Il poliedrico Andrea Navagero, ambientalista della Serenissima

B. MARENGO L. PALMINTERI
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Attraverso la vita di un nobile veneziano appassionato di studi letterari e impegnato in delicati e faticosi incarichi diplomatici, racconto un periodo storico estremamente complicato, quell’inizio del XVI secolo che vide la discesa in Italia degli eserciti di Francia e Spagna e la formazione della lega di Cambrai contro Venezia. Andrea Navagero, (Venezia 1483 – Blois 1529), letterato, amico di Pietro Bembo, Aldo Manuzio, Girolamo Fracastoro, Raffaello Sanzio, Baldassarre Castiglione, viveva nell’isola di Murano, dove creò un giardino botanico, forse il primo in Europa, nel quale piantò varietà di piante ancora sconosciute in Occidente, tra le quali il mais. La seconda parte di questo testo è stata scritta da Flaminia Palminteri, paesaggista ed autrice di numerose pubblicazioni sui giardini. (Barbara Marengo)

Andrea Navagero, letterato e diplomatico, umanista e botanico, al servizio della Serenissima

di Barbara Marengo

Come si poneva al servizio della società un uomo del tempo di Navagero? Quali erano doveri, sacrifici e impegni di un patrizio veneto che, secondo un cursus honorum molto preciso e codificato, dedicò i suoi anni di maturità alla Serenissima abbandonando la sua vera passione, lo studio dei classici, per affrontare incarichi politici e diplomatici lontano dalla Patria? E qual è il contributo che anche noi oggi, siamo chiamati a dare alla nostra società? 

Attraverso i testi di Emmanuele Antonio Cicogna (Venezia 1789-1868) erudito e quasi seriale collezionista di volumi di storia veneta, autore dei sei tomi Delle iscrizioni veneziane ripercorro un periodo particolarmente movimentato della vita di Andrea Navagero.

Non sarà la prima volta, e credo nemmeno l’ultima, che un ambasciatore della Serenissima si trova in una simile situazione: prigionia, sì, come chiamereste un luogo “pieno di necessità, abbondante di ogni discommodo, in mezzo a montagne asperrime e fredde, fuori d’ogni cammino e quasi dal mondo”? Per quattro mesi patii questo purgatorio, senza poter prendere il lungo cammino che mi avrebbe finalmente riportato a Venezia, ai miei affetti, ai miei libri…

E aggiungo che tale fatto increscioso avvenne in un luogo chiamato Pozza, a otto leghe da Burgos, sottoposti al ricatto da parte di colui che chiamavamo Cesare, ovvero Carlo V imperatore. In questa Spagna con la corte itinerante noi Oratori, io e il Contarini, assieme agli ambasciatori inglese, francese, di Milano, fummo trattenuti quasi guardati a vista dalle guardie armate, mentre l’imperatore ci aveva avvertito che saremmo partiti per le nostre rispettive Patrie solo quando i legati spagnoli accreditati nei nostri Stati fossero rientrati in Spagna. Situazione intollerabile ma inevitabile, in quel clima di sospetto e tradimento che aleggiava sui territori dell’impero degli Asburgo, che tenevano prigioniero financo il re di Francia Francesco. Quindi, tutti prigionieri. 

Finalmente partimmo, il 19 maggio 1528, direzione Ovest. Il mio piede mi doleva, cavalcavo a fatica e camminavo ancora peggio, anche se le missive che mi giungevano da Venezia facevano di tutto per confortarmi: come la mia nomina a Savio di Terraferma, onore veramente al di sopra delle mie aspettative, che il Senato aveva avuto la bontà di conferirmi, appena giunto in Patria avrei iniziato il nuovo incarico.

