Hammamet, è dove Craxi trascorse l’ultimo periodo della vita. Luogo d’esilio per i più vicini, per pensiero, al Psi d’allora. Viceversa, di fuga dalla giustizia per chi legge tuttora la “questione socialista” come un’ombra sulla vita democratica (ma perché “solo” il Psi craxiano sul banco degli imputati?) della Repubblica. E Hammamet titola anche il film di Amelio. Centrato primariamente sul periodo conclusivo della vicenda del leader socialista, la pellicola fa trasparire i temi politici solo di riflesso, nel loro riverberarsi nella vita della famiglia del leader socialista (splendidamente fatto rivivere, con particolare attenzione alla voce e al muover le mani di questi, dalla superlativa recitazione di Favino). In altri termini, il film, esplicitamente, evita di affrontare la “questione Craxi” politicamente.
L’attenzione è sul sentire di un leader sconfitto. Purtuttavia, inevitabilmente, l’arrivo di Hammamet nelle sale cinematografiche, combinandosi con la ricorrenza del ventennale della morte di Bettino Craxi, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica italiana, tuttora in modo divisivo, la vicenda del leader socialista; ciò conseguentemente porta a ripercorrere gli aspetti politici più salienti del suo percorso politico. Dunque, a un riesame della storia politica del Psi craxiano e a ragionare su quel periodo.
Forse Hammamet ha risvegliato tali curiosità politiche finanche per insoddisfazione per l’attuale condizione del sistema politico italiano. D’altronde, era inevitabile che il film stimolasse tutto ciò visto che, comunque, nella trama di Amelio la politica segue sempre come un’ombra il protagonista. Come capitò al Bettino Craxi “reale” che, probabilmente, a essa s’appassionò fino alla fine; né avrebbe potuto essere diversamente essendone parte costitutiva della vita.
Nondimeno, Hammamet principalmente guarda alla vicenda umana del leader ormai caduto. Purtuttavia, inevitabile, la politica erutta come lava dallo schermo quando, in una scena di grande interesse per capire il protagonista, Favino / Craxi, dettando alla figlia Stefania, distingue tra “popolo” e “gente” (richiamando il senso democratico del primo e l’informe politico della seconda). Di qui al presente il passo è breve, quale sia la stessa valutazione del segretario socialista. Sono tematiche che chiamano all’attualità perché riportano a un tema decisivo: la possibilità stessa, oggi prima della politica poi della sinistra, nell’Occidente, del cosiddetto “capitalismo post-fordista”, considerandone la composizione di ceti e classi (termine questo ancora presente in Craxi e, correttamente, richiamato pure da Favino).
Quindi l’Hammamet di Amelio può essere l’occasione, andando oltre il fine primo dell’opera (la durezza dell’impotenza e della solitudine per un uomo già pubblico) per discutere criticamente, ma in una prospettiva contemporanea, l’opera del leader socialista. Naturalmente, senza la presunzione di poter trarre un bilancio definitivo di una vicenda che ancora accende gli animi. Cui aggiungere che tuttora un rendiconto preciso della fine della Prima repubblica, di cui il Craxi politico fu emblema tragicamente rappresentativo, manca nella sua completezza. Vicende troppo vicine, probabilmente; e con troppi riverberi nella lotta politica attuale. Vero, forse, per un giudizio definitivo; ciò nondimeno, ragionare sull’immediato passato della Repubblica per meglio affrontare il suo presente, pare essere compito necessario.
A suo modo, l’attenzione suscitata dall’Hammamet di Amelio lo dimostra. Ma il film ricorda al contempo che la figura del leader socialista è tuttora motivo, come detto, di polemiche. Segno di questioni irrisolte nello sviluppo della nostra democrazia. Ciò posto, è però innegabile, nel gioco di luci e ombre della vicenda, che la riflessione su Craxi e la svolta da questi impressa al Psi debba fare i conti anche con l’esito finale, dissipativo (il collasso del Psi stesso, di questa esperienza; e, in parte, della stessa Prima repubblica). Farne del Segretario del Psi l’unico capro espiatorio sarebbe assurdo; pur tuttavia, è lecito provare a cogliere le responsabilità oggettive di chi ne fu comunque protagonista.
