Quel pasticciaccio brutto costato una latitanza

Il giornalista Loris Campetti si racconta nel romanzo “L’arsenale di Svolte di Fiungo” (Manni): un vissuto personale che finisce per farsi generazionale.
ROBERTO ELLERO
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Formidabili quegli anni? Mica troppo se, militante dell’altra sinistra nei primi anni Settanta, fresco di laurea, ti capita tra capo e collo un’imputazione di banda armata per il ritrovamento di un deposito di armi in mezzo alla campagna. È successo a Loris Campetti, a lungo giornalista di punta de il manifesto, che cinquant’anni dopo ricostruisce quella sua tribolata (e fortunatamente a lieto fine) vicenda nel romanzo L’arsenale di Svolte di Fiungo (Manni), autobiografico ma generazionale. E cominciamo dai luoghi, che hanno una loro importanza. Svolte di Fiungo: dove sarà mai? Se non sei del posto ti ci vuole una bella carta geografica. Mi raccomando: non quella che Loris compra a Firenze per andare a funghi e che nel corso di una perquisizione gli viene trovata a casa. Grave indizio, se non addirittura prova di colpevolezza, giacché è proprio in quella  carta, fra Macerata (luogo natale) e Camerino (sede dell’università frequentata), che si colloca il luogo dove un certo giorno del 1972 i carabinieri rinvengono un arsenale di vecchie armi, insieme ad un libro di Régis Debray (che allora contava, oggi probabilmente non dice niente a nessuno) con una serie di nomi cifrati. 

Ovvio, sennò non staremmo a parlarne, che in quell’elenco figuri anche Loris, “militante” certo ma in nessun modo associabile al sovversivismo armato (che nel 1972, oltretutto, era di là da venire). Ma neanche la storia dei funghi riuscirà mai a reggere se hanno messo gli occhi su di te. Loris lo sa bene, c’è già stata la strage di Piazza Fontana. E poi il povero Pinelli volato dalla finestra, fascisti impuniti che ne combinano di tutti i colori con il benestare di troppe autorità, tentativi di colpi di stato, i servizi deviati che sono talmente tanti da non sapere esattamente quali e quanti siano quelli nella norma, provocazioni continue per alimentare la tensione e il Pci che non sempre sa quali pesci pigliare, talmente preoccupato di quello che succede alla sua sinistra (nelle fabbriche, nelle scuole e nelle piazze) da ondeggiare pericolosamente.  

E, allora, visto che il mandato d’arresto tarda ad arrivare, meglio cambiare aria, una “latitanza” vaga e indefinita, in giro per l’Italia, a bordo di una Cinquecento “Poderosa”: durerà parecchio, sia pure con qualche intervallo, prima che la verità faccia il suo corso. Prova ne sia che nonostante la sua innocenza risulti acclarata ben prima del processo, Loris andrà davanti al giudice soltanto nel 1977, assolto insieme ai compagni di sventura perché il fatto non sussiste (l’associazione) o per non averlo commesso (l’arsenale). Ma non sarà ancora finita: chi e perché quelle armi? Pasolini diceva di “sapere” senza bisogno di prove e anche il protagonista del nostro racconto una idea se l’era fatta sin da subito, peraltro non immaginando quanto vicino fosse quell’arsenale marchigiano al cuore dello stragismo fascista di categoria “superiore”. Freda e Ventura, Junio Valerio Borghese, Maletti, Giannettini, Pozzan, Stefano Delle Chiaie… In un modo o nell’altro, anche in quell’angolo di Italia profonda, finiranno per scorrere sui titoli di coda sempre gli stessi nomi. Il Paese delle stragi e dei misteri insoluti. O delle condanne che si fermano ai sicari senza risalire ai mandanti. Quel suo sentire originario diverrà verità, anche processuale, molti anni dopo. Magari con i colpevoli tranquillamente all’estero, espatriati prima di rivelare cose scomode.

Loris Campetti

Nel frattempo, la vita continua: nel bene, per Loris (che trova affetti e lavoro a Torino, prima come insegnante e poi come giornalista al manifesto, impegnato nelle lotte sociali e per i diritti civili, sempre con l’idea fissa di dare un finale degno a quel suo “giallo” involontario); nel male, per l’Italia e per noi tutti, con l’insorgere strada facendo di un micidiale terrorismo rosso, reo di tanti crimini, letterali e figurati, fra cui l’aver concorso in maniera determinante ad annebbiare, con la vulgata degli anni di piombo, una stagione straordinaria di lotte e di conquiste, meritevole di ben altra considerazione sotto il profilo storiografico e della memoria collettiva. Come in certe profezie maledettamente autoavverantisi,  ci fu sul serio – e non furono pochi – chi si prese la briga di dare corpo e sostanza ai sogni di una impossibile, delirante e devastante rivoluzione armata, corrispondendo in fondo ai desiderata di coloro che sin dall’inizio seminavano arsenali in giro per l’Italia cercando di  metterli in conto all’altra sinistra. Sogni diventati presto incubi. E incubi che hanno pesato maledettamente sul futuro di più di una generazione. Sino ai giorni nostri, o quasi.

Come un romanzo. Loris Campetti racconta dando conto del suo vissuto e introiettando nella prima persona del narratore accadimenti privati e fatti pubblici, considerazioni politiche e note di costume. Ogni tanto, leggendo, capita di imbattersi nelle strofe di qualche canzone allora di moda, in citazioni senza virgolette che ricostruiscono un clima, il sapore di un’epoca. La sua e la nostra: di chi scrive almeno. E difficilmente quelli che oggi si collocano nella fascia d’età dei cosiddetti sessantottini possono dimenticare certi stati d’animo: l’entusiasmo iniziale, certamente, la voglia di cambiare il mondo, ma poi anche il “riflusso” e da un determinato momento in poi le paranoie: magari il tuo numero di telefono nella rubrica di qualcuno passato al brigatismo, con i carabinieri che vengono a svegliati alle 6 del mattino. Già, perché se i fascisti li conoscevi per nome e misfatti, i compagni “che sbagliavano” forse erano stati amici tuoi e mica potevi dire che stavano coi marziani… Con il ‘77 poi, i fatti di Bologna, l’autonomia, “né con lo Stato né con le Br”, una generazione allo sbando e al setaccio… 

L’arsenale di Svolte di Fiungo  si legge che è un piacere, non manca di ironia e di inventiva letteraria, pur attenendosi rigorosamente ai fatti e raccontando di un maledetto pasticcio costato una dolorosa “latitanza”. Diciamo, tutto sommato, una “bella” (tra molte virgolette) rimpatriata. Ed anche un lungo significativo flashback per chi è venuto dopo. Fortunatamente e sfortunatamente, quella era l’Italia di mezzo secolo fa.

Quel pasticciaccio brutto costato una latitanza ultima modifica: 2020-02-04T12:36:19+01:00 da ROBERTO ELLERO
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