Sono oltre vent’anni che tutta Europa è caduta nel caos della guerra, dopo quel maledetto 1508 e la vigliacca firma di una coalizione immensa contro Venezia tesa a piegare la sua potenza e ad impossessarsi dei suoi domini, da terra e da mar: Massimiliano d’Asburgo, Luigi XII, Ferdinando d’Aragona, il papa Giulio II, Alfonso d’Este, Carlo II di Savoia, Francesco Gonzaga, Ladislao II d’Ungheria, con la lega di Cambrai erano fermamente intenzionati a “spegnere la insaziabile cupidigia de’ veneziani, e la loro sete di dominio”: e parlerò della spartizione che tutti questi potenti volevano fare dei territori della Serenissima. Da quei momenti talmente difficili, dopo la disfatta veneziana di Agnadello in quell’infausto maggio del 1509 (avevo 25 anni, ricordo benissimo…) l’Italia divenne un campo di battaglia infinito, con alleanze che nel giro di poco tempo cambiavano, doppi giochi, tradimenti, nemici interni ed esterni, mentre il vero nemico, il Turco, da pochi decenni attestatosi sulle rive di Bisanzio, si sfregava le mani guardando i cristiani europei battersi tra di loro…

Ecco qua di seguito il menù che i nemici di Venezia avevano preparato per spartirsi i nostri possedimenti: Luigi XII voleva Milano, e ci teneva a tenere i veneziani ben distanti, quindi bramava Brescia, Bergamo, Crema, Cremona e la Giara d’Adda. Mentre agli Aragonesi interessavano le coste ed il Sud, Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli erano i loro obiettivi, da sottrarre a noi naturalmente. Il Papa poi non si tirava certo indietro, almeno in un primo momento: ed ecco allora la lista dei desiderata, ossia Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza, Imola, Cesena. Ferrara ambiva al Polesine, e chi più ne ha più ne metta. La cupidigia dell’Impero nelle intenzioni metteva già in tasca i possedimenti di Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Istria e Friuli. Non basta: Mantova pretendeva Peschiera, Asola e Lonato, mentre perfino l’Ungheria voleva penetrare le nostre terre da mar, impossessandosi niente meno che della Dalmazia. I Savoia comparivano nella lista dei predatori accontentandosi, si fa per dire, dell’isola di Cipro: Giulio II scagliò perfino l’interdetto contro la Serenissima, che però viene ritirato quando lo stesso Papa si allea con Venezia contro la Francia ed ottiene i territori della Romagna. Che tempi, che cambi di alleanze, che tradimenti, che battaglie. 

E penso che non molti anni fa me ne stavo tranquillo e felice a Venezia, ed avevo tempo per i miei studi classici, in un luogo meraviglioso, la Biblioteca di San Marco della quale fui nominato Bibliotecario: un tesoro di manoscritti passava sotto i miei occhi, anche se le finanze di famiglia si assottigliavano sempre più e la mia nobile schiatta rischiava la miseria. Noi Navagero eravamo giunti nelle venete lagune nel 790: la storia della famiglia Navalario, come riportano antichi documenti, potrebbe prendere origine sulle coste della Dalmazia, nei pressi del fiume Narenta, oppure nella terraferma veneta, quella florida e pingue campagna che sfocia nella Laguna.

Tant’è, i Navagero furono fedeli sudditi, tribuni leali, eletti al Gran Consiglio, posso fare alcuni nomi? Bonus Navalario nel 1194 compare come firmatario della concessione del castello di Loreo, quell’importante tratto di campagna a difesa della laguna sud nei pressi di Rovigo. Sono affezionato al nome Loreo, perché pare che derivi da Laurus, il profumato arbusto che abbonda in quei paraggi umidi, e che a Venezia abbonda nel cucinare il pesce… Il Castello di Loreo, tutti a Venezia sanno quanta importanza ebbe nella difesa della Patria nei secoli passati, ed anche nella sciagurata guerra a seguito della Lega di Cambrai i Veneziani al comando di Leonardo Giustinian lo riconquistarono alla Serenissima.

Altro illustrissimo antenato fu Lunardo, che nel 1206 dopo la IV crociata che tanto scompiglio portò nell’impero bizantino e tante ricchezze portò a Venezia, Lunardo dicevo fu consigliere del Duca di Candia Giacomo Tiepolo assieme ad un altro Giacomo, della famiglia Longo. Un Nicolò fu a sua volta XXI duca di Candia, per non parlare di Benetto, Tomà, Zaccaria, Marco… Tutti Navagero illustri eletti al Gran Consiglio nei secoli lontani e passati. 

