Ha compiuto cinquant’anni Moreno Torricelli, lombardo di Erba e calciatore per caso. Non un campione, ma comunque un giocatore in grado di ritagliarsi un posto di tutto rispetto nella storia di questo sport. Faceva il falegname, Moreno, lavorava in un mobilificio della Brianza e il pallone altro non era che una splendida passione dilettantistica tra le file della Caratese: una passione travolgente ma sapeva di non essere destinato a diventare un fuoriclasse. Ciò che non avrebbe mai immaginato, e invece accadde, è che un giorno, nella primavera del ‘92, la sua squadra si trovasse ad affrontare addirittura la Juventus, non più magna come ai tempi di Le Roi Platini ma pur sempre in grado di costituire il sogno di chiunque giochi a calcio. E fu in quell’occasione che un mito come Giovanni Trapattoni notò questo ragazzo tutto grinta e determinazione che sgroppava alla grande lungo la fascia, decidendo che si sarebbe potuto sposare alla perfezione con la sua concezione garibaldina del gioco. Non era più la Juve degli anni Settanta, non era ancora lo squadrone di Lippi, ma era comunque una squadra in fase di ricostruzione nella quale Torricelli riuscì a conquistarsi il proprio spazio e non smise più di battersi per dire grazie alla fortuna che lo aveva catapultato, come in una favola, dal quasi anonimato alla ribalta mondiale.

Sei stagioni alla Juve, una messe di trofei vinti e la partita migliore disputata nel momento più importante, quando c’era più bisogno di gladiatori e portatori d’acqua, ossia durante la finale di Champions League in cui i bianconeri s’imposero a Roma contro un Ajax tra i più forti di sempre.
“Geppetto”, come l’aveva soprannominato scherzosamente Roberto Baggio, non ha mai preteso di essere un campione, non ha mai sgomitato, non ha mai cercato le luci della ribalta e, una volta uscito dal dorato mondo in cui si era ritrovato all’improvviso, ha sempre vissuto con umiltà, senza pretendere niente da nessuno e senza far pesare in nessun caso il fatto di essersi tolto soddisfazioni che per la maggior parte dei comuni mortali rimangono eternamente sogni.

Tanto gli ha dato la vita in gioventù, tanto gli ha tolto dopo, privandolo della moglie Barbara, sconfitta da una maledetta leucemia, e inducendolo ad accantonare la carriera da allenatore che aveva intrapreso e a ritirarsi con la seconda moglie nella quiete e nel silenzio della Val d’Aosta. Eppure, le rare volte che parla, è un piacere ricordarsi che a questo mondo esistono uomini come Moreno, persone vere, fatte di carne e sentimenti, di cuore e d’orgoglio, d’audacia e di sensibilità. Tutte virtù rare al giorno d’oggi, tutti valori che rischiano di andare perduti, specie nel mondo del calcio, con i suoi milioni e i suoi riflettori sempre accesi su ragazzi poco più che adolescenti che finiscono spesso con l’essere ingannati da un tritacarne che non perdona nessun errore né ammette alcuna debolezza.
Torricelli non s’è mai illuso, non s’è mai arreso, non ha mai perso la sua naturale compostezza e, giunto “nel mezzo del cammin”, può guardarsi indietro con soddisfazione e guardare avanti con la serenità e l’ottimismo di tutti i costruttori. Come uno scultore, come un fabbricante di meraviglia, che in fondo è ciò che ha sempre fatto. Dal mobilificio al tetto del mondo, senza mai perdersi d’animo.

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