A proposito del dialogo Landini-D’Alema. Un saggio di Gilberto Seravalli

“Non si tratta solo di ricostruire un sistema di diritti e di protezione, ma anche di cambiare strategia di politica economica smettendo di far perno solo sulla spesa pubblica e affrontando i colli di bottiglia che frenano l’economia italiana”.
GILBERTO SERAVALLI
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PRIMA PARTE DEL SAGGIO

La rivista Italianieuropei (28 gennaio 2020) ha pubblicato: L’orizzonte del lavoro. Dialogo tra Maurizio Landini e Massimo D’Alema. Secondo Landini si è affermata da tempo la concezione secondo cui

è giusto lasciare il mercato [del lavoro] libero da ogni condizionamento […], la centralità del lavoro è venuta meno […e si sono rotti] quei legami sociali e di solidarietà alla base dell’idea che solo insieme si potessero affrontare i problemi.

E questo è stato l’esito della

generale reazione agli effetti che il compromesso sociale del dopoguerra stava determinando [fino agli anni Ottanta del secolo scorso] in termini di crescita, di cambiamento della struttura produttiva ed economica,

quel compromesso prevedendo che fosse il

lavoro con diritti, la modalità attraverso la quale le persone potevano realizzarsi e partecipare come cittadini alla vita democratica del paese.

D’Alema sottolinea che “questa grande trasformazione”, in qualche misura inevitabile (“caduta del muro di Berlino e globalizzazione”), ha portato anche “delle possibilità di miglioramento”.

Il nuovo impegnativo e bel libro di Thomas Piketty (Capital et Idéologie, Seuil, settembre 2019) comincia con queste parole:

Qualunque società umana deve giustificare le sue diseguaglianze […], senza di che è l’insieme dell’edificio politico e sociale che minaccia di affondare (p. 13).

Si potrebbe dire che le diseguaglianze dovute all’“affermarsi del modello culturale neoliberista” hanno avuto qualche giustificazione per D’Alema, molto meno per Landini.

Per quanto la questione sia complessa, un primo ma non superficiale accostamento può aversi esaminando due indicatori: il prodotto nazionale per addetto, che quando aumenta segnala incrementi del dividendo sociale (più benessere potenziale per tutti); e la quota salari, che quando aumenta segnala cambiamenti nella ripartizione del dividendo a favore di una parte ma maggioritaria della popolazione, e quindi minore diseguaglianza sociale. Si dovrebbero poi esplorare almeno le importanti diseguaglianze tra gli stessi lavoratori, di cui si dirà in una futura seconda parte di queste note.

È una forte semplificazione ma aiuta. Si individuano quattro condizioni. C’è il “Paradiso” dove si potrebbe dire che le diseguaglianze sono pienamente giustificate perché diminuiscono e aumenta il benessere collettivo. C’è poi il “Purgatorio alto” dove la giustificazione delle diseguaglianze sarebbe ancora buona, anche se crescono, dato che il benessere collettivo aumenta. La giustificazione sarebbe minore nel “Purgatorio basso” in cui il benessere collettivo cala ma calano anche le diseguaglianze. E c’è infine l’“Inferno” dove le diseguaglianze non avrebbero alcuna giustificazione perché aumentano mentre il benessere collettivo diminuisce.

Secondo Piketty, in effetti, la giustificazione delle diseguaglianze nel secolo Ventesimo e Ventunesimo si basa essenzialmente “sull’argomento meritocratico” (p. 828, testo citato) secondo cui premiare i vincenti è interesse degli stessi perdenti perché tali premi incentivano i più capaci a fare più e meglio dando luogo a risultati collettivi superiori. Tuttavia, siccome tutti sanno che in realtà tale argomento è “ipocrita” perché trascura la diseguaglianza delle opportunità e quindi trascura il fatto che i premi spesso non vanno ai più meritevoli, è suoi risultati che alla fine si basa la giustificazione. Se la diseguaglianza aumenta ma progredisce la produttività e perciò il benessere collettivo attuale e prospettico, essa può essere meglio giustificata rispetto al caso in cui tale progresso non c’è anche se la diseguaglianza diminuisce.

L’argomento meritocratico si rivelerebbe convalidato in entrambi i casi, nel primo in positivo e nel secondo in negativo; ma nel primo caso la “torta cresce” ed è più facile che anche la fetta salari, relativamente ridimensionata, in assoluto aumenti subito e in prospettiva; nel secondo caso in cui la “torta si riduce” è facile che la fetta dei salari, relativamente aumentata, in realtà si riduca in termini assoluti, subito e/o in prospettiva.

