La lotta di classe (ai tempi del rancore) irrompe a Hollywood, sbancando il botteghino degli Oscar e portando al successo il sudcoreano Parasite. Quattro statuette, le tre più prestigiose (miglior film, regìa, sceneggiatura) e il riconoscimento quale miglior film straniero, a questo punto pleonastico perché in tale ambito andrebbero a collocarsi, da tradizione e regolamento, i film in lingua non inglese, esattamente come Parasite, parlato in coreano. Che invece – per la prima volta nella storia degli Academy Awards, qualcosa evidentemente deve essere cambiato – entra nelle categorie solitamente “protette” e vince, mettendo in fila, alle sue spalle, i più blasonati English spoken. Diciamo, in particolare, Joker, Judy, 1917, C’era una volta a Hollywood, dati per favoriti e invece omaggiati con riconoscimenti per così dire di “consolazione”. Per Bong Joon-Ho, il regista di Parasite, le cronache della notte appena trascorsa parlano di una standing ovation in sala. E, dunque, non si può neanche dire che la scelta sia apparsa eccentrica, spropositata o fuori luogo.
Poco più che cinquantenne, Bong Joon-Ho non nasce cinematograficamente oggi e sa il fatto suo. È sugli schermi internazionali dal 2003 e i suoi film non mancano un festival che sia uno, generalmente piazzandosi nei palmarès. Una filmografia al nero, che mescola con abilità situazioni di genere e propositi d’autore. Semmai, è il consueto etnocentrismo del nostro mercato a renderci, al solito, miopi e ignari. O soltanto pigri, perché quando qualcosa esce magari non ce ne accorgiamo. Ad aprirgli le porte delle nostre sale, mesi fa, era stata la Palma d’oro di Cannes proprio a Parasite, poi premiato anche dal consenso del pubblico. E ci credeva così tanto il distributore italiano, l’Academy Two, erede del primo storico marchio d’essai nel nostro paese, l’Academy di Manfredi e Vania Traxler, da recuperare anche Memorie di un assassino (Memories of Murder / Salinui cheok), il film d’esordio appunto, che farà la sua uscita sui nostri schermi giovedì 13 febbraio. Complimenti per previsione e tempismo, doti che fanno la differenza in un settore assai delicato e “fragile” qual è quello della distribuzione del cinema d’autore e di qualità.
Lotta di classe ai tempi del rancore, dicevamo. Perché il plot del film di Bong Joon-Ho, come si ricorderà, segue le vite parallele di due famiglie destinate drammaticamente ad intrecciarsi: i Kim poveri, che vivono nei bassi, lavoretti e sussidi di disoccupazione, una stamberga regolarmente sott’acqua nella stagione dei monsoni, e i Park ricchi, che di questi problemi certo non ne hanno, comodamente sistemati nella loro villa con ampio giardino ai quartieri alti. Un alto e un basso che, tanto per non sbagliare, corrispondono esattamente al pendolarismo topografico e visivo del film. Non si incontrerebbero mai, e non si degnerebbero comunque di uno sguardo, i Park e i Kim, se i casi della vita non portassero i poveri ad insinuarsi poco per volta nella villa dei ricchi, alle loro più o meno servili dipendenze, non senza sfruttare le occasioni di ribaltamento dei ruoli quando si presentano. E dunque rovesciamento sia, in un crescendo splatter, che peraltro mai rinuncia al dono prezioso dell’ironia (che l’abbiate visto o no, ricordatevi del bunker).
Tramontate le ideologie, non è che le differenze di classe siano scomparse. Semmai, com’è noto, è il ceto medio che va pericolosamente franando verso il basso, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più numerosi. E nell’epoca della globalizzazione già ormai post (vedi alla voce virus cinese, che allo stato non sappiamo come andrà a finire), questo sbriciolarsi delle certezze acquisite provoca l’insorgere di quei populismi che campano, ovunque, di rancore e sui rancori. Ai Kim non par vero di prendere improvvisamente il posto dei Park. E mica lo fanno in forza di un qualche spirito o proposito egalitario. Semplicemente, al posto di. Per un giorno o per una vita. E potrebbe persino funzionare, se tutto andasse per il verso giusto. Facile, no?
Parasite gode di una sceneggiatura in stato di grazia, di buoni interpreti e di una regìa impeccabile. Gli Oscar, perciò, ci stanno tutti. E ci sta anche un rispecchiamento dell’esistente abbastanza implacabile nel segnalare significati che vanno al di là dell’efficacia narrativa. Schierarsi con i Kim o con i Park? Chi sono i veri parassiti? Una volta, magari, scegliere sarebbe stato possibile. Sarebbe stato reso possibile, anche al cinema, se non altro dall’ideologia. Oggi è soltanto una narrazione dark, che non prende partito e gioca volentieri al massacro, donandoci una discesa agli inferi che funge da unica possibile “livella” egalitaria. Di rimedi manco parlarne. E d’altra parte, il cinema fa come sempre il suo mestiere: già metterti davanti una rappresentazione non fittizia della realtà è merito non da poco. Nelle forme e nei modi di una finzione assai poco accomodante ma certamente “raccomandabile”. Da vedere, insomma. E da premiare, come hanno fatto a Cannes e agli Oscar.

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