Che cosa hanno in comune la notte degli Oscar e le procedure di risposta al coronavirus? La conferma che il mondo è ormai un unico condominio, ma dove ognuno vive a modo suo. Contestando l’amministratore. E la necessità di ricostruire un senso comune comunitario, ma non più di massa. Rispetto alle solite giaculatorie dei professionisti di quella che Zygmunt Bauman chiamava la “retrotopia”, ossia un ossessivo culto del passato, che continuano a predicare orwelliane omologazioni totalitarie, la rete produce scomposizioni, e s’organizza per differenze e non certo promuovendo identità uniformi.
Il trionfo a Hollywood del film sudcoreano Parasite, del regista Bong Joon Ho, che s’impone anche come miglior film in assoluto, prevalendo per la prima volta su tutti quelli americani, dimostra che anche il nostro immaginario ormai non parla più inglese.
Chiunque sia esperto di cultura e anche economia americana, sa bene che il cinema non è un intrattenimento, ma è forse il presidio e l’arsenale più potente dell’egemonia a stelle e strisce nel pianeta. Cedere il passo a un’opera straniera, per altro della temutissima Asia, segna qualcosa di più di una mutazione dei gusti o di un allargamento dei talenti: siamo a un vero e proprio passaggio di consegne.
Dopo cinquant’anni di internet il dominio wasp è alle corde.
Come del resto la presidenza Trump segnalava: l’America si è affidata a un “bulldog” perché il suo soft power è ormai agli sgoccioli. La riconferma sempre più probabile dell’eccentrico miliardario populista alla Casa Bianca poggia proprio su questa percezione diffusa negli Usa: non siamo più padroni del mondo, e forse abbiamo ormai problemi anche a casa nostra. Il condominio cerca un nuovo padrone che possa proteggerlo.
Simmetricamente, sul versante opposto, il gigante cinese, che allungava la sua ombra sulla crisi dell’impero americano, comincia a tremare.
L’epidemia del coronavirus, esattamente come fu per il crollo sovietico a Chernobyl, contesta la funzionalità della riservatezza degli apparati di potere e giustifica e arma le ambizioni di una nuova figura di cittadino cinese: ambizioso, competitivo, giovane e globalizzato, che pretende di sapere perché vuole parlare. Le indiscutibili ragioni di sicurezza e d’efficienza nella risposta alla diffusione del virus gli danno per la prima volta una motivazione interna e non contrapposta alla ragion di stato: per salvare la Cina bisogna coinvolgere attivamente la popolazione.
I primati economici e sociali che il regime ha costruito non sono più il presidio della stabilità ma reclamano innovazione per essere salvaguardati. L’urlo con cui Deng Xiaoping nel 1992 diede scacco matto all’opposizione interna che era in piazza Tiananmen e al mondo intero – Arricchitevi – ora diventa un ultimatum che il paese rivolge al partito: come arricchirci se non parliamo?
Mentre s’intensifica il programma di crediti sociali che il governo ha avviato con una piattaforma che dovrebbe controllare tutti i residenti nel paese per misurarne la sincerità – entro il prossimo anno, annuncia il sindaco di Pechino, vi saranno registrati tutti i 21 milioni di abitanti della capitale – si diffonde una sorte di disagio che produce insicurezza, e disaffezione. Scavalcando le inibizioni confuciane che impongono di stare nel solco dell’autorità, le forme di critica cominciano a farsi esplicite, e si registrano migliaia di casi di cittadini che fanno intendere le loro riserve sul comportamento delle autorità nell’azione di contrasto all’epidemia. Con più evidenza e clamore di quanto non sia accaduto dieci anni fa con la Sars.

Torna lo spettro di una talpa che scava sotto i piedi a chiunque governi: solo per il fatto che si decide bisogna condividere in trasparenza. Non è più un’identità ideologica o teologica a opporsi a est o a ovest, ma un istinto antropologico: a qualsiasi latitudine ogni singolo individuo vuole parlare, perché ne ha mezzi, linguaggi e interessi. E soprattutto perché ha trovato chi ascolta. È proprio la creazione di questa magia che permette a chiunque, ovunque sia d’intercettare un ascoltatore che rende la marginalità protagonista.