Negli ultimi vent’anni diversi paesi industrializzati sono finiti nel “Purgatorio alto” a causa del così detto “disaccoppiamento” tra
produttività (in crescita) e salari, con riduzioni della loro quota. Altri
paesi sono finiti nel “Purgatorio basso” con stagnazione della
produttività e aumento della quota salari. Ben pochi nel “Paradiso”, che
accoglieva negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso la gran parte
dei paesi industrializzati (non a caso si coniò per quella fase la
definizione di “età dell’oro”). Secondo il notevole lavoro di Cyrille
Schwellnus, Andreas Kappeler e Pierre-Alain Pionnier (Decoupling of Wages from Productivity: Macro-Level Facts, OECD Economic Department Working Papers 1373; 2017) condotto su dati 1995-2013, in “Purgatorio alto”
starebbe la maggior parte dei paesi industrializzati (16 su 25) e i più
importanti, mentre altri nove (compresa l’Italia) sarebbero nel
“Purgatorio basso” con stagnazione della produttività ma aumento della
quota salari. L’“Inferno” sarebbe vuoto.

Usando i dati di fonte ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) si sarebbe potuto fare di meglio: come vedremo danno informazioni cruciali specie per l’Italia. I meriti del contributo citato, comunque, sono molti, soprattutto perché risponde alla domanda

la riduzione della quota salari dipende da trend secolari come il cambiamento tecnologico e la globalizzazione o da cambiamenti delle politiche? (p. 5).

Utilizzando anche analisi al livello dei settori e delle imprese, il lavoro conclude che: 1) il disaccoppiamento produttività-salari avvenuto effettivamente in media e nella maggior parte delle economie industrializzate, ma con modalità assai diverse nei diversi paesi, ed è avvenuto all’interno delle imprese più che come conseguenza di cambiamenti nella composizione settoriale e dimensionale dei sistemi produttivi; 2) la componente tecnologica, la riduzione del costo del capitale e la globalizzazione ne spiegano una parte minore; 3) la parte maggiore è derivata dalle politiche e dalle istituzioni che hanno influito sulla sostituzione di capitale a lavoro e sulla distribuzione dei redditi da capitale in maniere diverse nei diversi paesi.

Questa ricerca ha però anche un demerito, come messo in luce da Nada Wasi (Discussion of the paper: Decoupling of Wages from Productivity by Cyrille Schwellnus), perché mancano approfondimenti sui paesi (per quanto in minoranza) nel “Purgatorio basso”, nei quali la quota salari sarebbe aumentata in condizione di stagnante produttività, come sarebbe il caso dell’Italia.

Nei dati ILO ricostruibili dal 2003 al 2018 e proiezioni 2019 e 2020 la quota salari è “corretta” con avanzati metodi di stima dei redditi da lavoro degli autonomi. È il caso di ricordare in proposito che nella contabilità nazionale i salari (compresi gli oneri sociali) sono quelli del lavoro dipendente che figurano nei libri paga delle imprese mentre tutti i redditi da lavoro non dipendente sono classificati come “redditi misti”, e comprendono senza possibilità di distinzione redditi da lavoro (direttamente produttivo, di direzione-organizzazione) insieme a redditi da capitale (profitti e affitto virtuale di immobili, attrezzi, macchine, capitale immateriale di proprietà del lavoratore autonomo). Le indagini alla base della contabilità nazionale non possono individuare i redditi da lavoro compresi nei redditi misti perché il lavoratore autonomo non compila una busta paga per se stesso, e comunque non sarebbe in grado di dire quanto dei ricavi vada a remunerare il suo lavoro e quanto i profitti e l’uso del suo capitale. La stima del “salario” dei lavoratori autonomi può essere fatta solo a posteriori.

Il problema è rilevante. Sono lavoratori automi i professionisti, gli artigiani e commercianti, i coltivatori diretti e coadiuvanti, ma anche “le partite IVA” e tutte le figure di lavoro solo formalmente indipendente cresciute in questi anni. È il 15 per cento di tutta l’occupazione in Europa, ma quasi il 25 per cento in Italia, in questo superata solo dalla Grecia (30 per cento). Tali quote complessive sono più o meno costanti dal 2000, ma nascondono una crescita della componente di autonomi senza dipendenti, nei servizi, non per scelta bensì per mancanza di alternative (Exploring self-employment in the European Union, Eurofound Research Report, 2017).

