
Quella domanda enigmatica, ripresa dalla lastra di marmo murata all’esterno del suo studio, confinante con la casa famigliare, è stata lei ad adottarla quale regola del suo fare, e continua a proporsi a quanti lo visitano. D’altronde ignorarla, per ogni individuo creativo significherebbe la fine delle proprie vocazioni. La rassegna, promossa dalla città stessa, è stata ideata da Myriam Zerbi e da lei curata assieme a Sabina Vianello, allestita da Mara Zanette ed è in calendario fino all’8 marzo.
L’artista aveva iniziato a disegnare appena è stata capace di tenere una matita in mano, cui avrebbe affiancato la passione per la musica dedicandosi allo studio del pianoforte, alternando le escursioni a cavallo con la sorella Gabriella. Non ancora ventenne, la pluralità dei suoi interessi le donava una maturità e un’ampiezza di pensiero e di giudizio non comuni, dove la sua arte e la musica si accomunavano, tanto da farle scrivere, per esempio,
Un paesaggio con la luce del sole fra il temporale ha colori stonati? Un rosso lacca fra un viola e un arancione è stonato, o è solo un’armonia di contrasti come la musica di Stravinsky?.
Scoppiata la guerra, i suoi si trasferirono a Ginevra, dove lei proseguì gli studi all’École des Beaux Arts, riprendendoli dal 1945 al ’49 all’Academia des Bellas Artes di Buenos Aires, essendo ospite del nonno paterno; dopo di che, durante una permanenza in casa di amici nel Trevigiano, conobbe il musicologo Antonio Farra, che sposò e nella cui dimora di famiglia a Villorba, località confinante con il capoluogo, visse da allora. Lì accanto si fece costruire uno studio su due livelli, vasto e razionale, proclamato atelier-museo in occasione del suo ottantesimo compleanno, che ho frequentato con relativa assiduità, trovando in lei un loquace artista-Cicerone-amico, e lei in me il critico non iudicans ma lieto di arzigogolare sulle reciproche idee. A Treviso aveva conosciuto Toni Benetton, ex allievo di Arturo Martini, e da lui si era sentita spronata ad affrontare la scultura, senza la quale non sarebbe diventata l’artista che oggi conosciamo. E a Selvana, nella fonderia di Sidelio Stefan, detto Moro, si era familiarizzata con l’arte della fusione a cera persa, dalla quale non si è più allontanata.
La rassegna Artista chi sei? (a mio parere imperdibile) si dipana nelle due sedi con oltre duecento opere prodotte dal 1948 al 2018, che ripercorrono l’iter di una lunga vita, doviziosa nelle capacità creative, nei livelli di acume, di energia e d’originalità nel farsi e nel susseguirsi di varietà inventive atte a rivelare man mano il progressivo maturare della mente. I lavori esposti evidenziano, appunto, un costante riportare il pensiero ai ritmi vitali della natura, alle incalzanti evoluzioni e problematiche dell’ambiente sociale, attraverso i materiali usati via via per le proprie opere: carta e tela per disegni e dipinti, terre, crete, bronzo, legno per le sculture, e antichi chiodoni da cantiere. Lo stile delle figure dei disegni lo si vede passare da un tardo quasi-espressionismo a un poetico verismo, e nei bronzi dalle forze magmatiche della fase figurativa iniziale a una lievità dinamica nelle piccole danzatrici più recenti, che sventolano dei Veli da cui prendono il nome. Un settore particolare è riservato agli Ovoidi: sentendosi tormentata per la loro staticità allo stato puro, Mariapia la annullava applicando su di loro “la fatica della natura per cambiare la forma”, cioè aprendoli come fiori. “Li sfaccio — scrisse —. Accelero un divenire”.
La sua inclinazione per l’ordine matematico è rivelata dagli straordinari incastri di piramidi esposti, chiamati Tetraincontri e dalle diverse realizzazioni dei Labirinti: bianchi e geometrici quelli formalmente architettonici, scavati in profondità e sovrapposti a basi emisferiche gli altri, di bronzo.

