Correva il luglio 2016 e Donald Trump, fresco candidato del Partito repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, faceva una cosa finora mai fatta da un leader del Grand Old Party: nel suo discorso d’investitura si rivolgeva alla comunità LGBT, promettendo protezione e riportando il pensiero alla strage di Orlando, che qualche settimana prima aveva segnato uno dei più gravi episodi di violenza contro la comunità LGBT nella storia americana.
Una mossa senza precedenti nella storia del Partito repubblicano, che però, alla prova dei fatti si è rivelata mera retorica. Durante il suo mandato, Trump ha infatti dimostrato che quando si tratta di scegliere tra la sua base e il resto della popolazione, il suo sostegno va sempre a chi l’ha aiutato ad arrivare alla Casa Bianca.
Ed è così che sono stati ribaltati importanti progressi dell’amministrazione Obama, che davano alla comunità LGBT più diritti e protezione. Una decisione su tutte macchia il mandato dell’ex tycoon: l’ordine che impedisce alle persone transessuali di fare parte dell’esercito degli Stati Uniti, annunciato peraltro via Twitter con queste parole:
Dopo aver consultato i generali e gli esperti militari, siete avvisati che il governo degli Stati Uniti non accetterà né permetterà che individui transgender servano in alcuna unità dell’esercito. Il nostro esercito deve essere concentrato su vittorie schiaccianti e decisive e non può sostenere il tremendo costo medico e il disagio che i trangender nell’esercito comportebbero.
Abbandonata dal suo presidente, la comunità LGBT può però contare su un alleato capace di tenere a bada gli istinti più reazionari della politica: le grandi corporation. Un’alleanza questa, che è anche il frutto dell’abilità degli attivisti LGBT di influenzare le scelte dei consumatori americani e, quindi, di orientare i comportamenti della grande distribuzione.

Va innanzitutto premesso che la situazione delle comunità LGBT in America varia, anche in maniera profonda, da stato a stato: New York, Maryland, Oregon e California sono le realtà più progressiste, Texas, Kansas, Mississippi e Sud Dakota, invece, sono indietro di venticinque anni.
Le cose possono essere molto diverse anche all’interno dello stesso stato: ad esempio, a Waco, nel Texas iper-conservatore, c’è una giudice di pace, Dianne Hensley, che si rifiuta di riconoscere le unioni tra coppie dello stesso sesso – nonostante una sentenza della corte suprema del 2015 le tuteli in tutto il paese – mentre, a sole tre ore di macchina, a Houston, c’è invece una donna simbolo della comunità LGBT americana, Annise Parker, sindaco della città dal 2010 al 2016, finora unica persona dichiaratamente omosessuale ad aver guidato una delle dieci città più popolose degli Stati Uniti.

