SignorNò è una raccolta antologica che curai assieme a Phil Rushton, prima per le edizioni SEAM poi, in versione ampliata, per Pellicano Libri e con un’introduzione di Margherita Hack. Si tratta di versi e testimonianze contro la guerra di veterani statunitensi, refusenik israeliani e autori nazionali e internazionali. Oltre a proporsi come un libro dal contenuto quanto più possibile povero di retorica, questo lavoro vuole anche essere uno strumento per realizzare progetti multimediali nel vivo del tessuto sociale, soprattutto nelle scuole e tra i giovani.
La partecipazione attiva di coloro che alla guerra hanno contribuito in prima persona, oltre a essere un’occasione di riscatto umano, è anche un’opportunità per mostrare con disincantato le ferite interiori lasciate da un orrore che va sempre più globalizzandosi e che ormai trasforma persino i corpi militari delle nazioni in eserciti di mercenari, che hanno come obiettivo soprattutto il compito di far quadrare i bilanci delle multinazionali delle armi e della ricostruzione.
Dalla fine della II Guerra Mondiale ci sono state almeno 180 guerre, quasi tutte combattute nel Terzo Mondo, promosse e armate dall’Occidente. Hanno provocato quaranta milioni di morti, a cui bisogna aggiungere centinaia di milioni di profughi. Inoltre, i conflitti tendono ad assumere un’aura di moralità che non gli spetta, ingannando i cittadini dei paesi coinvolti con nomi che mistificano la vera e immutabile natura omicida di ogni guerra: “operazioni chirurgiche”, “conflitti umanitari”, “interventi preventivi”, “lotta al terrore” e via dicendo. Come ben documentato e riconosciuto, le guerre moderne hanno come inevitabile effetto collaterale quello di mietere una maggioranza di vittime civili, motivo già pienamente sufficiente per dire sempre e comunque: “SignorNò!”
Finché è rimasto in vita, i diritti d’autore del volume erano interamente dedicati alla causa di Fernando Eros Caro, un nativo americano di ascendenza yaqui, anche lui ex marine, imprigionato per 35 anni, in un loculo di un metro e mezzo per tre, nel braccio della morte californiano di San Quentin. Ma assieme a Fernando Caro, gli Stati Uniti “ospitano” nelle loro galere ben 140.000 veterani. Inoltre, si contano mediamente ogni anno 6.200 suicidi di reduci. È come una guerra nella guerra, che continua fuori dai teatri bellici, una volta tornati in patria: un senzatetto su tre, infatti, è veterano; per non parlare delle malattie, spesso mortali, come la cosiddetta “Sindrome del Golfo” che ha contagiato 210.000 soldati USA o le malattie mentali diagnosticate a circa 300.000 reduci statunitensi di Iraq e Afghanistan.

Tra gli autori e le autrici internazionali che hanno aderito al progetto vogliamo ricordare Jack Hirschman, Paul Polansky, Mahmoud Darwish, Ivo Machado, Naim Araidi, Samih al-Qasim, Izet Sarajlic, Igiaba Scego, Fernando Arrabal e tanti altri, uniti in un coro poetico universale contro ogni guerra.
La speranza è che questo libro, ma soprattutto il progetto a esso collegato, possano trovare attenzione e partecipazione, contribuendo a seminare un po’ di pace in un mondo sempre più ostaggio di logiche guerrafondaie che sembrano quasi impossibili da arginare, in un processo di disumanizzazione globale che si fa tanto più evidente quanto più aumentano il disinteresse, la rassegnazione e l’abitudine allo stato ormai permanente di quella che può definirsi “normalità della guerra”.

SIGNORNO’: LETTURE ONLINE MUSICATE DAL VIVO
“Occhio per occhio blues”
“Conosco un poeta”
“Guantanamo Guantanamera”
“Effetti collaterali”
“SignorNò 2016 live”
“Apache” versione live