Guardo questo paesaggio monotono nell’arida Spagna, un’onda di emozione m’assale, al pensiero di quel giorno di dicembre 1521 dedicato a Santa Barbara, il 4. In onore della Santa patrona degli artiglieri e dei nostri possenti bombardieri, ogni anno quel giorno vengono estratti con una balla d’oro i nomi di 25 patrizi minori di venticinque anni d’età, che entrano a far parte del Maggior Consiglio: la cerimonia veniva ricordata con il nome di Barbarella, io fui uno dei patrizi che elessero il nuovo doge, Antonio Grimani. Ma siccome niente nella mia vita va come deve andare, e gli ostacoli si sovrappongono agli ostacoli, quel benedetto giorno del 1506 qualcuno dei grandi elettori eccepì che io Andrea Navagero ero residente a Murano, senza nulla togliere alla mia antica appartenenza. Certo, abitavamo nella verde isola degli orti e dei giardini, non lontano dal Duomo, e allora? Ero pur sempre un servitore fedelissimo della Serenissima, dedicato alla letteratura, alla storia gloriosa della città, cosa volevano da me quei severi censori non lo so proprio. Tutto alfine andò nel verso giusto, eleggemmo il nuovo Doge non senza aver pianto e rimpianto il vecchio, Leonardo Loredano era colui che lasciava un lungo governo, iniziato nel 1501.

Il Turco era la spina nel fianco di Venezia, la pace che Loredan fu costretto a negoziare ebbe durissime condizioni: Modone, Corone, Lepanto, Santa Maura non facevano più parte dello Stato da Mar, la lega di Cambrai aveva portato lutti, distruzioni, perdite di territori: ma l’orazione funebre che ebbi l’incarico di comporre in suo onore non trattò certo di alcune dicerie che non benevolmente si addensavano sulla famiglia Loredan, storia veramente non edificante per l’onore di quella famiglia che ebbe numerosi e forse troppi privilegi…

Insomma, oltre che a guardia dei preziosi codici della Biblioteca lasciata a Venezia dal Cardinale Bessarione il mio talento s’espandeva nella letteratura, i miei amici erano Aldo Manuzio, Pietro Bembo, Baldassare Castiglione, Erasmo da Rotterdam, Girolamo Fracastoro… Con loro animavo le riunioni dell’Accademia Aldina, in campo san Paternian, nella accogliente ombra del palazzo dove decidevamo quali testi erano pronti per essere stampati con la nuova macchina a caratteri mobili di Aldo Manuzio, quel genio di laziale grazie al quale ora tutti possono avvicinarsi ai grandi classici. Io viaggio sempre con le edizioni “aldine” al seguito, non me ne separo mai, e nei momenti di sconforto – tanti, a dire il vero in questi ultimi anni – solo a tenere tra le mani quei testi perfetti, il mio cuore ritorna alle dotte discussioni che avvenivano per decisione comune in lingua greca, ricordando che l’Impero di Bisanzio da pochi decenni era stato annientato dall’orda ottomana, in quel funesto maggio 1453. Noi eravamo chiamati ad ereditare un patrimonio di scienza, letteratura, arte in oltre mille anni di storia, che Venezia illuminata proteggeva anche tramite noi e grazie alla sublime architettura di Sansovino nella Biblioteca Marciana, un bene per l’umanità.

Viaggiavo, sì, muoversi dalla Serenissima non era difficile, i miei studi ed i miei contatti mi portavano spesso a Roma, dove Papa Giulio II Della Rovere, terribile guerriero, e Leone X dei Medici furono miei interlocutori privilegiati: tempi duri tra la Chiesa di Roma e Venezia, tempi di interdetto, sempre legato alla disgraziatissima Lega di Cambrai. 

In una delle mie sortite presso la Corte del Pontefice ebbi modo di approfondire la conoscenza con Raffaello Sanzio, che dal 1509, preceduto da una fama che risaliva la Penisola, lavorava a Roma e creava capolavori nelle stanze del Papa. Sia Giulio II che Leone X avevano incatenato il genio umbro a Roma, ed io non potei fare a meno di subire l’incanto della sua arte.

 Mi misi in fila per ottenere il privilegio di essere ritratto dal sommo pittore, capace di penetrare l’animo del committente. Finalmente giunse il mio turno, e ci accostammo allo studio di Raffaello, io e l’amico Agostino Beazzano, con una certa emozione. Agostino, mio coetaneo, letterato ed ecclesiastico di Treviso, inviato a Roma al servizio di Pietro Bembo, aveva l’incarico di perorare la causa di Venezia per far fronte alla guerra sporadica in corso. 

