C’era una volta Cinematecnica. Intuitivamente: il cinema raccontato attraverso le tecniche che lo rendono possibile. Di solito venivano (vengono) trascurate, omesse o date per scontate. E si insisteva piuttosto sulle modalità del linguaggio, reso peraltro possibile proprio da quelle tecniche, di fatto imprescindibili. Si veda in proposito l’ottimo e documentatissimo lavoro di Carlo Montanaro Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, nuovamente in libreria per i tipi di [LINEA edizioni] dopo una prima versione nel quinto volume della monumentale Storia del cinema mondiale curata da Gian Piero Brunetta per Einaudi nel 2001.
Per noi, e per i molti veneziani, soprattutto studenti, che vi prendevano parte, Cinematecnica era, nella seconda metà degli anni Novanta, un modo nuovo per accostarsi al cinema scoprendone gli “arcani” funzionamenti. Nello specifico, una serie di corsi a cadenza annuale, in quel di Palazzo Bonvicini, sull’inquadratura, sul racconto, sull’attore, sulla regìa, sul montaggio, sulla luce, promossi dal Circuito Cinema Comunale e dal Dipartimento di Storia delle arti e conservazione dei beni artistici “Giuseppe Mazzariol” dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Auspice e regista il buon Giovanni Morelli, inventore di mille proficui “artefatti”. E alle tecniche l’Ateneo veneziano ci credeva così tanto, in quegli anni, da dedicarvi prima un diploma (Dutars, ovvero Diploma universitario in tecniche artistiche dello spettacolo) e poi addirittura un corso di laurea (Tars), attivo con soddisfazione e successo nel primo decennio del nuovo secolo. Prima di venir abbandonato. A proposito del buttar via le cose che funzionano…

Erano incontri con specialisti e tecnici delle singole “porzioni” di cinema, appositamente a Venezia per spiegare le loro conoscenze, implicite del fare ed esplicite del riflettere su quel fare. E si dice, tra i molti, dei registi Giuliano Montaldo, Mario Martone, Daniele Luchetti, Cristina Comencini, Ugo Gregoretti, Mario Brenta, Jean-Marie Straub, del mago del montaggio Roberto Perpignani e delle luci Marcello Gatti, e ancora, in ordine sparso, di Mario Bernardo, Anna Bonaiuto, Enzo Monteleone, Fernaldo Di Giammatteo, Giorgio Tinazzi, Paolo Bertetto, Italo Zannier, lo stesso Montanaro e tanti altri. L’elenco sarebbe lungo e siccome all’epoca non si buttava via niente, li ritrovate tutti, relatori e relazioni, nei sette quaderni monografici del Circuito Cinema pubblicati fra il 1994 e il 2000. Poi, in sofferta selezione, una ventina di loro nel volume Cinematecnica. Percorsi critici nella fabbrica dell’immaginario, edito da Bulzoni nel 2001, per le cure di chi scrive e di Fabrizio Borin, ideatori e coordinatori dei cicli.

Per la regìa pensammo (bene) di invitare anche Roberto Cicutto, che regista non era stato e mai verosimilmente sarà, oggi neopresidente della Biennale, all’epoca apprezzato produttore e distributore di film, in seguito manager del cinema pubblico sulla Tuscolana (Cinecittà, Istituto Luce, Centro Sperimentale). Perché l’idea era di capire se non fosse un po’ “autore” anche il produttore, al di là delle teoriche baziniane e facendo giustizia di tanti pregiudizi sul conto di una figura tanto fondamentale quanto mai troppo amata.
Sulla produzione: l’altra regìa s’intitolava la lezione e Cicutto non si fece certo scrupolo di dire la sua, senza difendere per principio la professione e piuttosto sottoponendo il produrre cinema ad una serrata analisi critica. Difficile dar conto, in questa sede, dei molti passaggi affrontati, con riferimento in particolare alle normative in materia di sostegno pubblico alla produzione, di coproduzioni e altro ancora. Mestiere difficile, specie quando uno (la generalità dei casi) non ha ingenti risorse personali da mettere in gioco, ovvero quando gioca da indipendente mentre il sistema, già allora e da un bel po’, andava verso le concentrazioni, le posizioni dominanti, l’occupazione verticale dei diversi segmenti della filiera. Prima del digitale e delle piattaforme.

