I saharawi e altri popoli dimenticati

UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Sono i “dimenticati” del Vicino Oriente e del Sahel. Di loro non si parla perché non “fanno notizia”, se non quando entrano in cronache di guerra. Ma esistono e rivendicano la propria identità, difendono i propri diritti e spazi di libertà dentro Stati che questa libertà la negano. Sono i saharawi, i berberi, i copti egiziani. Sono minoranze che non “pretendono” di farsi Stato, ma che hanno bisogno, un bisogno vitale, di  una “patria” identitaria.

Un muro lungo quasi 2.700 km, chiamato berm, separa la zona occupata dal Marocco dalla lingua di terra liberata dal Fronte Polisario. Costruito con pietre e sabbia e riempito di mine antiuomo, il “muro della vergogna” o “muro marocchino” fu costruito in più momenti a partire dagli anni Ottanta, separando definitivamente le famiglie saharawi che vivevano a cavallo delle due zone. Protetto da 160.000 soldati armati, 240 batterie di artiglieria pesante, più di ventimila chilometri di filo spinato, mille veicoli blindati e milioni di mine antiuomo proibite dalla convenzione internazionale. La sua costruzione è costata milioni di dollari e il suo mantenimento costa altrettanto. Questa grande muraglia divide un intero popolo dal suo territorio da un quarto di secolo sotto gli occhi testimoni della comunità internazionale. Una muraglia militare che ha causato centinaia di vittime da una parte e dall’altra dello stesso.

Il muro delle vergogna, il più lungo del mondo

Nonostante l’inferiorità numerica, il Fronte Polisario, supportato dal governo algerino e dalla popolazione sahrawi, riportò un incredibile numero di vittorie contro la potenza occupante, almeno finché il Marocco non decise di reagire costruendo, per l’appunto,  un muro invalicabile.

Un nuovo fronte di lotta il Polisario l’ha trovato nel diritto internazionale: sempre di più i suoi giuristi fanno appello alle istanze sovranazionali, per obbligare il Marocco a interrompere lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale. Queste sono di due tipi: i giacimenti di fosfati e il pesce di cui sono ricche le sue coste. Il cessate il fuoco fu concordato tra i belligeranti nel 1991 e sorvegliato da una missione di caschi blu (Minurso). Il referendum d’autodeterminazione fissato dall’Onu per gennaio 1992, che doveva sancire il diritto del popolo saharawi a scegliere tra l’indipendenza e l’annessione al Marocco, slittò e fu indetto più volte incontrando il continuo boicottaggio del re del Marocco.

Il Marocco insiste nel rifiuto di criteri concordati nel piano di pace e continua a inviare coloni nel Sahara Occidentale che intasano gli uffici Minurso con cause d’appello contro l’esclusione dalle liste elettorali.

Oltre a un’intensa colonizzazione portata avanti dagli anni Ottanta il Marocco ha ripreso lo sfruttamento delle miniere di fosfati e dei ricchissimi banchi di pesca lungo le coste atlantiche occupate. I saharawi oggi vivono dispersi e divisi tra i territori occupati dal Marocco, o nomadi nei territori liberati mentre la parte più numerosa è stata costretta ad abbandonare la propria terra rifugiandosi nei campi profughi nel deserto algerino. Si calcola siano duecentomila i saharawi residenti nei campi profughi vicino a Tindouf, nell’estremo sud-ovest dell’Algeria.

I campi profughi saharawi costituiscono un’eccezione: prima di tutto sono autogestiti, in secondo luogo questa autogestione è in mano alle donne, che si sono ritrovate sin dall’inizio a gestire l’intera organizzazione dei campi, quando gli uomini erano impegnati al fronte. Le donne parlano in pubblico, stringono le mani, accolgono nella loro tenda gli stranieri. Molti tabù se ne vanno nel dimenticatoio.