Le stime più utilizzate del reddito da lavoro degli autonomi prevedono o la ripartizione dei redditi misti, in “salari” e resto, nella stessa proporzione registrata nell’area del lavoro dipendente, oppure l’attribuzione a ciascuna ora di lavoro autonomo del salario orario dei dipendenti a parità di condizioni (settore-attività, età, genere, livello di istruzione), con qualche aggiustamento per tener conto che un’ora il lavoro autonomo “vale” di più di un’ora di lavoro dipendente per maggiore qualificazione e impegno, o – in certi settori e attività – di meno perché poco o male organizzato. Questi aggiustamenti “a naso” sono in sostanza arbitrari e finiscono per lasciare nell’incertezza la significatività dei dati sulle quote distributive. Tra l’altro in seguito alla grande recessione è stato proprio il lavoro autonomo a dividersi più drasticamente tra “vincenti” e “perdenti”: mediamente metà e metà in Europa secondo lo studio Eurofound citato.

L’ILO adotta un metodo (illustrato in The Global Labour Income Share and Distribution, Data Production and Analysis Unit, ILO Department of Statistics – Methodological description; July 2019) che migliora sensibilmente quelli tradizionali arrivando a quote salariali “corrette” con il massiccio uso di microdati individuali ottenuti con le indagini sulle forze lavoro e sulle condizioni delle famiglie. Il metodo assume che i salari orari del lavoro autonomo siano determinati da circostanze come settore-attività, età, genere, istruzione, e variabili omesse, che influiscono sul rapporto tra corrispondente salario orario del lavoro dipendente e autonomo in aumento o diminuzione secondo direzioni individuabili mediante tecniche econometriche, le quali possono suggerire di volta in volta opportuni aggiustamenti calcolati e non più arbitrari, e questo separatamente per autonomi con dipendenti, lavoratori in proprio senza dipendenti, coadiuvanti.

Si ottengono i seguenti risultati per alcuni paesi (tra i 95 di tutto il mondo esaminati da ILO) scelti per relativa importanza e collocati nell’Europa Occidentale (oltre che gli Stati Uniti).

In Francia, Olanda e Svezia dal 2003 al 2020 aumenta la produttività e la pausa 2008-2013 è pienamente recuperata, mentre aumenta anche la quota salari con la più breve pausa 2008-2010; la differenza tra andamento dei salariali corretti e non corretti è assai limitata dopo il 2010.

In “Purgatorio alto” stanno gli Stati Uniti: produttività fortemente crescente con la sola pausa nel biennio 2007-2008, quote salari decrescenti, specie nei dati corretti, e salari crescenti in termini assoluti. Anche Regno Unito, Germania e Spagna assistono a incrementi della produttività, per quanto minori che negli Stati Uniti, con quote salari calanti dal 2010 (senza sostanziali differenze tra gli andamenti dei dati corretti e non corretti) e salari anche qui crescenti seppure solo fino alla crisi del 2007 e dopo il 2015.

In Italia la produttività è diminuita (unico paese tra quelli qui considerati) con solo due modeste pause nel 2007 e tra il 2010 e 2011; e – sorprendentemente – la quota salari è aumentata secondo i dati non corretti ma diminuita secondo i dati corretti: una differenza marcata e capace di decretare la collocazione dell’Italia all’“Inferno” se si considerano gli andamenti dei dati salariali corretti, i quali diminuiscono anche in termini assoluti.

Si deve quindi considerare che la totale mancanza di giustificazione delle diseguaglianze in Italia nel nostro schema (perché la produttività cala ed esse aumentano) dipende dai salari del lavoro formalmente autonomo, il quale comprende lavoratori a bassa remunerazione più di quello dipendente. D’altra parte se il lavoro dipendente è riuscito a difendere i suoi salari ciò non giustificherebbe le diseguaglianze perché la produttività (il benessere collettivo) è calato. Non si tratta quindi solo di “ricostruire un sistema di diritti e di protezione”, proposito sul quale D’Alema e Landini sono d’accordo, ma anche di “cambiare strategia di politica economica smettendo di far perno solo sulla spesa pubblica e affrontando piuttosto i colli di bottiglia che frenano l’economia italiana” (Lorenzo Bini Smaghi: Perché l’Italia cresce meno degli altri paesi europei?).

SECONDA PARTE DEL SAGGIO

A proposito del dialogo Landini-D’Alema. Un saggio di Gilberto Seravalli ultima modifica: 2020-02-12T08:02:41+01:00 da GILBERTO SERAVALLI
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