasformò in un Gran Premio aggiuntivo, talmente assurdo che una pattuglia della stradale, che lo aveva intercettato dalle parti di Lodi per eccesso di velocità, riuscì a fermarlo solo a Reggio Emilia, stendendo sull’asfalto una barriera con catene chiodate. “Je suis Gilles Villeneuve” disse sorridendo quel pazzo quando scese dall’auto, e solo il pronto intervento della Ferrari riuscì a scongiurarne l’arresto e a evitargli il ritiro della patente.

Gil era fatto così: eccessivo, smodato, matto come un cavallo, un canadese decisamente atipico che proprio nella sua Montreal, nell’81, guidò con un’ala spezzata che gli copriva la visiera, peraltro sotto una pioggia torrenziale.

Non poteva invecchiare, nel suo caso non sarebbe stato giusto. Doveva trasformarsi in un mito immortale, in un’icona, in un simbolo di vigore e incoscienza che gli anni avrebbero invece trasformato, inevitabilmente, in un ricco signore benestante, magari noioso come tutti gli eroi sopravvissuti al periodo della gloria. Decisamente troppo per quel sognatore, bisognoso di volare nel vento, di non avere regole, frontiere, punti di riferimento, di vivere d’arte, d’emozioni e di gioia fino a esserne ubriaco.

Quest’anno avrebbe compiuto settant’anni ma forse, al netto della nostra sofferenza per la sua perdita, è bene che non ci sia arrivato.

Gilles Villeneuve. Una vita spericolata, e troppo breve ultima modifica: 2020-01-21T11:41:26+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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