Anche Beazzano faceva parte di quella cerchia di eruditi che dava vita all’Accademia Aldina a Venezia, ed il fatto di essere ritratti insieme a Roma accentuava questa nostra missione comune, conservare e tramandare i classici ai posteri. 

Raffaello ci convocò alfine, ci scrutò con occhi immensi, ci pose di tre quarti: abbigliati alla moda, con le braccia conserte, i nostri volti prendevamo forma, ognuno con le sue diverse sfaccettature. Io Andrea, sulla sinistra del ritratto per chi ci guarda, ho il berretto calcato sul capo ed il viso contornato dalla folta barba che caratterizza i membri della mia famiglia. L’abito è nero, di lana pesante, il drappeggio della manica appoggiata al corpo si intravede sul bordo della tela, che Raffaello appoggiò ad una tavola. L’abbigliamento del mio compare invece è di velluto, la veste più semplice lascia intravedere una sottoveste bianca che mette in risalto il volto pallido, la barba non troppo curata, dal cappello di velluto due bande di capelli castani incorniciano il viso. Nella bottega di Raffaello non era facile concentrarsi, troppe erano le distrazioni, tra le tele non finite ma già vivide di arte e colori ed il via vai di persone che chiedevano un ritratto o una decorazione per il palazzo nobiliare.

Agostino ed io, in quell’autunno del 1516, non potevamo sapere che Raffaello sarebbe morto di lì a soli quattro anni, e che Pietro Bembo avrebbe scritto per lui un epitaffio struggente al Pantheon, vicino alla sepoltura dell’artista. Né potevamo immaginare, immobili effigi dipinte su tela con sguardo assorto, quello che il destino avrebbe riservato a noi due: lui, Agostino, esaurito il suo compito presso il Sacro Soglio ed esentato dal Bembo per la sua salute cagionevole, tornò a Venezia e si dedicò agli amati studi filosofici e letterari. Io invece… soffrii la morte di mio padre Bernardo, avvenuta a Napoli di Romania, nel maggio del 1517, lasciando nel dolore mia madre Lucrezia. 

Fu firmata una pace complicata tra Carlo V e Venezia, dopo la fine della guerra di tutti contro Venezia: gli ambasciatori furono nominati dal Senato il 10 ottobre 1523, io fui uno dei prescelti assieme a Lorenzo Priuli. Nel luglio dell’anno seguente partimmo per raggiungere Toledo e l’itinerante corte spagnola: Padova, Parma – da dove fuggimmo per una pestilenza che ammorbava cristiani e non solo – Pisa, Genova, da lì la Corsica e Barcellona. 

Un viaggio estenuante, pericoloso, lungo, scomodo e pieno di insidie. Torrido era il giugno che ci vide entrare a Toledo, accolti dal conterraneo Gasparo Contarini, che subito ci presentò con gran prosopopea ai diplomatici dei vari Stati italiani presso Cesare (Firenze, Ferrara, Genova, Mantova, Siena.), Carlo V che vedemmo il 13 giugno del 1524: accolti con grande serietà ed eleganza, il mio più giovane collega tenne una dotta orazione di presentazione in latino, e così prese il via la nostra missione, caratterizzata dalle discussioni sul possesso della Borgogna e continue guerre e battaglie contro Francesco re di Francia, ora prigioniero a Madrid.

Trame, sospetti, dispute, tradimenti, professioni di amicizia, ribaltamento di alleanze, depistaggi e ogni altro tipo di ansie e discussioni in punta di diritto, prepotenze, angherie, cristianità lacerata, Turchi sempre più presenti nel Mediterraneo ed energie rivolte ad Ovest invece che ad Est… Un continuo rincorrere Cesare per le lande assolate della Spagna con la sua corte in mezzo a decisioni quanto meno drammatiche, come quella che prevedeva la liberazione del re di Francia Francesco I tramite la permanenza in Spagna di dodici ostaggi francesi, nobili di alto lignaggio…