Lecito allora l’interrogativo: se avesse vinto l’ipotesi iniziale di Craxi di fare del Psi il riferimento della sinistra, con la conseguente socialdemocratizzazione o liquidazione del Pci, l’evoluzione del sistema politico italiano sarebbe stata diversa? Probabilmente; ma va pure detto che essa fu rapidamente abbandonata dallo stesso Craxi. Che, specie nell’ultima parte degli anni Ottanta del XX° secolo, spinto dalla necessità di cercarsi uno spazio tra Dc/Pci, cercò il consenso in quelli che allora apparivano settori sociali emergenti (in parte lo furono annunciando lo spostamento del baricentro industriale dell’Italia più a Est e lungo la costiera adriatica) e disponibili a voltar le spalle ai poli tradizionali della politica italiana. Ma vi diede un’interpretazione riduttiva: la famosa “Milano da bere”. Così il Psi finì in un’illusione, in fondo erano quelli pur sempre i tempi del cosiddetto “edonismo reaganiano”, da “spaghetti neocapitalismo”: autorealizzazione individuale attraverso un’ecologia industriale minimalista che, dopo Craxi, avrà pure, con nuovi riflessi politici, i suoi problemi di adattamento con l’euro. E lì il Psi s’arenò.
Comunque, resta valido il quesito: senza il crollo del Partito socialista di Craxi il sistema politico e la Sinistra in Italia sarebbero entrati più solidi nel difficile XXI° secolo? Ed anche ad interrogarsi, ripercorrendo quegli anni Ottanta del Novecento dove il Psi parve all’apogeo, se allora l’Italia, per la responsabilità delle leadership del tempo compresa la socialista, abbia preso qualche strada pericolosa (Paolo Di Martino, Michelangelo Vasta, Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano), quasi illudendosi col “piccolo è bello” di aver elaborato una propria via “felice” al post-fordismo. Idee tra l’altro, come già accennato, fortemente attrattive – e certo aspetti positivi c’erano – per la visione del Psi di Craxi. Cionondimeno, forse è proprio questo il vero limite del socialismo di Craxi che ne limita il valore come patrimonio ereditario per la sinistra e, in genere, il Paese.

Dunque, questi fu eletto segretario del Psi il 16 luglio 1976 dal comitato centrale del partito riunitosi all’hotel Midas di Roma. Per assurdo, guardando agli eventi successivi, la segreteria di Craxi nacque come debole perché le componenti del Psi, senza l’accordo su di una figura forte, puntavano a un uomo di transizione (in apparenza facilmente liquidabile perché della corrente autonomista che era la minore). Lo scopo era quello sia di riprendere fiato dopo una batosta elettorale di poco precedente (il partito sotto era andato sotto il dieci per cento) sia per iniziare a riposizionarsi nei confronti dell’importante partito-cugino, il comunista. Pertanto, la vera segreteria di Craxi, col pieno controllo del partito, inizia nel 1980 dopo il fallito tentativo di sostituirlo alla segreteria da parte della stessa maggioranza che l’aveva eletto al Midas (lombardiani e giolittiani).
Fu allora, infatti, che prese avvio in senso proprio il craxismo. Alla cui base stava il tentativo, come sostiene il “vecchio socialista” Rino Formica, di proporre “elementi di dinamica e di rottura rispetto ai “blocchi consolidati” (La Stampa, 19 gennaio 2020) per alterare “equilibrio di potere consolidatosi in un paese di frontiera tra l’Occidente atlantico e il mondo d’osservanza sovietica. In sostanza, rispetto all’assetto del sistema politico del tempo, il tentativo socialista fu di superare quel bipartitismo imperfetto (Giorgio Galli, Il bipartitismo imperfetto) che sostanzialmente riproduceva nella dinamica maggioranza (la Dc e alleati) – opposizione (Pci) le divisioni della guerra fredda. Di qui l’introduzione dell’idea di riforma costituzionale che di fatto avrebbe dovuto portare nel tempo alla “democrazia dell’alternanza”, disincagliando la logica politica tipica della Prima repubblica.