I Sahrawi lottano da oltre trent’anni per non essere isolati, per istruirsi, lavorare, crescere anche nell’esilio come popolo e come individui.

Rivendicare la propria identità dentro gli Stati nei quali vivono. Sono i Berberi.  In Marocco, la presenza berbera è maggioritaria in alcune regioni, come in quella settentrionale del Rif, e il movimento combatte da anni una battaglia per consolidare i propri diritti. I tentativi di darsi una rappresentanza politica sono stati puntualmente stroncati sul nascere, mentre una certa libertà è stata concessa sul piano culturale. Il regime ha utilizzato la politica del bastone e della carota per scoraggiare l’associazionismo indipendente. Tuttavia, una parte delle organizzazioni berbere ha partecipato al movimento di protesta che ha investito il paese all’inizio dello scorso anno.

Diverse associazioni sono entrate a far parte del Movimento 20 Febbraio e in questo contesto hanno subito la repressione contro la protesta popolare. Dopo l’annuncio da parte di re Mohammed VI di una nuova costituzione, hanno moltiplicato le iniziative per vedere riconosciuto a pieno titolo il tamazight come lingua ufficiale.

In verità, le associazioni si sono divise e quelle che non aderiscono al movimento hanno accettato di interloquire con la commissione preparatoria della costituzione. L’art. 5 della nuova legge, approvata con il referendum del 1° luglio 2011, riconosce il tamazight come una lingua ufficiale accanto all’arabo, che è la lingua ufficiale, e rinvia alla legge le modalità dell’integrazione dell’amazigh nella cultura e nel sistema scolastico del paese. Alcune associazioni hanno salutato questo riconoscimento, spingendosi fino a lodare il coraggio di Mohammed VI; altre, invece, restano vigili.

In Tunisia, sotto il regime di Ben Ali, i berberi e la loro cultura, erano stati ridotti a mera curiosità da sfruttare per i turisti in cerca dell’esotico, e privati di qualsiasi rappresentanza che avrebbe potuto spezzare il monopolio del regime sulla vita politica. La fuga del dittatore in Arabia Saudita ha favorito la libertà associativa e i berberi ne hanno subito approfittato per organizzarsi.

Nell’aprile 2011, hanno tenuto il primo congresso della loro storia, facendo sorgere l’Associazione tunisina di cultura amazigh, che ha poi ottenuto il riconoscimento. Rimane, comunque, in piedi la repressione di tutte le espressioni indipendenti, a dispetto della costituzione stessa. Il tempo dirà fino a che punto i berberi potranno godere di un reale spazio di libertà culturale (al di là del folclore), di espressione e di associazione.

I berberi in Libia stanno riscrivendo la loro storia da quando Gheddafi non c’è più. Durante il quarantennale regime del Rais, infatti, la comunità Amazigh, una delle più rilevanti minoranze del Paese, è stata fortemente perseguitata. L’ideologia nazionalista di Gheddafi è subito sfociata nel soffocamento repressivo di qualsiasi voce minoritaria. In nome dell’arabizzazione dello Stato, i berberi libici sono stati costretti a reprimere la loro identità. Lo stesso Gheddafi non ha esitato a negare ufficialmente l’esistenza di questa comunità.  Di conseguenza, la lingua berbera, il Tamazight, è stata vietata per decenni. Anche i nomi propri di origine Amazigh sono stati cancellati. Per molti anni, questa parte di popolazione libica è vissuta nella paura di esprimere le proprie origini. La storia dei berberi racconta privazioni gravi della libertà.

Una condizione che permane anche oggi.

Non voglio nemmeno immaginare cosa farebbe il generale Haftar alle minoranze non arabe se riuscisse a entrare a Tripoli:

a parlare con l’agenzia Dire è Asma Khalifa, 29 anni, attivista libica per le donne amazigh, una comunità berbera finita sulla linea del fronte. n Libia, sia a Tripoli che nella città di Zuara, più vicina al confine con la Tunisia, Asma coordina le attività di un’associazione che si batte per i diritti delle donne berbere.