I miei problemi personali erano tanti, e incombenti, legati alla mancanza d’approvvigionamento da Venezia: danaro, danaro, poco danaro, m’arrivava dalla Patria. Dovevo mantenere una piccola corte di personaggi, almeno venti, che presidiavano la mia casa, gli spostamenti continui costavano oltre alla fatica anche molti ducati: almeno cinque al giorno! Doni ai funzionari spagnoli prossimi a Cesare, insaziabili!, spese per le prossime nozze annunciate di Carlo V con Isabella del Portogallo, ingentissime, mentre a Siviglia arrivava Isabella stessa, futura regina e Carlo V giungeva da Toledo. Una folla immensa bordava le bianche strade spagnole, per acclamare il corteo: a Siviglia archi di fiori ed insegne augurali assieme a giostre, banchetti e tripudio generale accolsero i reali, le nozze furono celebrate e consumate, ma non si attenuò il clima di tensione dovuto a dispute europee, sospetti verso Venezia accusata di fare il doppio gioco con la Francia, promesse ed instabilità dei confini. 

Io ero esausto: ma dovevo riferire al Senato quello che accadeva. Due navi portoghesi in arrivo dal nuovo mondo cariche di spezie, gioie ed ogni ben di Dio naufragarono e di loro non si seppe più nulla. L’Imperatore era assillato dalla ricerca di danaro per mantenere le truppe in Italia ed in Europa: la notizia del sacco di Roma ad opera dei feroci Lanzichenecchi arrivò come una saetta alla corte spagnola, mentre la peste si diffondeva in Italia e migliaia di morti e profughi erano vittime delle razzie. Questi crudeli mercenari tedeschi – solo a pronunciarne il nome un velo di terrore scendeva sui presenti – scorrazzavano in lungo ed in largo in Italia, da tempo senza essere pagati, per questo i Land Keneck, ovvero i servitori della patria, si sentivano legittimati alla razzia. Inoltre essendo di religione protestante, assieme ai loro comandanti volentieri vilipesero la città sede del Sacro Soglio: con raccapriccio apprendemmo che anche comandanti e principi italiani si erano uniti alle selvagge truppe del Nord, tra questi Sciarra Colonna, i Gonzaga, Fabrizio Maramaldo.

Cesare tra una battuta di caccia e l’altra si dichiarò costernato da questa triste notizia, il pontefice Clemente VII fu costretto a versare la incredibile cifra di 400.000 ducati per la sua libertà. In questa corte itinerante tra Siviglia, Granada, Cordoba, Toledo, l’Imperatore estenuava i legati stranieri con minacce e lusinghe: basta, non solo mi accorsi che i miei dispacci diretti a Venezia venivano aperti, letti e spesso trafugati, ma mi fu anche impedito di preparare i cavalli per partire. Tra i soliti sospetti di tradimento da parte della Serenissima e di accordi segreti con il Turco, in un freddo dicembre del 1526 partii da Granada per Toledo, e da lì a Valladolid, sempre con pieni poteri per negoziare la pace in Italia. Ricevetti finalmente duecento ducati per vivere degnamente in tutte queste città di passaggio, ed assistetti ad episodi veramente sconcertanti per quel che riguarda la continua ricerca di danaro da parte dell’Imperatore: arrivò ad acquistare per 30.000 ducati l’indulgenza concessa dal Pontefice ai frati di Monserrato, promettendo loro di edificare edifici di culto. Disattese la promessa rivendendo l’indulgenza in giro per la Spagna, obbligando le genti ad acquistarla e ricavandone 300.000 ducati. 

Come Dio volle riuscii a partire per Parigi, dove giunsi nel giugno 1528, e da lì a Lione, Asti, Alessandria ed infine il 24 settembre approdai tra le acque di casa. Non mi aspettava un periodo di riposo: il Senato mi attendeva per ascoltare la mia relazione, come da prassi. 

E altri viaggi erano incombenti: il mio amato giardino di Murano mi accolse per poco tempo, era già il momento di ripartire, questa volta per la Francia.

Era un freddo marzo, in quel 1529, quando iniziai il mio lungo e scomodo itinerario verso quel Paese che già conoscevo, davanti a quel Sovrano che già conoscevo, obbligato a parlargli di faccende che entrambi conoscevamo, io e lui, quel nodo inestricabile legato al possesso di Milano reclamato da parte di Francesco I, al quale non bastava tutto quello che aveva passato per queste pretese, prigionia in Spagna inclusa. 

Male, stavo male: così male che fui costretto a letto, malato, molto malato.