Tuttavia, il progetto craxiano implicava un conflitto durissimo con l’area comunista per una semplice ragione geopolitica. Difatti, data la parte della Guerra fredda in cui era l’Italia, l’introdurvi la logica in stile Westminster dell’alternanza democratica (se la strategia della riforma istituzionale fosse riuscita a questo di fatto avrebbe portato) implicava di per sé stessa una dura riduzione della forza elettorale del Pci ed un netto passaggio dei rapporti di forza a favore del Psi. D’altronde, questo imponeva la divisione del mondo in blocchi.
Altro discorso sarebbe stato se il primo partito a sinistra fosse risultato il Psi. A riprova, in quegli stessi anni Mitterrand riuscì a portare le sinistre al governo di Francia, prima però costruendo una solida egemonia socialista sulla sinistra. Ma senza dubbio, come pare intuisse il Psi, egli era favorito dalla costituzione gollista. Inoltre, il rigetto berlingueriano di un evoluzione del Pci verso la socialdemocrazia (qui l’eurocomunismo restava un “animale mitologico”) era un macigno difficilmente sormontabile. Alla fine, il segretario socialista dovette constatare il carattere utopico del progetto in Italia ed il suo fallimento.
Fu in quel contesto di lotta politica che Craxi, cercando di legittimare il suo autonomismo, riscoprì Proudhon, un anarco-socialista dell’Ottocento, fortemente polemico con l’autoritarismo che egli vedeva strettamente connesso alla visione marxista. Lo fece, in primis, per combattere l’egemonia culturale del Pci; tuttavia, il suo richiamarsi a Proudhon consente anche di cogliere in Craxi e nel suo partito un’identità, certo anticomunista, ma al contempo espressiva di un aspetto romantico (autogestionario più che propriamente socialdemocratico) del socialismo non-marxista. E il cui fulcro, contrapponendo “i socialisti che cercavano giustizia tra gli individui e quelli che enfatizzavano la razionale allocazione del lavoro e della ricompensa e non erano interessati ai diritti e alla giustizia” (Alan Ryan, Storia del pensiero politico), era quello di anteporre sempre l’individuo allo Stato. Un punto dubbio e di scontro poi esplicitatosi affrontando la “questione terrorismo”.

Quello di Proudhon era un socialismo libertario, con venature anarchiche, che negava sia la proprietà collettivistica sia quella capitalistica accettando, viceversa, la piccola proprietà (equivalente a libertà), purché diretta espressione del lavoro: un visione romantica, con venature nostalgico/reazionarie dinanzi alle grandi imprese tecnologiche del capitalismo contemporaneo. Cionondimeno, capace di fare da “rompighiaccio”, era proprio questo l’intento di Craxi, rispetto agli equilibri da Guerra fredda dell’Italia del tempo. Soprattutto, Proudhon offriva al socialismo craxiano una piattaforma ideale – ma con gli ineludibili limiti economici e valoriali della visione di Proudhon – per provare a scalzare, nel nome dell’alternativa, il radicamento socio/culturale, del Pci. Però, l’ipotesi craxiana di rompere il “bipartitismo imperfetto” fallì.