Nell’inventarli, annotava che
L’artista è un po’ come un rabdomante, nelle mani del quale la bacchetta si muove quando sottoterra c’è una sorgente. Anche lui avverte la presenza di elementi invisibili.
Tipologicamente rilevanti, tra le opere esposte al Bailo, sono le composizioni modulari nate da un meditare sulla coppia e assemblate in interessanti installazioni ambientali dei LUILEI— LUI nero, LEI magenta. E di notevole impatto gli pseudo-libri scolpiti nel legno e perforati da chiodi di ferro dall’età incalcolabile (grezzi, lunghi trenta e più centimetri) che li perforano dando l’impressione che così non si possano sfogliare; a ragione di ciò sono definiti muti. Di essi, cito quello che ritengo sia il capolavoro della serie, intitolato Libro stupro del 2014, che mi pare un urlo contro ogni violenza, per il lungo chiodo che trafigge le pagine incuneandosi su una rosso sangue. Eppure, a quell’urlo si contrappone una necessità espressa dall’autrice:
Il silenzio. Il silenzio. SILENZIO. Ha corpo, Ha corpo, ha forma, ha rilevanza, avvolge, colpisce, opprime, dilata. Lo si mangia, lo si beve. Si è silenzio. Si è nel silenzio. Bianco o nero.

Sempre al Bailo, una sala è allestita con disegni, dipinti e sculture (di bronzo, creta e terracotta), in cui le fisionomie (Francesco Malipiero, le nonne Ippolita e Teresa, la mamma del matto, …) passano da un rigoroso verismo all’idealizzazione della forma portata al culmine nell’ovoide Vagito, in versione terracotta e bronzo.

A Ca’ Robegan il percorso è intervallato da pannelli magenta che riportano, con la sua scrittura, frasi riprese dai documenti dell’archivio dell’artista:
l’arte è viaggio – quando si parte x un viaggio non si sa mai cosa s’incontra x strada: imprevisti”, “in principio Dio creò il punto di domanda e lo pose nel cuore dell’uomo”, “Dio creò l’uomo poi si riposò poi fece la donna e non ebbe + pace”…
Nella prima saletta si trovano i disegni floreali, mentre nell’ultima ci si scontra con l’installazione Muta Protesta: consta di coperchi di bara bianchi rifiniti ai bordi con candidi ciuffi di pelouche, trafitti dai consueti chiodi, e piazzati circolarmente in verticale; con essi Mariapia denunciava il malessere impotente da lei provato di fronte alla violenza sui bambini rapinati del dono di un’infanzia serena da pedofilia, guerre, soprusi e sfruttamenti. Sulla parete di fondo è metafora di conflitto esistenziale il coperchio, intitolato Uomo, che ha il colore delle navicelle spaziali, completamente rivestito all’interno della scritta LEI per richiamare l’utero materno, in cui si erge un manichino rivestito di fogli di giornale con notizie di tragedie: è un uomo nudo che tiene in mano uno specchio nel quale è riflessa la fisionomia del padre dell’artista; più che rappresentare il genitore, però, sembra il tragico simbolo di tutta l’umanità. Per Roncoroni, è archetipo di casa-navicella che allude all’aspirazione a elevarsi penetrando nella dimensione del pensiero e dello spirito, restando tuttavia ancorata a terra. Tra gli elementi che completano l’installazione c’è la grande scritta dorata “perché”, grido di dolore e/o supplica che fluttua sullo sfondo di un cielo azzurro.

Una paretina è riservata alla mail art, storica perché costituita da esemplari di Mariapia da lei portati nel 1986 ai giardini della Biennale, assieme a quattro colleghi, per promuovere una categoria culturale con la quale abolire frontiere e barriere fisiche, ideologiche, sociali.
Nelle sale entrano in scena i citati labirinti e innesti piramidali, frutto della passione dell’artista per quanto esiste di matematico, nonché forme ovulari lucide, squarciate per liberarle dal freddo rigore geometrico.
Tra i Libri muti, che compaiono raccolti in librerie, fusi in bronzo e inchiodati su sedie, si trova la versione Bilico, un’installazione in cui i libri si disvelano, dondolanti e finalmente aperti.
Quando si termina un racconto, una storia, un percorso, — parole di Mariapia — si ha l’abitudine di firmare. Dopo aver attraversato, i Libri Muti chiusi e inchiodati, il Labirinto, il Tetraedro, il LUILEI con tutte le sue varianti, decido di riaprire il libro. Lo libero, lo affido al tempo, lo apro al nuovo sguardo e a una nuova lettura; il chiodo (già presente nell’immagine adolescenziale dell’inverno, col lenzuolo bianco inchiodato al suolo) che da adolescente serviva a fissare i miei Libri Muti e li chiudeva alla lettura, ora diventa il bilanciere del libro riaperto in uno spazio instabile: il Libro Bilico. Con i Libri Bilico concludo il mio percorso. E questa è la mia firma.




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