Ho amato uomini e donne, ora sono felice con una ragazza,
ha raccontato mercoledì sera, senza scomporsi neanche un po’, Elly Schlein, la candidata più votata alle recenti elezioni regionali in Emilia Romagna e ora vicepresidente della Regione, intervenendo durante la trasmissione “L’Assedio”, condotta da Daria Bignardi.
L’annuncio ha fatto subito notizia e ha riacceso un eterno dibattito: fino a che punto la vita privata dei politici dovrebbe essere di pubblico dominio? “Elly poteva mostrare più pudore”, hanno commentato alcuni utenti su Facebook, come a voler dire, “Chi se ne frega?”.
Ci frega, eccome! Non si tratta dell’ennesima scappatella del politico di turno, ma di una giovane donna che all’apice del suo successo politico si prende il rischio di dare in pasto al pubblico la sua sfera affettiva.
Non prendiamoci in giro: su questi temi l’Italia è ancora un paese profondamente arretrato. L’omofobia è ancora una vera e propria piaga sociale. Una forma d’odio che dilaga nella società, a partire dai banchi di scuola, e che può assumere contorni estremamente violenti.
La discriminazione interessa ogni aspetto della vita di coloro che ne sono vittime. Siamo l’Italia dove, nel solo 2019, accade ancora che un ragazzo sia pestato a sangue da un gruppo di omofobi, che una coppia gay sia rifiutata in un locale perché “Qui solo coppie uomo-donna”, che un ragazzo sia cacciato da un taxi perché omosessuale, che un bambino di undici anni sia preso a cinghiate perché si vestiva da donna, o che la proprietaria di un appartamento di Airbnb si rifiuti di affittarlo a una coppia di uomini.
Siamo l’Italia dove tutta una parte politica, maggioritaria, o quasi, nelle intenzioni di voto, semina il terrore nei confronti di quella che chiama l’ideologia del gender e non perde occasione per ribadire che esiste solo un tipo di famiglia, quella tradizionale.
Siamo l’Italia dove gli omosessuali possono unirsi civilmente, senza però poter adottare o avere figli, dove non esiste una legge contro l’omofobia e dove i transessuali sono declassati a poco più che uno scherzo della natura.
In questo paese barbaro, le dichiarazioni di Elly Schlein sono un gesto politico fortissimo, di speranza, che rimbomba, facendo qualche crepa, contro il soffitto di cristallo di un patriarcato fuori tempo massimo. Un patriarcato in ritirata ma ancora in grado – facendo ricorso a una sempre più goffa virilità, che nasconde la sua crescente impotenza – di continuare a tenere prigioniera una miriade di minoranze, ormai consce però del loro poter essere, insieme, maggioranza.
Il coming out di Elly ha quindi profondamente a che fare con il concetto di libertà. Rendendo pubblico il proprio privato la politica ha scelto di vivere con serenità il proprio orientamento sessuale, perché nascondersi vuol dire essere prigionieri del giudizio altrui.
Una scelta che ha i contorni di un sacrificio, perché potrebbe incollarle addosso una scomoda etichetta, ma anche fare di lei quell’esempio di cui la comunità omosessuale e l’Italia tutta hanno bisogno, nella lotta contro un’omofobia e per una società più giusta e inclusiva.

C’è infatti una parte non indifferente di Italia che è pronta ad avere rappresentanti istituzionali che vivono le proprie scelte affettive alla luce del sole, anche quando queste non corrispondono al mainstream. Di fronte a questa crescente accettazione, forse, rischia di meno quel politico che dichiara apertamente il suo orientamento sessuale piuttosto che quello che invece lo nasconde e poi viene scoperto.
Ciò non significa però che tutti i politici omossessuali dovrebbero all’improvviso uscire allo scoperto o, ancora peggio, essere “smascherati”. In una società in cui la privacy è come mai sotto attacco, è importante ribadire con forza il diritto all’intimità, dei personaggi pubblici e non.
In ogni caso, ben vengano gesti come quello di Elly Schlein che forse daranno coraggio, a chi per tanti motivi ancora non ce l’ha, di liberarsi e liberare.
Il fenomeno, ovviamente, non è solo italiano. Negli ultimi dieci anni, l’Europa ha cominciato ad avere i suoi capi di governo dichiaratamente omossessuali: la prima è stata Johanna Sigurdardottir, apertamente lesbica, primo ministro islandese dal 2009 al 2013. È stata poi la volta di Elio di Rupo in Belgio, di Xavier Bettel, in Lussemburgo, di Leo Vardkar in Irlanda e di Ana Brnabić in Serbia.
Sempre nella cattolica Irlanda ha fatto notizia in questi giorni il bacio del candidato dei verdi Roderic O’Gorman – che ha vinto un seggio alle elezioni nazionali – al suo compagno, Ray Healy. Un bacio ripreso in diretta nazionale, che ha trasmesso un messaggio fortissimo a tutto il paese.