Per restare al tema dell’altra regìa, l’esempio de La leggenda del santo bevitore, Leone d’oro alla Mostra nel 1989, prodotto dallo stesso Cicutto e nato da una sua intuizione, la lettura del racconto di Joseph Roth ben quattordici anni prima, gestazione lenta e lunga, passata per per molte mani e opinioni prima di arrivare alla regìa di Ermanno Olmi, peraltro nei luoghi, con le facce (il protagonista era Rutger Hauer), le atmosfere e le tonalità originariamente pensate dal produttore. per l’appunto nel caso un po’ “autore”. Ed anche, in veste di produttore/distributore, il cinema di Jane Campion, in particolare Un angelo alla mia tavola (1990), inizialmente pensato per la televisione e poi approdato con successo al grande schermo, aprendo alla regista le strade di un successo internazionale confermato e amplificato da Lezioni di piano (1993) e Ritratto di signora (1996).
Da distributore piuttosto che da produttore, spiegava Cicutto, perché quando le strade della coproduzione si fanno impervie, per via dei soliti impedimenti burocratici e normativi, accordi di distribuzione internazionale possono garantire medesimi risultati se vincolati ai principi non dissimili del rischio di impresa. E dunque, in quel lavoro che viene prima del set, andando abbondantemente oltre, la fantasia di praticare vie nuove. Su tutto, poi, concetto più volte ripreso, l’organizzazione, la pianificazione dell’impresa produttiva in ogni sua fase e singola componente, facendo naturalmente tesoro anche degli insuccessi (citati per nome e cognome), che non mancano mai a nessuno.
Il bello di quegli incontri di Cinematecnica risiedeva, nella maggior parte dei casi, anche nello spirito autenticamente seminariale, diciamo pure solidale, con cui le esperienze vissute di chi ce l’aveva fatta venivano trasmesse a chi s’accostava a quei temi accarezzando magari l’idea di cimentarsi un giorno nelle professioni del cinema. Si chiama empatia, oggi tanto strombazzata ma ieri, in fondo, assai più praticata nella spontaneità dei rapporti. Vi fu, quell’empatia, anche nell’incontro di Cicutto, che aveva esordito raccontando dei suoi trascorsi adolescenziali a Venezia (“andavo dalle suore a San Samuele, la domenica pomeriggio a vedere i film di cappa e spada… potevo scegliere tra venti sale”) e poi del suo trasferimento, diciottenne a Roma, perché c’era il cinema:
…pensando di iniziare una carriera cinematografica, mai come regista, mai come autore, non per falsa modestia, ma perché non avevo questo tipo di necessità, […] mentre l’aspetto organizzativo, questa cosa misteriosa, la figura del produttore, è sempre stata di grande fascino. [in La regìa, a cura di Fabrizio Borin e Roberto Ellero, Quaderni del Circuito Cinema n. 58, 1997]
E lì Cicutto inizierà dal gradino più basso, segretario di produzione (“praticamente quello che porta il caffè sul set o che si dà da fare per le cose più spicciole ma assolutamente essenziali dell’organizzazione”). Pazienza se fa tanto sogno americano o libro cuore, perché talvolta le cose vanno veramente così. E Cicutto era credibile perché smitizzava, sempre: nessun uomo solo al comando, neanche al cinema, produttore o regista che sia, e piuttosto il lavoro di squadra, la capacità di tenere insieme le motivazioni di tutti e di ciascuno. Chiudendo infine con una nota di sano razionale ottimismo:
Se posso permettermi di dare un consiglio utile, suggerisco con serenità a ciascun aspirante di interrogarsi mille e una volta se ha davvero la necessità di raccontare delle storie e di farle. […] Siccome tutti vogliono scrivere o vogliono dirigere o recitare e la competizione è enorme, cercare di darsi da fare, organizzarsi in gruppi di persone che vogliono fare il cinema, provare, rischiare, insistere, seguire dei contatti, inventarseli, smuovere le acque, studiare il linguaggio cinematografico, andare a scuola, partecipare ai premi, ai corsi ed ai concorsi, sganciarsi dal centralismo romano, anche troppo intasato… Creare dei poli locali, guardare ai meccanismi europei, pensare all’audiovisivo in senso lato.
Era ieri, vent’anni e passa fa, ma sembra oggi, forse con qualche magone in più per le cose che dovevano o potevano andare in altro modo. E Roberto Cicutto oggi è presidente della più importante e internazionale fra le istituzioni culturali del nostro paese, con il compito, certo, di non sperperare l’eredità di Baratta ma cercando, se possibile, di andare oltre. Orgoglioso della sua venezianità, magari qualche idea gli verrà per connettere più saldamente la Biennale alla città, sempre lustra la vetrina ma un occhio anche alla “officina”, dove gli attrezzi impolverati di Venezia riposano da tempo. Buon lavoro, Presidente!

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