A livello nazionale, uno strumento per valutare lo stato di avanzamento sui diritti LGBT è la presenza di leggi che restringono o vietano le “terapie di conversione”, mirate a cambiare l’orientamento sessuale di una persona.
Sono sempre di più gli stati che le bandiscono per i minori: i primi a intervenire sono stati New Jersey, Vermont, Illinois, Oregon, California e il Distretto di Columbia, seguiti poi da New Mexico, Nevada, Rhode Island e Connecticut. Ciò non toglie che restano ancora quarantuno stati che non vietano in alcun modo questa terapia.
Lo scontro tra sostenitori e oppositori dei diritti LGBT, però, non si gioca solo sul piano legislativo, ma, sempre più spesso, polarizza gli americani nelle loro scelte di consumo, che diventano un modo per esprimere il proprio sostegno a determinati sistemi di valori.
Emblematica e tristemente celebre è la storia di quel pasticcere dell’Oregon salito agli onori della cronaca per aver rifiutato di preparare una torta di matrimonio a una coppia omosessuale.
Nel gennaio del 2013, nella città di Gresham, Aaron Klein, proprietario della pasticcieria “Sweet Cakes by Melissa” non accettò la richiesta di due donne, adducendo che
secondo la Bibbia, il matrimonio è un’istituzione religiosa che unisce un uomo e una donna.
Nonostante l’Oregon non avesse ancora legalizzato i matrimoni gay, il signor Klein ha pagato a caro prezzo il suo rifiuto: è stato condannato a pagare una multa di 135mila dollari per aver violato l’Oregon Equality Act, una legge del 2007 che vieta agli esercenti di discriminare i clienti sulla base del loro orientamento sessuale.
Moltissimi i casi simili: un fotografo del New Mexico multato per settemila dollari a causa del rifiuto di fare un servizio in occasione del matrimonio tra due donne; un centro eventi associato a una chiesa metodista, citato in giudizio per aver rigettato la richiesta di una coppia gay che desiderava celebrare là la sua unione civile; un pasticcere del Colorado coinvolto in ben due dispute legali per non aver voluto confezionare due torte distinte, una per un matrimonio tra due uomini e l’altra per festeggiare una transizione di genere.
C’è dell’altro: non sono solo i piccoli esercenti a ergersi in difesa della famiglia tradizionale. Chick-fil-A, la terza più grande catena di ristoranti in America dopo McDonalds e Starbucks, negli ultimi anni si è fatta una pessima reputazione per le posizioni anti-LGBT del suo proprietario, Dan Cathy, di fede battista, molto devoto, che fa valere il suo credo religioso nel modo in cui gestisce l’azienda, tanto da tenere chiusa la catena di ristoranti di domenica, a Natale e per il Ringraziamento.
In un’intervista del 2012 al Baptist Press, Dan Cathy si espresse pubblicamente a favore della “definizione biblica di famiglia”, scatenando la reazione di protesta degli attivisti LGBT – che organizzarono un “Kiss day” a Chick-fil-A, invitando le coppie omossessuali di tutto il paese a baciarsi nei ristoranti della catena – ma anche ottenendo il supporto dell’allora governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, che lanciò una contro-manifestazione a sostegno di Cathy, mobilitando migliaia di persone nel paese che si presentarono nei vari ristoranti della catena per portare il loro sostegno.

Tuttavia, ancora più delle opinioni di Cathy, a infastidire gli attivisti LGBT e i loro simpatizzanti è la politica di donazioni dell’azienda, che ha distribuito più volte soldi ad associazioni omofobe e contrarie ai diritti delle persone omosessuali.
Ad esempio, secondo i dati raccolti dagli attivisti LGBT di Equality Matters, nel 2010 Cathy avrebbe donato attraverso la sua fondazione, la WinShape Foundation: 1,1 milioni di dollari alla Marriage&Family Foundation, un gruppo che promuove il cosiddetto matrimonio tradizionale e che si oppone sia al divorzio sia ai matrimoni gay; 480mila dollari alla “Fellowship of Christian Athletes”, un’organizzazione di atletica che richiede ai suoi membri di sottoscrivere una dichiarazione di “purezza sessuale” e che condanna le persone LGBT a causa del loro “stile di vita impuro”; e mille dollari alla Exodus International, un gruppo che promuove la terapia di conversione dell’orientamento sessuale.
Nonostante Chick-fil-A si sia così fatto la fama di essere il fast food del pollo dei bianchi, religiosi e conservatori degli stati del Sud, anche molte persone che non condividono necessariamente i valori di Cathy, ma che apprezzano il buon cibo e le buone maniere, hanno continuato ad andarci.
Ora però le cose sembrano sul punto di cambiare: il monopolio nazionale di Chick-fil-A sui fast food del pollo vacilla, perché una catena più economica e più alla mano, Popeyes, si sta imponendo come alternativa, anche grazie alla sua vicinanza alla comunità afroamericana (la maggior parte dei ristoranti di Popeyes si trova nei quartieri abitati dai neri, dove Chick-fil-A è quasi assente); una maggiore inclusività che si traduce anche sul piano dei diritti LGBT.
Forse è anche per questo che lo scorso Chick-fil-A nel 2019 ha dichiarato che rivedrà la sua politica in materia di donazioni, togliendo il riferimento alle organizzazioni anti-gay e prevedendo di destinare nel 2020 nove milioni a tre iniziative principali: la promozione dell’educazione giovanile, la lotta alla fame e il sostegno ai senza tetto.
La vicenda di Chick-fil-A mostra come le attività commerciali negli Stati Uniti sono oggetto di un controllo sempre più rigoroso da parte degli attivisti LGBT e, più in generale, dei consumatori.
Questo controllo può prendere varie forme: una di esse è il “Corporate Equality Index”, la relazione annuale stilata dalla Human Rights Campaign, organizzazione che opera a sostegno dei diritti LGBT e che dà un voto ai posti di lavoro in America in base al trattamento riservato a impiegati e clienti lesbiche, gay e transgender.
In cima alla classifica ci sono alcuni grandi rivenditori americani come Amazon.com, Kroger, Walgreens and Walmart, promossi a pieni voti dalla Human Rights Campaign, con una valutazione pari a 100, il punteggio più alto, che è valso loro il titolo di “Best Place to Work”, ovvero miglior posto di lavoro per gli impiegati LGBT.
Il caso di Walmart è particolarmente interessante. In quanto catena più grande al mondo nel canale della distribuzione organizzata, Walmart svolge infatti un ruolo cruciale nel plasmare la cultura popolare statunitense e, in questo senso, la scelta, netta, del gigante nel settore della vendita al dettaglio di abbracciare la causa LGBT è indicativa di una trasformazione profonda che coinvolge la middle class, il ceto medio statunitense.
È difficile dimenticare quando nel 2015 Walmart, che è tra l’altro il più grande datore di lavoro al mondo nel settore privato, pubblicò su Twitter una dichiarazione ufficiale che invitava il governatore della Arkansas, Asa Hutchinson, a mettere il veto sulla proposta di legge HB 1228, la “legge sulla libertà religiosa” che avrebbe permesso alle aziende di negare i loro servizi ai clienti omosessuali, usando come giustificazione la propria convinzione religiosa.