Forse varrebbe la pena di sprecare almeno una parte del tempo che si consuma oggi per distillare mille ricette contro un generico populismo, per osservare proprio le modalità di costituzione di questo nuovo senso comune, sempre più pulviscolare e inafferrabile, sempre più indotto e determinato da sciami di singole sensazione e di sentimenti che si aggregano attorno a occasionali temi o eventi. Una metamorfosi permanente delle opinioni che coincide con quella volubilità elettorale che tanto sta disorientando i vecchi novecenteschi apparati politici, abituati a gestire deleghe in bianco per decenni.
Le categorie della percezione, o della manipolazione, che pure entrano comunque in gioco, appaiono desuete se sono intese come cause uniche delle trasformazioni sociali nella relazione fra governanti e governati. Sono – le percezioni e le manipolazioni – elementi fondamentali del fenomeno Cambridge Analytica, tanto per parlare concretamente dello spettro che ci incalza, ma appaiono più come conseguenza che come causa. Cambridge Analytica è stata la tecnicalità che ha potuto utilizzare le nuove domande sociali per costruire un modello che, mediante manipolazioni e percezioni indotte, orientava i comportamenti emotivi, ma non ne generava la qualità.
Mi sembra più utile l’approccio di Shoshana Zuboff nel suo tomo su Il capitalismo della sorveglianza che parla di “individualizzazione”, che è cosa radicalmente diversa dall’individualismo. La prima è una matrice sociale, un processo che determina figure, ceti e assetti della convivenza umana; il secondo ne è il portato, appunto, la conseguenza.
L’individualizzazione è il vero motore culturale e antropologico che ha animato e caratterizzato questa seconda grande modernizzazione, che ancora la Zuboff considera successiva ma discontinua rispetto alla prima che fa coincidere con l’industrializzazione fordista:
nell’industrializzazione – scrive – si soppresse la crescita e l’espressione del sé per favorire la collettività, mentre per la seconda modernità non abbiamo altro che il sé.
Nella prima modernizzazione, che ha attraversato tutto il Novecento, si produceva la formalizzazione degli assetti sociali e dei comportamenti individuali all’interno di agenzie del senso comune, quali erano la famiglia, l’impresa, lo stato, vere fabbriche di uniformità, in cui il filo rosso che le univa era la trasmissione di un messaggio per cui il singolo non conta se non è parte costituente di una massa, o comunità. Una concatenazione di comunità che inevitabilmente davano corso a un’evoluzione basata sul senso collettivo e le identità di massa.
Nell’attuale mondo digitale, invece, l’individualizzazione vede ogni singolo utente della rete produrre, in maniera più o meno autonoma, ma sicuramente in un processo materiale autogestito, le proprie categorie psicologiche e culturali, che lo rendono del tutto autonomo e indipendente dal patto che regge oggi gli stati contemporanei, per cui solo con una rappresentanza adeguata si può condizionare il governo. Questo principio ha pilotato la strutturazione della cosiddetta società dei partiti, almeno in Occidente.
Oggi invece s’è rotto lo specchio, per usare una metafora di Eugenio Scalfari, frammentando in infinite e minuscole schegge, ognuna delle quali riflettono solo l’immagine di un unico soggetto, e solo un accorto assemblaggio può ricomporre la totalità. Rintracciamo in ogni ambito delle attività sociali, persino in quelli più sensibili e decisivi per la nostra vita, come la sanità, questo nuovo squilibrio fra mediatore istituzionale e singolo frammento dello specchio. Come ha scritto efficacemente nel suo saggio sulle identità Childhood and Society Erik Erikson, persino sul lettino dello psicoanalista si sono rovesciate le gerarchie:
il paziente oggi soffre soprattutto perché cerca di capire a che cosa deve credere e chi dovrebbe – o potrebbe – essere e diventare; mentre agli albori della psicoanalisi il paziente soffriva invece soprattutto per le inibizioni che gl’impedivano di diventare cosa e chi riteneva di essere.
Se, autonomamente, la stragrande maggioranza della popolazione è incoraggiata a occuparsi sempre più di se stessa nel trovarsi un lavoro, organizzarsi la previdenza, selezionare l’assistenza, ottimizzare la formazione, inventarsi il proprio svago e tempo libero, cosa che riesce sempre più a fare mediante strumenti che l’affiancano ai grandi apparati pubblici o privati, come sono appunto un computer, un software, un data base, come potrebbe poi il dentifricio rientrare in un tubetto collettivo, in cui tornare a essere massa che delega al buio le proprie decisioni?