Davanti ai miei occhi passavano velocemente gli avvenimenti, le immagini, i colloqui, gli amici studiosi, le sensazioni, i pochi affetti, le costrizioni, insomma tutto quello che in 46 intensi anni aveva caratterizzato la vita di Andrea Navagero patrizio veneziano. Le mie opere letterarie e le mie poesie, i dispacci delle missioni diplomatiche, l’amore per i classici e la padronanza della lingua latina e greca si incastonavano come gemme nei reconditi anditi della mia mente, lampi di luce illuminavano quei giorni lontano da Venezia, a Blois. 

Passai a miglior vita nel mese di maggio, e pietosamente mio fratello Piero venne a recuperare ciò che restava di me in materia, per trasportarmi in Patria, dove riposo nella chiesa di San Martino, nella mia isola, Murano.

La chiesa di San Martino a Murano oggi non esiste più, (a fine Settecento fu chiuso il convento delle monache dell’ordine di San Girolamo e dopo i decreti napoleonici del 1810 la chiesa già diroccata fu distrutta): resta la fondamenta Navagero ma non il palazzo e neppure il giardino. In riva degli Schiavoni a Venezia c’è la casa dei Navagero ai piedi del Ponte del Sepolcro, dopo il rio che costeggia l’hotel Metropole e contiguo alla Caserma Cornoldi ex Convento del Santo Sepolcro. Il palazzetto del XV-XVI secolo fu dimora anche di un altro Andrea Navagero letterato, e nel suo soggiorno veneziano vi abitò Francesco Petrarca nel 1362. Il palazzo è noto anche con il nome di Palazzo Molin dalle due torri. Oggi è una locazione turistica.

Andrea Navagero, a sinistra, e Agostino Beazzano in un ritratto di Raffaello Sanzio, 1516

Andrea Navagero botanico

di Flaminia Palminteri

Uomo del suo tempo Navagero, di cultura poliedrica e molteplici interessi. E fra questi, non ultimo, il giardino e la botanica. Navagero era infatti famoso anche per la bellezza del suo giardino di Murano, oggi purtroppo scomparso, ammirato dai contemporanei per l’accuratezza del progetto e la ricchezza delle varietà botaniche. Non era raro che i più illustri e importanti visitatori che soggiornavano nella Serenissima chiedessero di visitarlo.

L’arte dei giardini, come tutte le forme d’arte, è l’espressione di un determinato periodo storico, ne riflette la cultura, la politica, l’organizzazione sociale.

Il periodo che viene chiamato Rinascimento, tanto ricco di fermenti culturali, in Italia e massimamente a Venezia, rivoluzionò anche l’arte dei giardini, il modo cioè di concepire e realizzare giardini. 

Il concetto moderno di giardino, inteso come composizione architettonica volta a fini esclusivamente estetici, nasce dopo la seconda metà del XV secolo. Prima l’hortus conclusus di concezione medievale aveva un carattere prettamente utilitaristico, vi si coltivavano esclusivamente ortaggi, frutta, erbe condimentarie e medicinali destinate al sostentamento di conventi e castelli; aveva una struttura molto semplice, nessun ornamento.

Fu solo in quest’epoca che il giardino inizia a liberarsi dai rigidi schemi medievali, ad accogliere piante ed elementi non strettamente funzionali. 

Venezia e il suo ambito culturale furono di fondamentale importanza nel processo evolutivo di questa forma d’arte non secondaria. 

Nel 1499, dalla tipografia di Aldo Manuzio, illustre fra gli illustri componenti di quel cenacolo intellettuale del quale faceva parte il Navagero, esce un libro che fu, ed è tuttora considerato il più bel libro stampato da Manuzio: l’Hypnerotomachia Poliphili, ovvero Il sogno di un combattimento amoroso di Polifilo. 

Hypnerotomachia Poliphili

Il libro parla di un viaggio alla ricerca dell’amore nell’isola di Citera, al cui centro sorgeva uno splendido giardino, descritto minuziosamente. Libro iniziatico, di difficile lettura, ma che all’epoca ebbe una diffusione e una risonanza eccezionale nell’Europa intera per la bellezza delle incisioni. Ogni pagina è un opera d’arte.