Hutchinson alla fine cedette alle pressioni, provenienti anche da altri pesi massimi dell’industria statunitense, come Apple e Acxiom, e la proposta di legge venne emendata modificando il passaggio incriminato.
Lo scontro tra supporter della “libertà religiosa” e sostenitori dei diritti gay venne replicato secondo lo stesso schema in Georgia, nel 2016, quando un’altra “legge sulla libertà religiosa” arrivò sul tavolo del governatore, il repubblicano Nathan Deal. Lo stato, noto anche come Hollywood del sud, perché qui l’industria cinematografica dà lavoro a 92mila persone, dovette fare i conti con la minaccia di disinvestire delle case di produzione.
Walt Disney dichiarò:
Contiamo di spostare la nostra produzione altrove se le pratiche discriminatorie diventeranno legge dello stato.
Una posizione simile a quella di AMC Network, che in Georgia ha girato “The Walking Dead”, ma anche di molti giganti che operano in altri settori, come Viacom, Delta, Coca-Cola, Unilever e Intel.
Il dibattito infiammò anche il mondo dello sport, con due prestigiose squadre della capitale Atlanta, i Falcons, compagine professionistica di football americano, e i Braves, squadra professionistica di baseball, che presero pubblicamente le distanze dalla legge fatta per tutelare gli oppositori dei matrimoni gay.
Intervenne perfino la National Football League, la maggiore lega professionistica nordamericana di football americano, che si spinse fino a minacciare di boicottare Atlanta nella scelta della sede per il Super Bowl.
Di fronte a questa levata di scudi, il governatore Nathan Dean preferì andare contro il suo partito e mettere il veto sulla proposta di legge.