E questo portò il Psi, sentendosi un “pesce in rete”, ad un duro confronto col Pci e a trasferire (Salvatore Rossi, La politica economica italiana dal 1968 a oggi) “all’interno della coalizione di governo la dialettica tipica del confronto maggioranza-opposizione”. Ciò comportò, oltre ad effetti micidiali per la finanza pubblica, anche una modifica della fibra del Psi. Il che probabilmente creò le condizioni per le quali, arrivata la tempesta giudiziaria, il partito collassò su se stesso. E Craxi, probabilmente, sottovalutò la questione. Così, al crollo del Muro, nulla venne al segretario socialista che da sempre aveva visto nel comunismo moscovita un’antitesi illiberale al socialismo e la cui crisi aveva intuito e, certo, auspicato.

Di questa stagione resta l’intuizione politica più importante di Bettino Craxi: mettere mano a uno dei limiti costitutivi della Repubblica, la debolezza istituzionale dell’esecutivo. Tema che l’Italia si trascina addirittura dal Risorgimento (fino al 1947 la presidenza del Consiglio neppure aveva sede, avendola presso il ministero degli Interni). Nel secondo dopoguerra a compensare questa debolezza furono le forze politiche – i “grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma” (Palmiro Togliatti, Assemblea costituente) -. Tuttavia, senza solide istituzioni, che inquadrino normativamente questi stessi (da sempre lettera morta in tema di attuazione costituzionale), la democrazia è destinata a permanere fragile; e la nostra lo è. Una tematica che il leader socialista, seppure impossibilitato a risolvere, intuì, isolato politicamente, perfettamente.
Viceversa, la strada intrapresa dalla “Repubblica dei partiti” per legittimare il sistema politico, più consona a Dc e Pci, fu quella consociativa. In specie, dinanzi alle sfide (crisi energetica e terrorismo) degli Settanta del XX°, questi provarono a bypassare – almeno nelle aule parlamentari – perché in ambito governativo si sarebbero urtati i vincoli geopolitici – la “conventio ad excludendum” (Leopoldo Elia, Forme di governo) del Pci al governo.

Così si modificarono i regolamenti parlamentari (1971), aprendo a una politica parlamentare-assembleare. In vero, non fu un’assoluta novità perché la reciproca attrazione tra Dc e Pci, pur nello scontro, fu un leitmotiv della “Repubblica dei partiti” (sulle sue patologie Giuseppe Maranini, Storia del potere in Italia); ma tale modalità politica divenne totalmente egemone al tempo della “solidarietà nazionale” (la partecipazione del Pci alla maggioranza parlamentare di governo). Logico che il Psi craxiano, sentendosi strangolare, provasse a forzarne l’equilibrio.

L’occasione venne all’esaurirsi dell’esperienza della “solidarietà nazionale (per ragioni economiche e per il conseguente logorio del consenso del Pci) e per l’arrivo della crisi degli euromissili (dopo una partenza moderata, a favore di una sorta di opzione zero, poi il Pci, nonostante il dispiegamento degli SS-20 sovietici, al di là della narrazione pacifista assunse il punto di vista dell’Urss). Ciò aprì la strada a Craxi, compresa l’esperienza a Palazzo Chigi, per provare a modificare le regole del gioco della politica italiana e corrodere il duopolio Dc/Pci. In apparenza, era il momento per porre mano alla Grande Riforma già prima annunciata sull’Avanti! del dicembre 1979 titolandola “Ottava Legislatura”.
Era la prima volta dal 1948 che un leader politico di vertice sosteneva l’opportunità di superare l’anomalia italiana di una forma di governo poco definita in Costituzione (Carlo Fusaro, Per una storia delle riforme istituzionali 1949/2015). Il progetto, però, s’arenò e, come disse Craxi stesso, tutto si risolse in “un inutile abbaiare alla luna”. Lo fu perché la riforma proposta – elezione diretta del presidente della Repubblica (vari i modelli in nuce possibili, da quello francese a quello statunitense fino al mantenere i poteri presidenziali attuali invariati ma rafforzati dall’elezione diretta) – trovò l’ostilità del conservatorismo istituzionale sia di larga parte della Dc che del Pci di Berlinguer. Di conseguenza, in Parlamento mancò il sostegno a essa; e così s’affievolì pure la spinta propulsiva del Psi craxiano che progressivamente ridusse l’idea di innovazione istituzionale a un futuribile per forza di cose senza prassi. Ma qui Craxi fu, quantomeno, un anticipatore dei tempi.