Ciò che a noi interessa sono le 169 xilografie da cui è arricchito il libro, perché quasi tutte rappresentano scorci e dettagli del nuovo concetto di giardino, ne mostra in modo chiaro la conformazione architettonica e gli elementi costitutivi, ne evidenzia l’evoluzione e la complessità rispetto alla semplicità del giardino medievale.

Questo libro ebbe un’importanza fondamentale nella diffusione di questo nuovo giardino all’italiana. Il modello del giardino all’italiana infatti nasce in questo momento storico, e si diffonderà in tutta l’Europa, rimanendo per almeno due secoli, con qualche variante e arricchimento, l’unica forma di giardino, copiato in tutti i castelli e regge. 

È da questo momento che il giardino diventa una forma d’arte autonoma, con la stessa importanza e dignità della casa, e il libro ha una parte rilevante in questo processo.

Anche le famose limonere nacquero a Venezia in questo periodo. Il limone è una pianta delicata che in piena terra cresce solo nei climi temperati del sud Italia. Furono i giardinieri veneziani che per primi li coltivarono in vaso, facendoli crescere in forme armoniose in modo da farne un elemento decorativo del giardino e delle terrazze. E furono talmente apprezzate che si cominciarono a vendere anche all’estero, dapprima nel vicino ducato di Milano e via via sempre più lontano. In breve le limonaie divennero un elemento imprescindibile dei giardini più importanti, oltre che una considerevole fonte di reddito. 

Se il giardino di Navagero, come abbiamo detto, era considerato fra i più belli, ve n’erano moltissimi a Venezia, che costituivano uno dei suoi vanti non minori e attiravano le lodi dei molti visitatori. Proprio in quegli anni, nel 1494, il canonico milanese Pietro Casola, scrisse nel suo diario di viaggio, Viaggio a Gerusalemme:

Non è cosa che più me habia conducto in admiratione in questa città edificata sopra l’acqua, quanto a facto al vedere belli zardini quanti li sono.

Se ne contavano, nel XVI secolo, più di duecento, come testimoniato da Francesco Sansovino nel libro Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XII libri

Purtroppo il giardino è una forma d’arte caduca, non rimane nel tempo, ma possiamo avere un’idea di cosa fossero questi giardini dalla stampa di J. de Barbari.

Anche la botanica proprio in quel periodo ebbe uno sviluppo grandioso. Fu proprio a partire dall’inizio del Cinquecento, con la scoperta dell’America, che iniziarono ad arrivare piante allora sconosciute in Europa. Non solo specie utilizzate per l’alimentazione, ma, in ossequio al nuovo concetto di giardino, piante da usarsi esclusivamente per fini decorativi. 

Durante la sua travagliata ambasceria in Spagna, Navagero sostò a Siviglia, e a Cadice, porto nel quale arrivavano i bastimenti carichi di mercanzie provenienti dall’America. Fu lì che notò, a riprova del suo interesse verso la botanica, numerose specie appena arrivate, e le introdusse a Venezia, da cui poi si diffusero in tutta Europa. Alcune erano commestibili, come l’ananas e le patate dolci, altre solo decorative.

Il suo giardino fu descritto dai contemporanei, veneziani e stranieri, come un vero e proprio orto botanico, ricchissimo di specie sconosciute altrove.

La Repubblica di Venezia vantava una ricca tradizione di conoscenze in campo botanico. Come dice il Molmenti, mandava sempre molto lontano i suoi figli in cerca di nuovi commerci. L’estensione dei suoi domini, il commercio che per secoli aveva avuto quasi in esclusiva con paesi come Siria, Egitto, Persia, le ambascerie che penetravano in paesi poco noti avevano permesso, oltre che di ampliare i commerci, di scoprire specie botaniche esotiche. Già Marco Polo aveva portato a Venezia, da dove si diffusero nel resto d’Europa, il rabarbaro, l’aloe, il sandalo, la cannella e molte altre spezie. Alvise da Mosto, che esplorò l’Africa occidentale nel 1455, scoprendo le Isole di Capo verde, fece conoscere il baobab (Adansonia), l’Albero del drago (Dracaena draco), e una varietà di legume, il pisello del Senegal.

Navagero era quasi coetaneo di Francesco Bonafede, il cui nome ci dice poco ma invece dovrebbe dirci tantissimo. Il professor Bonafede istituì, presso l’Università di Padova, la cattedra di Lectura simplicium, lo studio delle piante medicinali, unico rimedio allora per la cura delle malattie.