Forse avrà avuto paura di fare la fine di Mike Pence, l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, che nel 2015, quando era governatore dell’Indiana, firmò il “Religious Freedom Restoration Act”, provvedimento che permise a società e commercianti dello stato di negare i propri servizi agli omosessuali per convinzione religiosa, e, così facendo, innescò uno scontro politico di dimensioni nazionali che alla fine si ritorse contro lo stesso Pence, che divenne vittima di una gogna mediatica.
Con l’opinione pubblica americana decisamente a favore dei matrimoni gay, contro il crociato Pence – uno che si autodefinisce “cristiano, conservatore e repubblicano, in questo ordine” – si schierarono le principali corporation americane, a cominciare da Apple, il cui amministratore delegato Tim Cook, nel 2014, aveva reso pubblica la propria omosessualità definendola “un dono di Dio”.
Insomma, l’omofobia fa male agli affari, e Pence lo ha imparato sulla propria pelle, con una serie di aziende che si sono ritirate dallo stato, a cominciare dal colosso tecnologico Salesforce, che cancellò immediatamente tutti i programmi che richiedevano ai suoi clienti/dipendenti di viaggiare in indiana.
Il boicottaggio pro-LGBT non fa sconti, nemmeno a chi si trova al di fuori dei confini americani. Si pensi a quando lo scorso anno George Clooney denunciò in un intervento su Deadline, sito dedicato alle notizie sull’industria dell’intrattenimento, una legge del sultanato del Brunei, che condannava i cittadini gay a essere lapidati a morte.
L’attore hollywoodiano invitò a colpire gli interessi del sultano del Brunei boicottando gli hotel di super lusso del gruppo Dorchester Collection: due di essi sono a Londra (The Dorchester e 45 Park Lane), un altro è sempre nel Regno Unito (Coworth Park), due negli Stati Uniti (The Beverly Hills Hotel e Hotel Bel-Air), due a Parigi (Le Meurice e Hotel Plaza Athenee) e, dulcis in fundo, due sono in Italia: l’Hotel Eden a Roma e il Principe di Savoia a Milano.

A seguire con particolare solerzia l’invito di Clooney, al quale nel frattempo si erano unite due icone della comunità gay del calibro di Elton John e Ellen DeGeneres, una sfilza di gruppi bancari, che hanno introdotto il divieto per i loro impiegati di pernottare presso gli hotel di proprietà del sultano del Brunei. La lista è lunga e include J.P. Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, CitiGroup, Jefferies, Morgan Stanley e Nomura.
Alla fine, le pressioni della comunità internazionale, compreso il boicottaggio degli hotel di lusso, sono state tali che hanno convinto il sultano del Brunei, Hassanal Bolkiah, a fare una parziale retromarcia e ad annunciare una moratoria sulla pena capitale prevista per gay, adulteri e stupratori.
Le pratiche di boicottaggio funzionano, eccome! Lo dimostra una volta di più la recente controversia che ha coinvolto il canale televisivo Hallmark, che trasmette in oltre cento paesi, e che lo scorso anno si è trovato a fare i conti con una denuncia dell’associazione One Million Moms (“Un milione di mamme”, parte dell’American Family Association, organizzazione che si oppone ai diritti LGBT e all’aborto).
Il fatto incriminato fa riferimento alla messa in onda di una serie di spot per un sito dedicato all’organizzazione di matrimoni, Zola, che hanno per protagoniste due spose che si baciano sull’altare.

Apriti cielo! Per accontentare le mamme preoccupate che lo spot di Zola potesse corrompere le menti dei loro figli, Hallmark ha ritirato lo spot, scatenando così invece l’ira di celebrità come Ellen DeGeneres e William Shatner, che hanno criticato la mossa lanciano l’hashtag #BoycottHallmarkChannel (tradotto, boicotta Hallmark), il quale ha riscosso un certo successo su Twitter.
Stretta tra l’incudine e il martello, la direzione di Hallmark ha deciso alla fine di reintrodurre gli spot, con buona pace delle organizzazioni conservatrici che ne avevano preteso la rimozione.
Nell’America di Trump, dove il governo federale non muove un dito per la comunità LGBT, sono state quindi le imprese a ergersi a difesa dell’applicazione dei principi di libertà e uguaglianza, ad avere la volontà e la forza di opporsi alla discriminazione.
Discrimination is bad for business,
la discriminazione fa male agli affari, tuonò Tim Cock in occasione dell’approvazione in Indiana della contestata legge sulla libertà di religione. Le sue sono parole che colgono un fenomeno che è socio-culturale ancor prima che economico: l’apertura della maggior parte degli americani in materia di diritti LGBT.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!