Più controverse, invece, altre posizioni del segretario socialista: a esempio, la sua posizione trattativista nel “caso Moro”, il leader politico sequestrato dalle BR. Quale ne fu la ratio? Probabilmente, almeno parzialmente vi influì il desiderio di smarcare la propria leadership dal blocco ostile al negoziato Dc/Pci (soprattutto quest’ultimo). Ma sarebbe riduttivo perché sulla sua idea di aprire canali di comunicazione con la BR, pure sfruttando la possibilità di relazioni che il Psi allora aveva con aree contigue, sicuramente molto pesava la convinzione di Craxi (ecco il socialismo umanitario alla Proudhon che tornava) che l’uomo viene prima dello Stato. Opinabile ideologicamente, l’iniziativa craxiana fallì per la preminenza sul campo di forze ostile alla trattativa. Convinto che questa avrebbe, per gli agenti e carabinieri caduti, trovato l’ostilità delle forze di sicurezza; e, comprensibile, timoroso di così legittimare le BR.

Particolarmente dubbia fu pure la posizione di Craxi sulla guerra della Falkland del 1982 tra il Regno Unito della Thatcher e l’Argentina, allora governata da una Giunta militare. Il risultato fu che l’Italia ruppe il fronte occidentale e si differenziò dai partner europei solidali con Londra durante tutto il conflitto. Se fu uno sbaglio, dipese dal solo Craxi? No. Infatti, se l’Italia annacquò l’iniziale favore per l’azione del Regno Unito, fu per il convergere di tutte le maggiori forze politiche del Paese, anche condizionate dalle pressioni delle associazioni degli italiani in Argentina. Pertanto, al di là della capacità di pressione di queste ultime, se fu un errore Craxi lo condivise con gran parte della classe politica italiana che altresì sopravvaluto le chances di vittoria argentina (Luigi Vittorio Ferraris, Manuale di politica estera italiana 1943-1993). Piuttosto, stupisce che il Psi craxiano, pur intenzionato ad esibire una posizione filooccidentale, purtuttavia condivideva ancora con il Pci e gran parte della Dc stilemi terzomondisti peraltro tuttora presenti nella cultura politica nazionale.
Più facile, invece, riconoscere la difesa della sovranità nazionale, anche coraggiosa essendo coinvolto il nostro maggior alleato, cioè gli Usa, nella conduzione del noto “affaire Sigonella”. Ma con qualche dubbio. Perché, se da un lato il Craxi presidente del Consiglio difese la nostra sovranità bloccando l’azione di forze speciali statunitensi atterrate senza permesso sul suolo italiano, dall’altro la sovranità nazionale medesima fu impedita sottraendo di fatto con salvacondotto alla magistratura la fuga dei sospettati del sequestro dell’Achille Lauro e dell’omicidio di Klinghoffer. Va però ammesso che, oltre i suoi afflati terzomondisti, difficilmente il governo Craxi avrebbe potuto consentire l’arresto dei sospettati in quanto erano a Sigonella, ma su di un aereo egiziano; cioè su territorio fuori dalla nostra giurisdizione. Ciò che resta, allora, è che qui Craxi ebbe una scarto di reni dinnanzi ad un alleato che nel caso aveva mostrato eccessiva scarsa considerazione dell’Italia e del suo governo.