A seguire, alcuni testi scritti dai veterani statunitensi:
APPUNTI PER LA PROTESTA DEI VETERANI CONTRO LA GUERRA
Ralph: per quel che concerne
i piani per la marcia locale
si vedano i seguenti punti:
Ho visto la stanca manifestazione a Washington,
le facce ardenti dei nostri tristi ragazzi guerrieri
che lanciavano le loro medaglie al presidente.
Credo che dovremmo emulare
ma non copiare, pertanto:
quando la delegazione arriva
al Campidoglio dello Stato
leggete prima la petizione:
“Non abbiamo paura di uccidere.
Ci dispiace di aver assassinato
le nostre anime. Abbiamo eseguito gli ordini
ma abbiamo imparato a dire NO!
Fermatela. O vi fermeremo noi.
Non resistete. Non potete fermare
i fantasmi che siamo diventati”.
Poi, fa’ che coloro che hanno perso le gambe
si trascinino in avanti e le ammucchino
in modo ordinato.
Quindi fa’ rotolare il teschio
del tuo migliore amico ucciso
lungo la navata.
Infine, fa’ che i ciechi spingano in avanti i tetraplegici
(avranno coltelli tra i denti da dare ai legislatori
cosicché possano usarli su loro stessi). Ce ne andiamo.
Se non li usano
torniamo.
P.S. Conserva le istruzioni per i tuoi nipoti. Torneranno utili.
Horace Coleman
THAP BA
Il vecchio tempio ciam di Thap Ba,
la gente del posto stima
che abbia mille anni di età,
un’età maggiore di quella di quest’anglo-
sassone affettato con cui parlo
Maggiore, dicono, di quella dell’utilizzo
delle pallottole, delle urne, della stampa
maggiore degli anni dell’aereo e della bomba
maggiore del napalm
fu colpito ieri da un’elicotterista ventenne
arrivato fresco dagli Stati Uniti
che lo trovava più estasiante che
il poligono di tiro
per provare le sue mitragliatrici.
Jan Barry
LETTERA
(A un soldato nordvietnamita la cui vita si è inctociata con la mia, Hue, 5 febbraio 1968)
Pensavi di avermi ucciso
con quel razzo? Beh, ce l’hai quasi fatta:
hai frantumato le mura e ridotto l’aria in schegge
mi hai messo k.o., pieno di buchi
tirandomi giù il tetto sulla testa.
Ma sono sopravvissuto
abbastanza a lungo per chiedermi
come hai fatto a mancarmi
abbastanza a lungo per desiderare troppe volte
che tu non avessi fallito il colpo.
Come vanno le cose laggiù?
Qui ormai è tutto alle nostre spalle
e dopo tutti quegli anni di possibilità
le cose sono tornate normali.
Abbiamo appena festeggiato un compleanno speciale
e ritrovato la nostra ispirazione
ricordando da dove siamo venuti
ma dimenticando dove siamo stati.
Oh, stiamo ancora disputando sui prezzi
delle vite che sporgono
dai margini dei nostri ultimi
libri di storia, ma nessuno mette in dubbio
l’autorità degli autori.
Dài, sforzati un po’ di più
artigliere strabico che hai avuto la faccia
di rimandarmi vivo da un popolo
tra cui non potrò sentirmi
mai più a mio agio:
ricordati dove sei stato, e perché.
Poi erigi case, innalza villaggi
dighe, scuole, canzoni
e bambini in quella terra verde
che annerì sotto la mia ombra
e l’ombra della mia bandiera.
Ricordati che Ho Chi Minh
era poeta: per favore
non lasciare che tutto si concluda
in un nulla di fatto.
W.D. Ehrhart

MORIRE CON GRAZIA
Quel ragazzo di otto anni,
irruppe nel campo da gioco
occhi neri e luccicanti di gioia
per calciare un pallone in avanti
fu accolto da due pallottole
di mitragliatrice, forse
morì con Grazia?
Oppure sua nonna
a 35 anni magra come una sbarra
per troppo poco da mangiare
e troppi bambini
e troppo defoliante
e troppe poche speranze
s’addormentò in un campo profughi
senza risvegliarsi più, forse
morì con Grazia?
L’uomo bianco in giacca e cravatta
dalla televisione dice che se io credo
in Gesù e nel Paradiso
e nell’amore che Gesù prova per me,
potrei pure morire con Grazia.
Sarebbe vero?
L’altro uomo bianco
nel notiziario TV
parla di un giovane
una volta di Brooklyn
che sparò con la sua arma
mentre guadava il fango
ad Hamburger Hill o a Salerno
o nel profondo della giungla di Mekong,
uccidendone 12 della forza nemica
prima di cadere abbattuto da una granata,
dicendo che egli morì con grazia
con questo atto di onore
e annunciando che la Patria
ne era fiera.
Un anziano
che ricevette la Stella d’Argento
e Cuori di Porpora
e ranghi su ranghi
di onori e medaglie
morì di freddo in un parco
dall’altra parte della strada della Casa Bianca.
Ma la sua fine non merita alcuna grazia
perché sporcata di vergogna
dal marchio dell’alcolismo.
E la donna
che scrisse al San Francisco Examiner
che finalmente, al Centro per i Veterani,
aveva trovato un modo per uscire
dagli incubi di velivoli pieni di feriti
e morti e flashback di notti lacerate
da mortai e razzi;
poi non riuscì a convivere coi suoi ricordi
e saltò giù dal Golden Gate Bridge.
C’è da dire che morì con grazia
Oppure no?
Marilyn M. McMahon
LUOGO DI SCHIANTO DI UN B52: GENNAIO 1994
Quando gli americani tornano
cercano oggetti
nel modo in cui gli europei una volta
scavarono tra le rovine
di Tra-kiêu o Mi-so’n o Tham Khuyen.
Setacciano terra ancora annerita
dai fuochi della guerra: carburante d’aviazione
e munizioni che bruciano tutto il giorno,
tutta la notte, così, tanto tempo fa
cercando con un setaccio fine
finché non trovano un orologio Seiko,
col suo quadrante di tempo globale ormai incapace
di mostrare l’ora di una qualsiasi parte
di una qualunque città di questo mondo.
Trovano i gradi di un maggiore,
un pezzo di velcro, metallo bucato,
corroso, troppo arso da potersi identificare
e qualche scheggia di ossa.
Scavano ancora, setacciando altre ossa,
ma sono quelle di un bambino:
e la madre allora si ricorda
sa che il maggiore, il capitano, il sergente
sono tutti sepolti con suo figlio.
Riconosce le ossa di suo figlio
nel modo in cui immagina che la madre
del maggiore avrebbe riconosciuto le proprie.
Se lo mollasse, se lasciasse
che suo figlio affondasse nella terra
che comincia di nuovo a odorare di terra,
dove si coltiverà ancora come prima.
Se solo lo mollasse, se soltanto imparasse
che la guerra è una cosa da cui non si torna,
che ci si muoia o meno. Che la resurrezione
è solo una storia scritta per gli Dei.
Che una candela,
il profumo dell’incenso ardente e un fiore
che cresce nel giardino di questa terra annerita
porteranno più di una pace durevole, più
di quanto possa sperare
una madre.
Dale Ritterbusch
L’immagine di apertura è tratta da flickr

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