Ancora la Zuboff fissa le ragioni di questa sovversione del sé:
il fardello di una vita senza destino prefissato ci ha spinti verso le risorse corroboranti e ricche d’informazioni del nuovo spazio digitale, offrendoci nuovi modi per amplificare le nostre voci e dare forma alle connessioni che desideravamo. A prescindere che lo si consideri un segno di emancipazione o di sottomissione, il fenomeno è talmente radicato da spingerci ad affermare, senza paura di esagerare, che l’individuo in quanto autore della propria vita è il vero protagonista della nostra era.

Diventano così essenziali aspetti della vita individuale che erano stati sempre marginalizzati, o comunque declassati rispetto alle grandi opzioni sociali. Come i desideri, e le ambizioni singole. Già Orwell nel suo iconico romanzo 1984, prefigurando una società automatizzata raffigurava i desideri come “crimini del pensiero” agli occhi del grande fratello. Mentre oggi sono proprio i desideri a legare gli individui ai nuovi poteri della sorveglianza. Come indica nel suo ultimo saggio La Société d’exposition il sociologo francese Bernard Harcourt “il nostro desiderio di attirare l’attenzione è più forte del ritegno e del timore del controllo sociale”, rendendoci esposti e dunque rilevabili e tracciabili dalle grandi piattaforme che scannerizzano la nostra vita. Ma stipulando anche legami sociali reticolari, punto a punto, che determinano grafi lungo cui si stabilizzano momentanee organizzazioni di attività pubblica.
La contrapposizione fra l’extrémité, come i francesi definiscono quella sorta di narcisismo comunicativo che ci porta addirittura a rendere pubbliche le nostre trasgressioni pur di calamitare l’interesse degli altri, e la privacy, come difesa dal controllo verticale, è oggi il nuovo conflitto sociale che riorganizza la politica.
Un conflitto che rompe discipline e subalternità, che sfonda il dominio culturale imperante, almeno quello che si esprimeva attraverso i codici linguistici, come appunto Hollywood, procedendo per occasionali differenze. E rende ingestibile la governance unidirezionale, top down, come l’epidemia cinese sta dimostrando. Al tempo stesso si crea uno spazio inedito, indotto dalla debordante e analitica massa di dati che noi rilasciamo pur di entrare nell’agorà digitale e connetterci con il mondo, che permette a pochi database intelligenti di aggiornare costantemente le nostre identità e determinare le nostre biografie. Proprio quest’altra contrapposizione fra identità e biografie, fra ragioni del nostro essere e decisioni della nostra vita restituisce in questo universo di individualizzazione ruolo e funzione alla comunità.
Un segnale debole che mostra come si possa aprire un varco pubblico nel muro di individualista telecomandato dagli algoritmi lo segnala l’intesa raggiunta dal ministero della sanità italiana con Facebook per agganciare ogni ricerca sul termine coronavirus, in prima istanza e senza ovviamente cancellare il resto, alle informazioni ufficiali dello stesso ministero.
È la prima volta che l’algoritmo è piegato a una ragione di pubblica utilità, e che un soggetto pubblico è in grado di orientare l’apparente efficienza dei sistemi automatici secondo una strategia nazionale. Si configura così non una resistenza ma un’accelerazione dei processi tecnologici, in cui proprio la velocità d’attuazione e la pervasività d’intervento in ogni ambito rende essenziale assicurare affidabilità, sicurezza ed efficienza ai dispositivi. Un’esigenza che la stessa rete ci ha insegnato può essere garantita solo da una condivisione permanente e trasparente dei sistemi di calcolo.
Una lezione che anche la politica dovrebbe studiare: come riorganizzare una forma partito che renda l’intraprendenza del singolo spinta per comporre momentaneamente comunità decisionali? Lo scambio che ancora oggi può rendere un partito funzionale è proprio quello fra partecipazione e deliberazione, rendendo su un singolo argomento il singolo interesse parte della decisione.
Si aprirebbe così una storia nuova, che potrebbe dimostrare come questo mondo digitale non sia “il più grande spazio senza governo”, come ha sostenuto l’ex ad di Google Eric Schmidt nel suo libro La nuova era digitale, ma si proponga come il più grande spazio conflittuale dove si misurano interessi privati e ragioni pubbliche.

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