E in economia? Veramente “la nave andava?”, parafrasando lo stesso segretario socialista, ai tempi del craxismo? Insomma, gli anni Ottanta del Novecento furono positivi? Forse erano gli ultimi riflessi dello sviluppo economico italiano del Dopoguerra? Oppure fecero da incubatrice delle difficoltà attuali? Inevitabilmente, ogni valutazione coinvolge il Psi che allora era all’apogeo politico. Certo, guai in quegli anni se ne fecero; ma anche scelte positive. A esempio, merito del segretario socialista è l’aver colto i limiti dell’accordo del 1975 sulla scala mobile (punto unico di contingenza), vedendovi un “effetto rimbalzo” sull’inflazione, il cui tasso allora era a due cifre e spesso oltre il dieci per cento.
Difatti, il primo governo italiano presieduto da un socialista vi intervenne il 14 febbraio del 1984 con, appunto, il “decreto di San Valentino”, preceduto dal lodo Scotti del 22 gennaio 1983 (scambio politico tra decurtazione del punto unico di contingenza e sblocco dei contratti da parte di Confindustria), poi opponendosi al relativo referendum abrogativo voluto da Pci e Cgil (componente comunista). Scelta opportuna anche per l’esito redistributivo dell’inflazione (in parte già affrontato dal lodo Scotti): nel senso che, se i salari monetariamente crescevano via contingenza, al contempo, per effetto della progressività del sistema fiscale, aumentava il prelievo su di essi, tutelati solo al lordo. Si creava così un effetto di illusione fiscale. Pertanto il governo Craxi, anche perché il tasso nominale di crescita dei salari eccedeva l’inflazione programmata, decise, per contenere l’automatismo della scala mobile, di predeterminare i punti di contingenza contenendoli ai primi due trimestri (un taglio da quattro a tre punti in sede di conversione del decreto).
Scelta opportuna. Peccato, che il bicchiere fosse solo mezzo pieno. Difatti, sull’autonomia – il cosiddetto “divorzio” – di Bankitalia dal Tesoro (guardando con gli occhi di allora, un pilastro della lotta all’inflazione – i socialisti fecero muro contro. In termini di scontro politico è nota come la “lite delle comari” tra il socialista Formica e il democristiano Andreatta, suo fautore. Il tema merita riflessione in quanto si ricollega direttamente all’odierno dibattito euro SÌ/euro/NO. La tesi, infatti diffusa tutt’oggi, e opinabile (Giampaolo Galli Il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro: teorie sovraniste e realtà) è che, oltre a preparare la perdita della sovranità monetaria con l’euro, essa provocò l’esplosione degli interessi sul debito pubblico, cessando il suo finanziamento da parte della Banca centrale, Vero, i tassi d’interesse crebbero; però quella voluta dal Psi fu una lite tra comari provinciale perché la spinta sui tassi venne da oltreoceano quando l’allora presidente della Fed Paul Volker li impennò negli Usa (il prime rate toccò il 21,4 per cento), quindi nel mondo, al fine di stroncare, con l’inflazione, i dubbi sul dollaro come stella polare del sistema monetario internazionale.
Di conseguenza, poco c’entrava il divorzio Bankitalia/Tesoro: i tassi comunque avrebbero seguito gli Usa, nonostante la formale sovranità monetaria italiana (e nell’Eurozona forse ne abbiamo più presa che perduta, almeno verso la Bundesbank). Oltretutto, in ambito di finanziamento del debito sovrano, poco cambiò nell’immediato: perché per anni Bankitalia continuerà a intervenire in asta titoli e fino al 1994 permarrà il finanziamento automatico del Tesoro tramite il suo conto corrente presso via Nazionale.