Si chiama Tamazight Women’s Movement, vuole promuovere un percorso di sviluppo ma in momenti di conflitto come questo è davvero difficile

sottolinea l’attivista:

Bisogna dare risposte alle questioni che si pongono giorno dopo giorno, si tratti delle violenze di un marito o del rischio che un’altra bambina diventi sposa.

Gli amazigh, che vivono anche in Algeria e in Marocco, rappresentano circa l’otto-dieci per cento della popolazione della Libia. Presenti da Tripoli a Zuara fino ai Monti Nufusa, dunque nell’ovest controllato dal governo di Fayez Al-Serraj più che nell’est e nella Cirenaica di Haftar, parlano una lingua distinta dall’arabo, espressione di cultura e identità proprie. Secondo Asma, sul loro futuro pesano le connivenze e i sostegni internazionali sui quali il generale ha potuto contare per lanciare la sua offensiva il 4 aprile.

E di certo non se la passano meglio i copti egiziani. Sono circa dieci milioni i cristiani che vivono in Egitto. Minoranza nel Paese musulmano, costituiscono comunque la più grande comunità cristiana del Medio Oriente. Da secoli vivono sotto attacco ma negli ultimi anni le violenze sono state sempre più efferate. Ed ora si va a messa in chiese blindate, i vescovi camminano con la scorta e i giovani debbono usare anche con parsimonia i social network.

Una vita “blindata”, quella dei cristiani copti che celebrano messa con le guardie armate fuori i portoni, le telecamere dentro, anche sopra l’altare, e i tanti uomini della sicurezza in borghese sparsi a vigilare tra i banchi. Nel 2019, per la prima volta nella storia del premio Nobel c’è stata la candidatura di un gruppo etnico religioso, i copti egiziani.

Questa candidatura- rimarca Agnese Zavani su una Voce nel silenzio –  deriva dal fatto che i crimini dello Stato islamico verso i cristiani copti sono aumentati negli anni, ma i cristiani copti non hanno mai risposto con la violenza a questi atti terroristici. Nonostante questi numerosi attentati e i soprusi giornalieri che subiscono, i cristiani copti, non hanno mai risposto violentemente, ma hanno solo protestato nelle sedi opportune, ottenendo però ben poco riscontro. Per questo modo, così giusto, corretto e molto religioso, di protestare ai soprusi, i cristiani copti hanno ottenuto questo grande riconoscimento, di poter far parte delle candidature al Nobel per la pace. Fra le varie motivazioni spicca proprio questa “il loro rifiuto di vendicarsi contro le persecuzioni mortali e continue da parte di governi e gruppi terroristici in Egitto e altrove”.

Preghiera in una delle chiese copte date alle fiamme nelle violenze anti-cristiane del 2013

Così Tawadros II Il capo della chiesa copta ortodossa: 

In Egitto ci sono ora due grandi battaglie: una contro il terrorismo e l’altra per lo sviluppo. La battaglia contro il terrorismo ha fatto molta strada. D’altra parte, gli attacchi terroristici che hanno luogo non colpiscono solo i copti, ma anche le forze armate e la polizia, e gli egiziani in generale. Tuttavia, ciò che le forze armate egiziane stanno facendo contro il terrorismo è enorme e ammirevole, e mi aspetto che questa battaglia finisca presto (…). I copti che sono venuti qui sono venuti in una nuova patria e in un nuovo ambiente. La chiesa cerca di preservare i loro legami e l’attaccamento alla loro patria, l’Egitto, e anche alla chiesa copta come chiesa madre. In generale, quando i copti lasciano l’Egitto e vanno a vivere in un altro paese, l’Egitto rimane nei loro cuori…

Cuori insanguinati. 

I saharawi e altri popoli dimenticati ultima modifica: 2020-01-30T18:23:03+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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