Piangiamo Kobe Bryant, la sua grandezza e le sue dimensioni mostruose perché era una figura che andava al di là dello sport e del suo amato basket. Lo piangiamo perché ha segnato un’epoca come pochi altri campioni hanno saputo fare, perché amava il nostro paese al punto che persino il presidente Mattarella ha avvertito il bisogno di rendergli omaggio, perché era simpatico, dolce e umano come solo i giganti buoni sanno essere.
E poi perché la morte, specie quando colpisce un eroe ancora in giovane età, e peggio che mai sua figlia di soli tredici anni, ti costringe a riflettere su quegli aspetti della vita cui troppo spesso tendiamo colpevolmente a non dare il giusto peso.

Kobe Bryant amava l’Italia perché qui era vissuto e aveva studiato nelle nostre scuole, mentre suo padre dava il meglio di sé in una pallacanestro ancora allo stato primordiale che, anche grazie a lui, è riuscita in parte ad affermarsi nel cuore di una nazione di calciofili incalliti.
Kobe, approfittando del suo fisico prestante, ci aveva provato anche col calcio ma capì ben presto che non era cosa: non aveva tecnica, non aveva classe, finiva spesso in porta per il semplice motivo che vagli a segnare a uno che, già da bambino, era una montagna! E così si è dato al basket, lo sport per cui era nato e quello che lo ha reso ricco e celebre in ogni angolo del mondo.
Vent’anni sempre nelle file della stessa squadra, i Los Angelese Lakers, con la loro caratteristica divisa gialloviola e i loro fenomeni strapagati che hanno contribuito a diffondere il mito della palla a spicchi a tutte le latitudini.
Kobe Bryant e Shaquille O’Neal: due fenomeni senza eguali, due miti che solo Michael Jordan era stato in grado di precedere e solo LeBron James è stato poi in grado di fare, in parte, rivivere.
Kobe era la mente, Shaq il braccio. Immarcabili, imprendibili, a tratti anche vanitosi, come tutti i divi sanno essere al momento opportuno. Mai banali, però, mai volgari, violenti o pronti ad approfittarsi del proprio strapotere per mancare di rispetto agli avversari.
Kobe, come detto, era un gigante buono, con un cuore grande così, tifoso del Milan, innamorato di Reggio Emilia, della nostra cucina e delle nostre tradizioni, e qui avrebbe voluto aprire una scuola per diffondere i valori non solo del basket e dello sport ma anche della vita, dello stare insieme, dell’amicizia e della condivisione solidale. Un americano italianissimo, insomma, europeo nei modi e nella concezione della società, americano vero solo nell’idea del sogno, della speranza e della sfida che prevale sempre sulla prudenza, anche quando, forse, non ce ne sarebbe bisogno.

Kobe amava giocare, amava i suoi figli, amava i bambini in generale, amava vivere e credeva nel prossimo. Non si rassegnava al male, all’orrore, alla crisi epocale che sta squassando l’Occidente in seguito all’esplosione di una crisi che ha finito col minare i princìpi basilari che davamo ormai per scontati.
A modo suo, era un ribelle, sempre pronto a battersi in nome del bene e della giustizia, una sorta di cavaliere senza macchia e senza paura che sembrava già in vita un personaggio delle favole. Ora che se n’è andato, a soli quarantun anni, il mito si è trasformato in leggenda e un giorno lo racconteremo ai nostri figli e nipoti, noi che abbiamo avuto l’onore di essergli contemporanei, di vederlo giocare e, ahi noi, anche di vederlo svanire per sempre in una fredda domenica di gennaio, mentre avevamo la testa rivolta a elezioni che ci apparivano epocali e di cui solo adesso comprendiamo la minuzia al cospetto di ciò che conta realmente.
Kobe Bryant si rivolge a Saša Vujačić parlando in italiano! FENOMENO!

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1 commento
Non comprendo bene: elezioni locali ma di grande importanza per il futuro assetto politico e sociale dell’Italia (Paese di cui siamo cittadini e che riveste ancora una certa importanza, almeno a livello europeo e mediterraneo) sarebbero minuzie di fronte alla morte di Kobe Bryant? O di fronte alla morte di chiunque muoia anzitempo (diciamo prima dei 50 anni)? O è proprio la figura di Bryant a nanificare l’importanza delle elezioni? E le legioni di persone che, in silenzio e senza nessun riconoscimento al di fuori di quello che può venire loro (quando va bene) da una cerchia ridottissima di amici parenti e colleghi, pure non si rassegnano al male e all’orrore?
Non è per fare del facile populismo e qualunquismo ma, con tutta la stima per il defunto e il cordoglio per la perdita di una vita ancora nel fiore dell’età, Kobe Bryant era un atleta privilegiato, a differenza di molti altri che pure hanno orrore delle ingiustizie, prima ancora che economicamente da un talento innato (che è indiscutibilmente un prodotto della fortuna e del caso) e che è morto, in un’epoca di discussioni asperrime sul riscaldamento globale ed in generale su una cultura consumista fine a se stessa e autodistruttiva (e su come combatterli), in un incidente in elicottero, mezzo di cui a quanto pare si serviva abitualmente e che è, come si sa, non tra i più ecologici e nemmeno dei più sicuri.
Rispetto per Bryant se veramente, come scrivono i suoi apologeti, non si è fatto corrompere dal denaro e dallo fama e ha mantenuto intatta la propria umanità: ma è sufficiente questo per chiamarlo eroe? Non mi ricordo più chi ha detto “beato quel Paese che non ha bisogno di eroi”. Io aggiungerei anche “beato quel giornalista che non ne ha bisogno”.