Pertanto, questa posizione del Psi, oltreché opposta in termini di filosofia economica a quella presa con decreto di San Valentino, è criticabile. Forse però spiegabile in termini di marketing politico. Ovvero, si potrebbe ipotizzare che l’attenzione primaria del Psi si orientava ad intercettare parte della struttura produttiva del Paese dove fisco lasco ed il mito delle svalutazioni avevano consenso. Insomma, due opposte posizioni, forse riferite a diverse componenti sociali, dietro l’oggettiva contraddizione che allora mostrò il Psi craxiano. Per il vero ancor più evidente considerando che a sinistra solo il Psi – in Parlamento il Pci votò contro la parte della mozione che propugnava l’adesione immediata dell’Italia al Sistema monetario europeo (SME), astenendosi viceversa sull’adesione in sé – aveva accettato nel 1979 la partecipazione dell’Italia allo SME riconoscendo che negli anni Ottanta le svalutazioni avrebbero perso capacità di guadagno competitivo. Fu un errore.
Comunque negli anni Ottanta l’intera classe politica sottostimò i problemi della finanza pubblica. Anche perché allora il Paese cresceva più o meno del tre per cento annuo e pertanto le politiche di aggiustamento della finanza pubblica avrebbero al tempo potuto accettabili. Al contempo, l’inflazione restava superiore ai partner europei nonostante le politiche fatte. Con la conseguenza della continuazione del modello degli anni Settanta di inflazione/svalutazione, seppure attenuato dai provvedimenti presi, nel decennio seguente (vero, c’era lo SME; ma con margini di svalutazione per noi del sei per cento invece che del 2,25 per cento). Il punto è che ciò favorì una crescita favorì una demografia industriale basata sulle piccole dimensioni e a basso contenuto tecnologico (Emanuele Felice, Ascesa e declino). Questa fu un’ipoteca, (parzialmente risolta dalla capacità innovativa di parte dell’industria italiana) lasciata dagli anni Ottanta.

Una sua possibile spiegazione richiama al funzionamento del sistema politico italiano e alla fallita Grande Riforma del Psi craxiano. Se infatti ovunque in Occidente vi furono politiche di stabilizzazione essendo l’inflazione un problema comune, però quella italiana si caratterizzò per essere incompleta e semiconflittuale (Michele Salvati, Occasioni mancate). Perché nel Belpaese né fu possibile portare il conflitto sociale all’estremo per sconfiggere l’inflazione piegando il sindacato (modello Thatcher/minatori, Reagan/controllori di volo); e neppure si poté fare compiutamente quegli accordi politici anti inflazione (welfare contro moderazione salariale) tipici delle socialdemocrazie nordeuropee. Infatti, a bloccare in Italia entrambe la opposte vie di stabilizzazione, sia quella in stile Thatcher/Reagan che la socialdemocratica, fu il particolare assetto del sistema partitico, dove la forza egemone a sinistra era il Pci. Perché, data l’impossibilità di un governo socialdemocratico e conseguentemente bloccata la dinamica del sistema politico in un equilibrio centralistico, ogni stabilizzazione forte, di qualunque tipo, ci era preclusa. Cui aggiungere, anche per le culture politiche dominanti, che il blocco politico, come già accennato, cercava l’equilibrio politico consociativamente con la spesa pubblica (Loreto Di Nucci, La democrazia distributiva).
Questo riporta a Craxi. Il segretario socialista comprese la patologia del bipartitismo imperfetto in termini di sviluppo politico/democratico ed economico. Purtuttavia, il Psi era privo della forza elettorale per modificare la situazione. Certo, egli tentò con la Grande riforma, ma invano. Infine, per Realpolitik accettò la situazione; anzi, con errori, provò a cercare per il Psi la massima agibilità nella situazione data. Nel farlo, però, il Psi si trovò in una terra di nessuno (né sinistra né destra né centro politico) e fallì. Ma con esso, in questa ambiguità, si esaurì la Prima repubblica. La tragedia della leadership di Craxi fu mancare la Grande riforma, che egli percepiva urgente e salvifica per la democrazia italiana. Forse allora il Craxi vinto di Hammamet sconta, oltre alla rabbia per la sconfitta politica, il dolore per questo mancato appuntamento.

In occasione del ventennale della scomparsa di Bettino Craxi sono stati pubblicati diversi saggi, scritti da giornalisti, politologi e politici.

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