E poi c’è Pete Buttigieg, il primo candidato dichiaratamente gay ad avere qualche chance di vincere le primarie del Partito democratico e puntare a diventare il primo presidente gay degli Stati Uniti.
La storia del suo coming out s’intreccia con una carriera politica folgorate. A soli 29 anni, nel 2012, Buttigieg diventa sindaco di South Bend, città dell’Indiana, stato dove dal 2013 è governatore Mike Pence, attuale vice-presidente degli Stati Uniti e bestia nera della comunità LGBT.
A quell’epoca, Buttigieg non aveva ancora dichiarato apertamente la sua omosessualità. Lo fece solo dopo essere stato chiamato a servire – durante il suo mandato da sindaco – come soldato in Afghanistan, nel 2014. Fu solo allora che si rese conto che avrebbe dovuto fare i conti con la sua identità in pubblico.
Sono un uomo adulto, possiedo una casa, sono il sindaco della mia città, sono un militare e se vengo ucciso qui in Afghanistan morirò senza aver mai conosciuto l’amore,
questa la riflessione che spinse Buttigieg a smetterla di nascondersi.
Pete uscì allo scoperto pubblicando un editoriale sul South Bend Tribune, il giornale della sua città, dove si legge:
Ero già in età adulta quando mi sono deciso a riconoscere il semplice fatto che sono gay. Mi ci sono voluti molti anni di tensioni e crescita interiore per accettare che essere omosessuale è parte di quello che sono, come il fatto di avere i capelli marroni…
È per me chiaro che in un momento come questo [nel 2015 il matrimonio gay diventa legale in tutti gli Stati Uniti] essere più aperto sulla mia omosessualità potrebbe fare del bene agli altri. Per uno studente del posto che fa fatica a fare i conti con il fatto di essere gay, può essere d’aiuto che il suo sindaco gli dica: la tua comunità avrà sempre un posto per te. E per un abitante conservatore, di un’altra generazione, il cui malessere verso gli omossessuali è in parte dovuto al fatto di non conoscere nessuno che è dichiaratamente gay, forse, un volto familiare come quello del suo sindaco, potrà ricordargli che partecipiamo tutti a questa sfida come una comunità.
Rendendo pubblico il suo privato, Buttigieg ha avuto il coraggio di dare voce a chi non l’aveva, in un momento in cui la società dell’Indiana era lacerata, perché il governatore dello stato, Mike Pence, firmava il “Religious Freedom Restoration Act”, provvedimento che permise ai commercianti dello stato di negare i propri servizi agli omosessuali per convinzione religiosa.

Quattro anni dopo, tuttavia, la corsa alla presidenza di Buttigieg è rivelatrice dei paradossi che possono accompagnare la candidatura di un esponente delle minoranze.
Parte della comunità omosessuale, ma non solo, rimprovera infatti a Buttigieg di essere gay senza essere “queer”, ovvero di avere una condotta che ricalca troppo quella di un eterosessuale. Un problema quello dell’essere non abbastanza o troppo, con il quale fanno già da tempo i conti le donne impegnate in politica, o gli esponenti di altre minoranze. Un problema che mostra come certi stereotipi, anche all’interno delle minoranze, sono difficilissimi da eradicare.
Un precedente su tutti: Barack Obama, che non è mai stato considerato abbastanza nero da parte della comunità africano americana.
Riuscirà Buttigieg a seguire le orme di Obama? Troppo preso per dirlo. In ogni caso, comunque vada, la sua candidatura è l’ennesima crepa nel famigerato soffitto di cristallo e, solo per questo, è già una mezza vittoria.

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