I “semplici” erano quei medicamenti che provenivano in modo diretto dalle piante, senza subire manipolazioni da parte dell’uomo. Dato che provenivano principalmente dalle piante officinali, cioè con proprietà terapeutiche, il termine “semplici” divenne sinonimo di piante medicinali. 

Ma il professore non ritenne sufficiente guardarle sugli erbari figurati, chiese di studiarle dal vero. E così nel 1545 un decreto del Senato veneziano autorizzò l’Università di Padova ad acquistare un terreno dove coltivare le piante officinali. Nasceva il primo Orto Botanico (assieme a quello di Pisa). 

Nel 1564, a completare la nascita dell’Orto Botanico, fu poi istituita la cattedra di Ostensio simplicium, lo studio pratico nell’orto per gli studenti di medicina. Da queste cattedre deriveranno tutte le istituzioni naturalistiche moderne.

Successivamente si pervenne a una visione più ampia delle sue funzioni, ci s’interessò sempre più alle nuove piante, da noi inesistenti, provenienti dall’America, e poi dall’Oriente, dall’Africa e dall’Australia. L’Orto Botanico di Padova fu molte volte il primo luogo in Italia e anche in Europa ad accogliere le nuove specie: la patata (1590), la robinia (1662), il cedro (1828).

Ma per la Serenissima Repubblica di San Marco questo periodo d’inizio Cinquecento fu veramente ricco di cambiamenti e progressi epocali, e Navagero, oltre a esserne stato protagonista non secondario, fu in stretto contatto con molti fra i principali artefici di queste innovazioni.

Nella cerchia delle sue inclite amicizie figurava anche quell’Alvise Cornaro che tanta parte ebbe nello spingere Venezia ad una riconversione della sua economia dal settore dei commerci marittimi a quello della produzione agro-alimentare. Con la conseguente risistemazione del territorio in terraferma, mediante grandi opere di bonifica e di irrigazione.

È del 1501 l’istituzione della Magistratura alle acque, preposta alla regolamentazione dei fiumi, e fu per incessante opera del Cornaro che in seguito (1556) fu istituita la Magistratura ai beni inculti. Sua è l’espressione “santa agricoltura”: per lui il miglior mezzo, il più laudevole, per guadagnarsi la vita, non è con le armi, foriere di morte, né con i pericolosi commerci marittimi, ma con l’agricoltura. 

Anche grazie a lui ci fu un vero e proprio progetto di pianificazione territoriale nell’entroterra veneziano, con una trasformazione del territorio in vista di un potenziamento della produzione agricola. Le campagne divennero un giardino, come scrisse il Sanudo vedendo i festoni di vite che pendevano dagli alberi, secondo la tradizione della “vite maritata”. E sarà proprio dallo sfruttamento della terraferma che la Serenissima trarrà le energie economiche e finanziarie che rimarranno vitali sino all’ultimo. 

Venezia ebbe infatti un altro primato, di fondamentale importanza per l’economia, e anche per la vita sociale. Fu la prima a coltivare il mais. La campagna veneta fu la prima in Italia che accolse questo tipo di coltivazione, se ne può trovare una splendida testimonianza anche negli affreschi di villa Emo di Fanzolo eseguiti dallo Zelotti, prima rappresentazione in Europa di una pannocchia. 

L’impatto che ebbe la coltivazione del mais fu dirompente, sul paesaggio, sull’alimentazione e sui rapporti sociali. 

Rispetto al grano aveva una resa migliore per ettaro; rispetto ai cereali minori fino a quel momento ampiamente coltivati, quali sorgo rosso, miglio, avena, segale e orzo offriva un cibo migliore, decisamente più nutriente e più gustoso. Inoltre, almeno agli inizi, non fu compreso tra i prodotti soggetti a decima. 

In seguito molte altre furono le specie provenienti dall’America che, coltivate con successo, anche se non con la stessa estensione del mais, contribuirono a modificare il paesaggio agrario: il fagiolo, la patata, il tabacco, il pomodoro.

Il poliedrico Andrea Navagero, ambientalista della Serenissima ultima modifica: 2020-02-06T20:00:32+01:00 da B. MARENGO L. PALMINTERI
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