Che malinconia! Sabato mattina, disciplinatamente, sono andato a votare per il rinnovo degli organismi direttivi dell’Inpgi (l’Istituto di previdenza autonomo dei giornalisti). Ho evitato di votare online: volevo rincontrare colleghi e amici.
Seggio in via Lucina, a un passo dalla Camera dei deputati. File lunghissime per “attivi” e “passivi”, così c’invitavano a fare la fila dividendoci tra chi lavora e chi è pensionato (non c’era un modo più cortese di farlo?). Colleghi sparsi che volantinavano come ai vecchi tempi in cerca di preferenze, spiegando le motivazioni di ognuno. Capannelli animati di discussione lungo la stradina. Particolarmente animati, perché in ballo c’è l’autonomia dell’Istituto o la sua processuale confluenza nell’Inps: gli eletti dovranno provare a fare l’una o l’altra cosa. Altro problema sullo sfondo è pure il destino della Casagit e la sua riforma (la Cassa autonoma di assistenza integrativa dei giornalisti).
Per entrare nel merito, ci vorrebbe spazio e bisognerebbe avere dati e documenti: non è questa la sede. Mi limito ad annotare che la confluenza nell’Inps è probabilmente inevitabile. Però non è questo lo scopo di questa breve nota. Mi limito a segnalare impressioni ricavate dopo due ore di chiacchierate con colleghi e amici in una sorta di rimpatriata elettorale.

La categoria è al collasso. Il lavoro giornalistico è diventato sempre più altro rispetto al passato: precario, sottopagato, a metà tra esperti di grafica e computer. Chi ha un lavoro garantito si sente sott’attacco, ha paura ed è ricattato. Ho incontrato solo amici che mi parlavano delle ristrutturazioni in atto per l’ennesima volta nelle loro testate: stati di crisi, casse integrazioni, prepensionamenti, uso di tutti gli strumenti pubblici previsti come ammortizzatori sociali.
È così per tutti: quotidiani nazionali e locali, tv, agenzie, eccetera. Unici garantiti: gli assunti (non i precari) in Rai e Fininvest, che finiscono per essere tra i pochi le cui aziende pagano puntualmente i contributi all’Inpgi. I racconti sono stati tutti univoci e senza speranza. Eppure c’era ancora chi, tra i capannelli, parlava di come recuperare la “fissa”, la clausola contrattuale che gli editori dicono di aver usato per rendere più dolce la crisi e che i giornalisti hanno visto evaporare.
Nella fila dei pensionati “passivi”, ci si consolava ascoltando i colleghi più giovani: “Forse noi l’abbiamo sfangata. Non possono toglierci la pensione”. “Questo mestiere è morto”, il coro unanime che si sollevava tra gli “attivi”. Tra quest’ultimi, sembrava di ascoltare i commenti di vittime designate al plotone d’esecuzione: licenziamenti minacciati quasi dappertutto con l’unica speranza di trovare soluzioni individuali o di rinvio.
Nei capannelli, riconoscevo a fatica – solo nei colleghi più anziani – la categoria che fino a dieci/quindici anni fa si considerava la più coccolata e privilegiata d’Italia per status e salari. Ricordo ancora le riunioni dopo il 2008 – anno dell’arrivo della drammatica crisi economica che permane – in cui, quasi isolato, segnalavo il pericolo di una decadenza/trasformazione del settore per via delle innovazioni tecnologiche e del tendenziale ridursi al lumicino dei sostegni pubblici all’editoria.
Facevo notare pure le tendenze internazionali: negli Stati Uniti e in Francia i giornali erano in affanno e iniziavano a chiudere sotto i colpi di internet, dovevano cambiare e stavano cambiando. Mi sforzavo di spiegare come i giornalisti erano organizzati in altri paesi (ordine o non ordine di categoria?). Mi sentivo ripetere:
Ma in Italia la politica ha sempre avuto bisogno di giornali e giornalisti, vedrai che alla fine una soluzione si trova. Non drammatizzare.
E così si è andati avanti senza riforma dell’accesso alla professione, con scuole di giornalismo di varia entità, senza prevedere le conseguenze di Internet su giornali e fonti di informazione. Si è lasciato tutto com’era mentre c’era bisogno di una rivoluzione nelle teste e nel lavoro per non morire. Si è confidato in privilegi e tran tran. Il risultato è ora davanti agli occhi di tutti: le edicole chiudono, ogni editore licenzia o minaccia o ristruttura. Al seggio di via in Lucina c’era dunque molta malinconia. E anch’io – pur “passivo” – non mi sento troppo bene, per dirla alla Woody Allen.

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